Capitolo 6

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.6.

SILENE

La camera da letto in cui ero stata segregata sembrava la stanza reale di una gran dama

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La camera da letto in cui ero stata segregata sembrava la stanza reale di una gran dama. «Incredibile», bisbigliai nel silenzio della quiete, fissando ciò che mi attorniava.

Gli spazzi ampi e ariosi rendevano il mobilio in legno di noce ritocchi pregiati. Finemente intagliato di particolari laccati, intarsiato con foglie d'oro e di bronzo, ricordava un arredo barocco. Il letto a baldacchino, con pesanti coperte ricamate in fili d'argento, era disposto al lato sinistro di una balconata vasta quanto un campo da tennis. Le vetrate della portafinestra erano socchiuse, e le tende, di cotone bianco, rilasciavano una fragranza di sapone a ogni soffio di vento che le gonfiava.

Senza fiato, avanzai di qualche passo, scorgendo l'orizzonte: ettari di chiome spumose si estendevano a perdita d'occhio. E al disopra di queste, tutto il firmamento sfavillava di luce stellare, in un gioco di luminescenze e brillii immersi nella vastità delle tenebre.

Era l'apoteosi della notte.

Strinsi i lembi del suo indumento fino a sbiancarmi le nocche.

Detestai ogni cosa e decisi che avrei dovuto andarmene alla svelta, a costo di potermi rompere l'osso del collo. Mi sarei calata giù dal balcone e avrei trovato rifugio nelle profondità della foresta. Potevo farcela, in qualche modo l'avrei spuntata!

A mali estremi, estremi rimedi.

Determinata, arraffai lenzuola e coperta, legandole fra loro. Le fissai all'ultima gamba del letto e buttai il resto oltre il parapetto in granito. Macinai pochi metri, affacciandomi e sbilanciandomi in avanti, verificando se il tutto fosse abbastanza lungo. Non lo era, ma con qualche sporgenza e appiglio nel muro, sarei stata in grado di raggiungere il prato al disotto. Entusiasta nell'evadere, non ponderai altre possibili opzioni.

Quando mi ritrovai appesa a mezz'aria, al limite del lembo ben lontano dal suolo, il maledetto carnivoro arrogante sbucò sotto di me, blaterando qualcosa al cellulare e passeggiando tranquillamente in giardino.

Nella penombra serale la vista non dava il meglio di sé, ma bastava l'udito a compensarne la mancanza: «Sì, funzionerà. Sarà un'operazione facile, la preda è inoffensiva e non ci darà nessun problema. Riavremo indietro l'orso polare col minimo sforzo».

Brutto sacco di pulci troppo cresciuto! Ascoltavo i suoi movimenti come se avessi potuto prevederli. Attesi impaziente che tornasse dentro per riprendere la discesa e correre a nascondermi da tutti loro fino al sopraggiungere dell'aurora. Dovevo solo attendere il momento propizio.

All'improvviso udii uno strappo e precipitai nel vuoto.

«Ricevuto, madre. Ci vediamo dop...», interruppi la sua chiamata finendogli addosso.

I suoi sensi affinati mi salvarono la vita.

Seth si voltò di scatto, prima che fosse colto di sorpresa e, quando lo spinsi a terra, lo trovai di petto piuttosto che di schiena. Finii spalmata su di lui, e col viso a un soffio dal suo. Ogni parte di me gli collideva contro; ma ciò che destabilizzava di più erano gli occhi.

Lo sguardo del predatore era magnetico per la preda.

Aggrappata alle ampie spalle persi la cognizione del tempo, affogando in iridi oltremare.

Mi guardava come se fossi stata un'allucinazione. «Tu devi smetterla di provare a farti ammazzare. Potresti benissimo riuscirci da sola», bofonchiò infine, respirando con affanno.

Maledetto. Strinsi il tessuto scuro, rancorosa e con la voglia di piangere: «Presumi che sia questo il mio intento? È colpa tua se sono qui! Credi di potermi rapire e passarla liscia solo perché sei il futuro alfa dei notturni?!», singhiozzai furiosa, colpendo il suo ampio torace. Fu come prendere a pugni il muro. Una scossa di dolore mi attraversò il braccio destro, ma non mi fermai. Le lacrime colarono copiose lungo le guance, finendo lungo il suo mento, e svelandogli la mia debolezza.

Lacrimosa, mi odiai. Il leone al contrario restò impassibile.

I colpi non lo scalfirono. «Sarai anche più forte di me, ma questo non ti arroga alcun diritto», nell'intento di scagliare un altro pugno, mi bloccò entrambi i polsi, ammutolendomi all'istante. Con un colpo di reni invertì le nostre posizioni, e io mi ritrovai prigioniera sotto alla sua prestanza fisica.

Il suo busto avrebbe potuto schiacciare il mio senza batter ciglio.

La schiena premuta contro il prato, l'erba che solleticava la pelle esposta, e la brezza invernale decantava le foglie, furono sensazioni marginali quando, a oscurare il cielo stellato, fu l'incombezza della sua figura sulla mia. «Zitta, e ascoltami bene, stupida e sciocca cacciagione, a quest'ora nulla e nessuno avrebbe vietato a me o ai miei compagni di ucciderti e divorarti. Per la Legge Naturale avrei anche dovuto farlo. Ricorda, eri sul nostro territorio, a un orario illecito per i diurni. Eppure, diventando un nostro ostaggio, ti ho salvato la vita, ma se continuerai a stuzzicarmi in questo modo...», ci fu una pausa, avvicinandosi al mio orecchio sinistro. Mormorò con tono baritonale e minaccioso: «Ti assicuro che non vedrai l'alba», sussurrò sinistro e facendomi sussultare. Percepii il suo alito caldo sul collo. Il punto più esposto e vulnerabile. Tremai, e a stento trattenni altre lacrime. Serrai gli occhi mentre sentii strusciare il naso sulla mia giugulare; quando ci passò sopra la lingua, mi lasciai sfuggire un gemito di paura. Soltanto a quel punto, soddisfatto del terrore scaturito, si sollevò vittorioso, ottenendo ciò che voleva e dimostrando la sua superiorità. «Ora alzati, devi vestirti e prepararti. Stasera sei l'ospite d'onore», il timbro tornò udibile, e il tono velato di sarcasmo divenne l'ennesima umiliazione che subii.

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