Capitolo 13: SIRENE, Parte 2

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       Jason si chiese in quale guaio si sarebbe cacciato. Per una ragione a lui stesso sconosciuta, varcò il vano della porta. Si sedette su una sedia tutt'altro che comoda, piegandosi in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia. Natasha si levò le scarpe con un calcio e si sdraiò sul letto, stiracchiandosi. Il racconto ebbe inizio: — Sono nata in Russia, diciannove anni fa, in una famiglia di contadini. Da piccola vedevo cose che gli altri bambini non vedevano. All'inizio, i miei genitori pensarono che le mie fossero semplici fantasticherie, il frutto di un'immaginazione sbizzarrita. Col tempo, però, le cose non cambiavano. Ai miei quattordici anni chiamarono un uomo. Dissero che era un dottore, ma mentivano. Senza rendersene conto, ovviamente. Avevano assunto uno stregone senza esserne consapevoli, poiché non potevano vedere i suoi Marchi, ma io sì. L'uomo mi spiegò tutto a proposito del Mondo Occulto. Quella notte mi portò alla Biblioteca Eterna, dove i Prediletti Ancestrali effettuarono su di me alcuni test. Al mio risveglio, lo stregone mi disse che attraverso una serie di rituali avevo dato prova di essere una Prescelta. Mi fece conoscere un uomo di nome Filimon, un Nephilim disdegnato dall'Istituzione Primordiale ed esiliato a Mosca, che insegnava ai ragazzi orfani dotati della Vista a combattere e a difendersi dai pericoli del Mondo Occulto. Li allenava duramente, i bambini diventavano veri e propri guerrieri nel giro di pochi anni. Quel luogo, agli occhi degli Imperfetti, appariva come un semplice orfanotrofio, per cui noi lo chiamavano così: l'Orfanotrofio. In realtà aveva tutta un'altra funzione, oltre a quella di offrirci riparo. — Fece una pausa, si passò la lingua sulle labbra, lo sguardo basso. Poi riprese: — Dopo avermi presentata a Filimon, lo stregone mi riportò a casa. Tutto ciò che mi disse prima di dileguarsi nel nulla fu: "Sai cosa fare". E io, effettivamente, sapevo cosa fare. Scrissi una lettera d'addio ai miei genitori adottivi, dicendo loro che avevo scoperto di essere stata adottata e che avevo bisogno di trovare la mia strada. Solo quando l'avessi trovata sarei tornata. Fatto ciò, mi recai all'Orfanotrofio. Filimon diventò il mio maestro e il mio allenatore, e io la sua Seconda. Una volta completato il mio addestramento, ossia tre anni dopo la mia iniziazione, lo stregone mi si ripresentò. Insieme intraprendemmo un viaggio, con lo scopo di trovare i miei veri genitori. Girammo in lungo e in largo, fino ad arrivare qui, senza mai trovarli.
Lo sguardo di Natasha, oscurato dalla frangetta mora, sembrava errare nel nulla, tanto lontano nei pensieri da permettere a Jason di scorgere nei suoi occhi i ricordi di un'infanzia alternativa: bufere di neve, lividi, sangue, pianti, gambe e braccia doloranti, incantesimi, un emblema indecifrabile e vacuo.
Sogni mai realizzati.
— Non ti è mai venuto in mente di recarti alla Magione Dirigente di Mosca? Lì ti avrebbero aiutata e accolta con calore. Molto probabilmente ti avrebbero adottata.
Un lampo di rabbia attraversò lo sguardo di Natasha. — È solo colpa dell'Istituzione Primordiale e del Senato, se io non ho tuttora idea di chi siano i miei veri genitori — latrò. — Se la Magione Dirigente e il Centro Direzionale Primordiale di Mosca avessero fatto il loro dovere, monitorando ogni Prescelto della città e tenendo d'occhio le faccende politiche di Mosca, ora io saprei chi sono.
— Di questo non puoi essere certa — controbatté Jason. — Non sai come, dove e quando hai perso i tuoi genitori. E la possibilità che ti abbiano abbandonata di loro spontanea volontà non va esclusa. Tutto questo potrebbe non avere niente a che fare con il Centro Direzionale Primordiale di Mosca.
— E invece sì! — obiettò Natasha con un tono di voce di qualche ottava più alto. — L'Istituzione Primordiale è il nemico, punto e basta. Una volta cresciuta mi sono informata a proposito dei Nephilim scomparsi nel corso degli anni, recandomi sia alla Magione Dirigente che al Centro Direzionale Primordiale di Mosca. E non ho trovato niente. Allora ho supposto che la mia storia non avesse niente a che vedere con Mosca, e grazie all'aiuto di Filimon sono riuscita ad accedere alla Biblioteca Eterna. Non ho avuto troppi problemi: i Prediletti Ancestrali che anni prima avevano confermato le mie origini di Prescelta si ricordavano di me, e mi permisero di scartabellare tutti i loro archivi. Non chiusi occhio, restai sveglia giorno e notte, consultai tutti i documenti archiviati che potessero ricondurre in qualche modo ai miei genitori. E ancora una volta: niente.
