Capitolo 5: FIORE SINUOSO

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 Debby si svegliò di gran fatica. Si sentiva le palpebre appiccicate ai bulbi oculari tramite uno strato di colla composto di riluttanza, di pigrizia e di paura nell'affrontare una realtà ancora vagamente alienante.
Sebbene fosse tormentata da un mal di testa struggente, si alzò e andò ad aprire la finestra. Appena ne spalancò le ante, una zaffata di aria fresca e frizzante le pizzicò il viso come per darle il buongiorno. Le tendine azzurre ricamate si gonfiarono fino ad accarezzarle i dorsi delle mani. Debora sbarrò gli occhi nel tentativo di sfidare l'aria mordace dell'inverno preannunciato; questa sferzò e lacrime calde e salate affiorarono, lacrime che al primo battito di ciglia sarebbero colate dipingendole le guance di tersa e limpida purezza.
Era una bellissima giornata di inizio novembre. Il sole splendeva alto, per tutta Amsterdam aleggiava un calore secco e proteggente.
Debora inspirò profondamente e sollevò il mento, per far sì che i raggi di sole le baciassero il volto. La incoraggiavano a farsi trascinare dalle premure di quel calore così avvolgente; la incoraggiavano a reagire, permettendo che la luminosità di quel giorno potesse guarire le sue ferite interiori, le ferite più profonde, e renderla di conseguenza più forte, pronta ad intraprendere avventure contorte in quel mondo ignoto la cui immagine assumeva alle volte forme ostili ed avverse, e la estraniava e sradicava perciò dalla quotidianità che un tempo l'aveva deliziata con abitudini semplici ma fondamentali.
Debby adorava quel tipo di giornate. Il canto mattutino e il cinguettio degli uccellini le addolcivano il risveglio, accompagnati da altre familiarità: l'odore di focacce e pasticcini appena sfornati dalla panettiera sotto casa, le grida dei bambini e le voci dei passanti, qualche clacson in lontananza, gli acciottolii delle posate che tintinnavano sui piatti mentre Edward e Hanna facevano colazione al piano di sotto.
Prima di allontanarsi dalla finestra, Debora inalò ancora una volta l'aria speziata e al contempo inquinata, come se il mondo potesse entrarle nei polmoni ridandole quel senso di accoglienza e familiarità che fino a qualche tempo prima aveva ritenuto una costante della propria vita.
Giunse al bagno e si guardò allo specchio, osservando il proprio riflesso. Le macchie di dentifricio incrostato alla superficie vetrata le sbiadivano il volto; le tracce di gocce d'acqua disegnavano sul suo viso finte lacrime. Aveva i capelli arruffati e ingarbugliati in nodi indistricabili; i suoi occhi erano contornati dal trucco sbavato del giorno precedente.
Eccola lì, in mutande, col maglione stropicciato e lo sguardo viola sfumato da aloni neri.
Debby indossò dei pantaloni da ginnastica, dopodiché si raccolse i capelli in una lunga e morbida treccia e scese le scale.
Hanna e Edward erano, come immaginava, seduti a tavola, intenti a smangiucchiare brioches e a sorseggiare caffè fumante.
Diede un'occhiata all'orologio digitale sullo scaffale in cucina: erano circa le otto e mezza. Essendo di umore nero, si limitò ad arraffare una brioche zuccherata e a tornare in camera sua.
Riordinò la stanza e si sedette alla scrivania con la debole intenzione di svolgere i compiti assegnati per lunedì. La sua forza di volontà era tuttavia alquanto esigua.
Debora non faceva che ripensare ai recenti avvenimenti, perciò finì coll'arrendersi a un'ardua consapevolezza: per scacciare definitivamente quei pensieri dal peso insostenibile, era necessario esternare ogni dubbio, ogni emozione e timore.
Realizzò di essere incredibilmente sola. L'unica persona che avrebbe potuto aiutarla era anche l'ultima che avrebbe desiderato incontrare. A quella presa di coscienza, le venne una gran voglia di strillare.
Oltrepassato l'uscio di casa, Debby si ritrovò a vagolare senza meta. Meta, però, che venne ben presto chiarita.
August.
La giovane stregona andò alla ricerca di un vicolo dove potesse isolarsi. Lì, tra le mura di mattoni rossi, i frastuoni prodotti dal traffico e gli schiamazzi dei pedoni parevano ovattati. Il mondo al di là del valico oltre le pareti graffitate era irraggiungibile, sconosciuto.
Debora si concentrò sulle proprie scapole.
