Capitolo 25

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.25.

SETH

«È successo qualcosa?», la ignorai

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«È successo qualcosa?», la ignorai. Silene mi seguiva, nel folto del bosco, intimorita e preoccupata. Le chiesi di farlo, ordinando agli altri di lasciarci soli. Qualcuno aveva tentato di fermarmi, Jude forse, ma non volevo saperne delle sue proteste. Ginevra provò a lamentarsi, e da me ricevette soltanto indifferenza; in quel momento non riuscivo a fingere di sopportarla. Solo perché possedeva un bell'aspetto ed era la mia promessa non significava che dovessi tollerarla. Anche Silene era bellissima; possedeva un fascino differente, più innocente e puro. Mi ricordava il più fine cristallo pregiato e fin troppo fragile per non infrangersi al suolo in mille pezzi al minimo urto.

Dall'alto aveva iniziato a pioviginare, ma nell'aria si respirava presagio di tempesta. Il terreno era morbido sotto le suole delle scarpe e presto, sarebbe stato fangoso e difficoltoso da percorre. Gracili rametti, e foglie secche, scricchiolarono ad ogni nostro passo. Lei dovette accelerare il suo per riuscire a starmi dietro. «Seth, che succede? Perché non rispondi?!», domandò ancora. Ormai era la terza volta, quella; frastornata dal mio pessimo umore, mi seguiva docile. Continuai a rimanere in silenzio, senza guardarla. Non ne avevo la forza. Uccidere era facile per me, fin troppo se si trattava di erbivori; ma Silene... Silene era un'altra creatura. Era la mia Silene.

A un tratto la udii fermarsi e così dovetti farlo anch'io. Mi voltai di trequarti, rivolgendole uno sguardo fugace, trovandola a un metro di distanza, col viso rigato di lacrime e pioggia. «Stronzo!», inveì, agitata e nervosa, stringendosi la gonna scura.

Accennai un sorriso d'orgoglio nonostante mi sentissi devastato. Era coraggiosa la mia preda, ma questo l'avevo appurato in diverse occasioni.

«Dimmi cos'hai. Parla con me», singhiozzò in seguito.

Rimasi dov'ero, a osservarla. La chioma bruna e sciolta, attaccata alla cute a causa dell'acquazzone che ci aveva colti di soprassalto, le donava quasi quanto il chiarore del plenilunio. Mi spezzava il cuore vederla in quello stato, affronta; ma non potevo cederle: «Cosa vuoi che ti dica? Abbiamo vissuto qualcosa di proibito e impossibile. E adesso è finito», proseguii.

Lei mi aggirò per osservarmi in faccia: «No, non dire così. Io non mi pento di niente», mi bloccò, aggrappandosi alle mie braccia per avere un sostegno a cui reggersi. La voce grondava speranza, amore, compassione. Era talmente minuta ed esile, che sarebbe bastato poco per spezzarle il collo.

«Dovresti invece», le dissi duro, guardandola dritto negli occhi: «Fissaci bene. Io sono un leone, uno dei predatori più pericolosi al mondo, tu una cerbiatta, e neanche della taglia giusta per riuscire a scappare da un qualsivoglia carnivoro. Siamo talmente diversi, da essere nemici non solo politicamente e bellicamente, ma anche naturalmente».

Un tuono squarciò le nubi, invogliando l'acqua piovana a scrosciare con fragore, abbagliandoci per un'istante. Silene compì un passo indietro, abbandonando le braccia lungo i fianchi. I suoi occhi si sgranarono, mostrando quanto fossero grandi, lucidi, e neri: «Cosa vorresti dire con questo?», sussurrò nel caos.

«Che il nostro momento, quello che abbiamo condiviso, è stato un errore», sputai fuori. E purtroppo, era vero.

Mi colpì, schiaffeggiandomi in pieno viso, e arrossandomi uno zigomo. "Ti odio" urlò, e questo, causò più danno del colpo subito.

«Siamo in due allora», le rivelai in tono baritonale, mentre la pioggia inzuppava le nostre figure. «Sei libera, vattene via», pronunciai prima di darle le spalle, e tornare indietro.

«Cosa?! Mi lasci andare in questo modo?! Che fine ha fatto il: "Sei al sicuro solo con me" e "mercanteggiare per riavere il tuo compagno di battaglie"?! Rispondimi!», gridò ancora sull'orlo del pianto.

«È morto! Lui è morto, Silene. E per questo mi hanno ordinato di ucciderti! Non hanno la minima idea di quello che ci sia stato fra noi, ed è meglio per entrambi che non lo vengano a sapere. Tra poco sarà l'alba e non ci sarà alcun predatore a cacciarti, ma solo prede ad aiutarti», urlai di rimando, bloccandomi a una decina di passi da lei.

Sussultò: «Morto...?!», le sfuggì dalle labbra, e il sangue le defluì dal viso.

Risi di quella reazione, ma non ero affatto divertito: «Cosa ti aspettavi dalla tua gente?! Siamo nemici, non ci accetteremo mai». Era la conclusione della nostra storia senza che fosse mai incominciata, e dovevamo accettarlo. Dovevamo smettere.

«E quindi?! Finisce tutto così?!», strillò ancora, prima che la frase fosse divorata dalle intemperie.

Non voleva proprio demordere. Mi girai un'ultima volta verso la sua esile sagoma. Non lo vorrei. «Sì, è così che finisce», sentenziai afflitto.

Silene scosse il capo con forza e corse da me, buttandomi le braccia al collo e stringendomi a sé. Ricambiai con la stessa disperazione, baciandole ripetutamente il viso bagnato mentre assaggiavamo l'uno la pelle dell'altro con labbra, lingua, e denti. La sollevai di peso da terra, poggiando la sua schiena contro al tronco di un albero, e facendomi spazio fra le sue gambe. La gonna color vinaccia, zuppa d'acqua, si ritrasse sopra le morbide cosce, e la virilità, sotto la divisa militare, strusciò sul suo dolce pube. La baciai con voracità, percependo le sue dita affusolate armeggiare con la zip dei miei pantaloni, frettolosamente. Stilettate di pioggia continuarono inesorabilmente a bagnarci, lavando via le nostre differenze. Eravamo schiavi della nostra passione e non volevamo smettere. Io non volevo smettere.

 Io non volevo smettere

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