Jason la guardò. Poi distolse lo sguardo, non sapendo che dire.
— L'Istituzione Primordiale, o meglio, il Senato — disse Natasha, a denti stretti — nasconde la verità. Io intendo innanzitutto scoprire cosa sia successo davvero ai miei genitori, e dopodiché voglio capire per quale motivo il Senato ci imbottisca di bugie.
Jason congiunse le mani e intrecciò le dita. — Sei così diffidente nei confronti del Senato? — le chiese.
— Sì — rispose Natasha, senza alcuna esitazione. — E dovresti esserlo anche tu. Dovremmo esserlo tutti. Io non credo nell'Istituzione Primordiale, Jason. Ed è sbagliato continuare ad assecondare il Senato.
Jason la squadrò. — Sei una Prescelta e non credi nell'Istituzione Primordiale?
— Già — disse lei.
— E in questi ultimi anni tu e il tuo stregone come avete proceduto? Quale pista avete seguito per ritrovare i tuoi genitori? Su quali criteri vi siete basati?
Natasha inarcò le sopracciglia e sbuffò. — Questo di certo non è affar tuo.
Jason sospirò. — E adesso dov'è il tuo stregone? –– le domandò.
Natasha lo fissò. –– È morto –– disse, la voce ferma e atona. Poi lui le chiese: — Potresti mostrarmi il tuo emblema? — E allora sollevò il leggero tessuto della maglietta rossa che portava, scoprendo la pancia e gli addominali scolpiti. Poco sotto l'ombelico, una sottile linea nera tracciava la circonferenza del bassoventre. — È apparso poco dopo il mio arrivo all'Orfanotrofio. Come ti ho detto, ho già passato in rassegna tutti i documenti che avrebbero potuto darmi qualche indizio. Non si è mai visto un emblema del genere. Ma io lo so, lo so, che qualcuno ci deve pur essere. Sono stata adottata, e che si trattasse di una scelta consapevole dei miei veri genitori o di un mero incidente, ho una famiglia, da qualche parte, nel mondo. Devo solo scoprire qual è, e soprattutto, dov'è. Per questo motivo non so dirti quale sia il mio cognome. Non ancora. Ma se c'è qualcosa di cui sono certa è che riuscirò a trovare i miei veri genitori. Sono lì fuori da qualche parte, ad aspettarmi. Lo so, lo sento. E sta' pur certo che riuscirò nel mio intento, costi quel che costi.
Jason non sapeva esattamente cosa pensare: fino a qualche minuto prima, Natasha gli era sembrata una sorta d'ombra misteriosa. Ma adesso, era una sagoma addirittura accecante.
— E come spieghi la tua presenza alla festa illegale dei Senzaclan? — le chiese.
Natasha scoprì buona parte del collo e con un dito indicò due puntini neri di sangue raggrumato. — È solo un vizio. — Si ricoprì frettolosamente, sotto lo sguardo vagante di Jason.
— E ora come farai senza il tuo stregone?
Natasha non rispose.
— Ma certo — si raccapezzò il ragazzo. — È per questo che ti sei fatta scortare fin qui senza protestare. È per questo che ti sei costituita. — Annuì, confermando a sé stesso la validità della propria ipotesi. — Tu vuoi il nostro aiuto.
— Più o meo — disse lei, sorridendo. Quando sorrideva, pensò Jason, sembrava assumere l'aspetto di una pianta carnivora: derisoria e fatale.
Natasha rise appena. — Sin dal nostro primo incontro, non ho potuto fare a meno di rimanere sbalordita dalla tua perspicacia. E lo ribadisco.
— Perché Amsterdam? — le chiese lui, secco.
— È qui che è morto il mio stregone — rispose lei. — E ora sono sola. In realtà non prevedevo di recarmi alla Magione Dirigente di Amsterdam, ma sei stato tu a trovarmi. Non confido nel vostro aiuto – anzi, a dirla tutta non credo che non potreste aiutarmi in alcun modo –, ma approfitto volentieri della vostra ospitalità. Qui le cose sembrano muoversi piuttosto in fretta, col ritorno di Debora. Potrebbe essere interessante assistere al corso degli eventi. Trovarsi nel posto giusto al momento giusto, farsi gli alleati migliori.
Il Nephilim tacque, rielaborando le informazioni appena raggruppate. Non sapeva se fidarsi o meno di Natasha, se considerarla amica o nemica. Si disse che forse avrebbe fatto meglio a lasciarla dove l'aveva trovata.
— Hai avuto le tue risposte — dichiarò d'un colpo la Prescelta, improvvisamente brusca. — Ora vattene.
Jason, confuso, schiuse le labbra. Natasha si mostrò impassibile e poco paziente, così lui, con riluttanza, raggiunse l'uscita.
