Capitolo 18

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.18.

SETH

La videochiamata cessò, e la sala piombò nel buio più totale

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La videochiamata cessò, e la sala piombò nel buio più totale. Nathaniel.

Era come se la gravità fosse triplicata sulle spalle e volesse schiacciarmi al suolo. Il peso delle responsabilità, e dell'incolumità degli altri, gravava su di me, non sui miei compagni. Non sulla Congrega dei Sei.

Uscii di fretta dalla stanza, boccheggiando in cerca d'aria e rifugiandomi fuori dalla Tana, all'aperto, dove il freddo faceva meno male delle mie meditazioni, e al sicuro, fra gli alberi della foresta, per respirarne avide bloccate d'ossigeno gelido. Dovevo starmene per conto mio; riflettere sulla strategia militare più adeguata, e su ogni variabile che sarebbe potuta succedere di lì in avanti. Prendere in considerazione qualsiasi evenienza, persino la più drastica e...

«Seth».

Un accenno di voce tenorile, quella di Silene, ed ero già suo; lontano dalla razionalità e dal dolore. Avrei voluto abbandonarmi a quel sentimento, ma non potevo. Chiusi gli occhi e attesi l'inevitabile. Inalai un nuovo lungo respiro e mi voltai indietro, guardando la femmina. Esalava nuvolette condensate dalle labbra, dissolvendosi nel vuoto. Lei era a pochi passi di distanza, preoccupata. Provai la solita sensazione di calore al centro del torace. La sentivo spesso quando si trattava di lei, come se il mio cuore prendesse fiato, espendendosi. Ero inesorabilmente stregato da lei. «Torna dentro o ti prenderai un malanno», la scacciai via.

«Stai bene?», chiese lieve, fissandomi coi suoi grandi occhioni da cerbiatta, stringendosi le braccia al corpo per proteggersi dal freddo.

Le fronde degli alti arbusti nascondevano il cielo infuocato. Presto sarebbe calata la notte. «Torna dentro Silene. Io devo... starmene per conto mio adesso», dissi ancora senza osservarla.

«Non me ne vado se non mi dici che stai bene», insistette, avvicinandosi di un passo.

La brezza serale scopigliò i miei capelli facendoli ricadere sulla fronte. I suoi al contrario, sciolti e lunghi, danzarono nel vento. «Posso mai stare bene secondo te? Sapendo che un compagno, uno dei miei più cari amici, è prigioniero del nemico, della tua gente?!», sbottai: «Sai perché hanno chiesto quattro giorni e non uno?», mi accostati a lei, nervoso.

Silene scosse la testa, non accennando mai a distogliere lo sguardo dal mio, e indietreggiare. Non si mosse neanche quando avanzai ulteriormente, ma la vidi stringere con entrambe le mani il tessuto morbido e scuro della camicia da notte. «Per torturarlo, prima. Storcergli informazioni o peggio, segreti di stato che solo noi conosciamo. Vuoi ancora chiedermi come io stia?», domandai ironico e visibilmente irritato, a un soffio dal suo viso. Potevo specchiarmi nelle iridi scure e vedervi il mio volto, distorto dalla collera. Ero troppo vicino; e sarebbe bastato poco per chinarmi e saggiarne la pelle con la lingua. Merda! Mi costrinsi ad allontanarmi, sprimacciandomi la faccia come se fosse stata un cuscino. Volevo quasi prendermi a pugni da solo. Buttai fuori l'aria dai polmoni per calmarmi: «Sto bene, sono solo... stanco. Esasperato da questa situazione del cazzo, va bene? E tu non migliori la situazione. Adesso vai», la congedai, tornando a darle le spalle, e incamminandomi fuori dal sentiero. Prima che potesse aggiungere qualsiasi altra cosa la mia andatura aumentò, finché non iniziai a correre e divenni quadrupede, trasmutandomi, e sparii fra la vegetazione dormiente.

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