— Buonanotte.
La porta, sbattendo, gli sfiorò il naso.

Gli occhi di Rina si erano ormai abituati all'oscurità notturna. Lo scricchiolare dei rami e lo stormire delle foglie al soffio del vento rendevano la foresta retrostante la Magione più inquietante di quanto non fosse già.
Erano le nove e cinquantanove. Rina aspettava all'entrata del bosco, impaziente. Stranamente impaziente.
— Principessa Rina.
Era Snorri, l'asservito brownie della Regina Iselle.
Rina si voltò verso l'orrendo esserino.
— La Regina vi attende. Seguitemi.
Raggiunsero la quercia argentea, scivolarono nella galleria di diamanti e sfociarono infine nella sala rivestita di pietra. La Regina Iselle era sdraiata sul divano di ghiaccio, e altrettanto ghiacciato era l'abito che indossava. Era affiancata da Evelyn. — Ciao, Rina — la salutò quest'ultima.
— Sei sola e puntuale — osservò la Regina con aria soddisfatta. — Credimi, hai fatto bene a non deludermi.
Rina strinse i pugni lungo i fianchi. Guardò la Regina con diffidenza. — Che cosa vuoi? — le domandò.
— Cosa voglio? Voglio te, figlia mia. — La fata si raddrizzò. — Voglio che in qualità di principessa, ti comporti come tale. Voglio che tu venga a vivere qui alla Corte accettando di seguire i miei insegnamenti. Voglio vederti diventare colei che sei sempre stata destinata ad essere, ossia la Principessa della Corte Seelie di Amsterdam.
Rina aguzzò la vista. — Pensi che io non sappia quali sono le tue vere intenzioni?
La Regina finse un'espressione stordita. — A che ti riferisci, cara?
La ragazza le si avvicinò con circospezione. — L'unica cosa che ti interessa è il mio sangue, poter sperimentare e sfruttare i miei poteri – ammesso che io ne abbia. L'hai persino reso esplicito, per cui evitiamo di prenderci in giro inutilmente.
La Regina Iselle assottigliò i glaciali occhi azzurri. — Hai ragione, non lo nego. Ma tu accetterai comunque. Altrimenti, ti lascio solo immaginare come potrei reagire ad un tuo ipotetico rifiuto.
— Non c'è alcun bisogno di minacciarmi — ribatté Rina. — Accetterò la tua "proposta". Ma ad una condizione.
La Regina sembrò interessarsi. — Sentiamo.
— Vivrò a casa mia e sarò libera di andare dove mi pare, con chi mi pare. Ogni giorno, però, dedicherò buona parte del mio tempo libero alla Corte e a qualsiasi tipo di... addestramento o formazione a cui tu voglia sottopormi.
Evelyn si chinò verso la Regina. — Madre... — sussurrò. La fata la liquidò sollevando una mano. I suoi occhi erano fissi su Rina, freddi e spietati come le acque dell'Atlantico. Scrutava la figlia con sguardo tagliente, quasi volesse strapparle il cuore dal petto con la sola forza del pensiero.
Rina si sentì percorsa da un gelido brivido, un cubetto di ghiaccio che le scivolava lungo la spina dorsale.
Ma non distolse lo sguardo.
Gli occhi della Regina reclamavano i suoi, nello stesso modo in cui le sirene avevano attirato gli uomini di Ulisse fino a trascinarli nelle oscurità abissali del Mar Ionio. — D'accordo — disse la fata. — Ma sta a me stabilire gli orari. Ogni giorno ti recherai qui tre ore prima dell'imbrunire, e potrai andartene solo al calar del sole. Sarà così a partire da domani.
— No — replicò Rina. — Domani ho un impegno. A partire da dopodomani.
La Regina Iselle si alzò lentamente, percorrendo gli scalini di roccia e immergendo i bianchi piedi nudi nell'acqua fosforescente. — E così sia — sentenziò. — A partire da dopodomani, sarai tutta per me.
Sul volto della fata aleggiò un sorriso conturbante, colmo di menzogne e di malignità.
Rina non rispose.
Si limitò a congedarsi, rincuorata dalla sensazione di essere scampata ad un paio di perfide grinfie.

Il portone della Magione si richiuse e rumoreggiò. Rina, imprecando sottovoce, poggiò un piede sulla rampa di scale, sperando di non aver svegliato nessuno.
— Dove sei stata? — le chiese Jandira.
Rina sobbalzò. Sbuffò e si voltò. — Forse non hai capito — esordì, — ma ciò che faccio della mia vita non è un tuo problema. Ti sei già preoccupata abbastanza di prendere decisioni al posto mio, penso che possa bastare. Sta' lontana da me. — Salì le scale. — E un'altra cosa — aggiunse, raggiunto il primo piano. — Puoi sciogliere l'incantesimo sulla mia famiglia. E non toccarla mai più.
Fu agghiacciante il modo in cui scandì le ultime due parole.
Mai più.

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