Ed ecco che succedeva di nuovo.
L'oscurità, la perdita dei sensi. Era fondamentale che incanalasse le proprie energie al fine di non lasciarsi carpire e rapire dagli artigli delle tenebre.
E accadde. Debby scorse un tremulo barlume. Poi un'esplosione.
Riaprendo gli occhi, percepì la pesantezza del proprio Marchio. E con questo, aveva squarciato un'altra felpa.
Spiegò fieramente le ali nere, tentando di non perdere l'equilibrio.
L'adrenalina prese il sopravvento.
Debora spiccò il volo, simile ad una fenice infuocata risorta dalle proprie ceneri.

Atterrò bruscamente. Sull'atterraggio doveva ancora lavorarci.
La saracinesca bianca del garage di August era spalancata, quasi invitante.
Le ali si ritrassero piacevolmente. Debby si fece avanti. Un'ondata di sollievo la travolse quando ebbe la conferma che la porta antistante la scala a chiocciola non fosse chiusa a chiave.
Salì le scale e arrivò al pianerottolo precedente la stanza di August. Un raggio di sole penetrava da una finestrella, fendeva il pulviscolo che armoniosamente sfarfallava nell'aria, timido e languido.
Debora bussò. — Sono io — avvisò. Solo pronunciandola si era resa conto di quanto quella frase suonasse intima.
Avanzò senza attendere nessun permesso o segno di vita.
La stanza era la solita. August era a petto nudo, seduto sul letto. Sembrò paralizzarsi all'istante, quasi il fremito del suo stupore l'avesse immobilizzato.
Debby restò impassibile. Lui non fece altro che osservarla. Qualche ciuffo di capelli neri le ricadeva sul viso, e il rossore delle guance spiccava a contrasto della carnagione cerea. I suoi occhi erano ancora piccoli e offuscati per via del sonno, ma rimanevano vispi e arzilli, scorgibili a grande distanza come gemme di ametista.
Debora inspirò tanto a fondo da rendere nettamente visibile il movimento che il suo petto compì al rigonfiamento dei polmoni. — Ciao — lo salutò. La sua voce era incolore, fredda. Sullo schermo di un qualsiasi registratore sarebbe apparsa sotto forma di linea retta.
— Ciao. — Le spalle di August si rilassarono appena. Aveva bisogno, come Debby, di sentirsi rivolgere quelle difficili parole, parole che nessuno dei due aveva l'audacia di pronunciare.
— Stai bene? — le chiese. — È presto e ieri... Be', tutto a posto?
Debby non poté fare a meno di notare la leggera titubanza di August. La cosa la compiacque, e non poco. — Sì — rispose. — Sto bene.
Lui sorrise – fu un sorriso impacciato; si allargava e restringeva in preda all'indugio.
Calò un silenzio improvviso e maldestro.
August raccolse il coraggio: — Senti, Debby...
— No — lo interruppe lei. — August, prima che tu mi faccia chissà quale discorso su quanto fossero buone le tue intenzioni, devi stare a sentirmi.
Le labbra del ragazzo formano silenziosamente la parola "okay".
Debora lo raggiunse. Si sedette sul letto con furtiva grazia. — Ho pensato all'accaduto. E sono giunta a una conclusione.
August tacque, in attesa del verdetto.
— Io ti sono riconoscente, August.
Le sopracciglia del ragazzo guizzarono in un misto tra sorpresa e sospetto. Debora continuò: — Parlarmi della leggenda che rappresento sarebbe stato troppo, me ne rendo conto. Non sarei riuscita a sopportare il peso di tutte quelle... responsabilità. Ma adesso è diverso. Ogni cosa, intendo. Ho imparato a reagire, e non solo a subire. Capisco perché tu mi abbia nascosto la verità. L'hai fatto unicamente per me, per il mio bene. Me ne capacito, e credo che tu abbia fatto la cosa giusta. Per quanto possa fingermi forte, un impatto del genere mi avrebbe stroncata. È per questo che sono disposta a passarci sopra.
L'espressione di August si illuminò gradualmente, come in slow motion. Debby si affrettò ad aggiungere: — D'ora in poi, però, esigo da parte tua totale onestà. Sei la sola persona che mi sia rimasta con la quale potermi confidare. L'unica in cui io possa riporre tutta la mia fiducia. Questa storia, purtroppo, mi sta allontanando dalle mie amiche e mi costringe a mentire ai miei genitori, ma... è il prezzo da pagare, no? — Debora rialzò lo sguardo dalle mani a cui aveva nervosamente strappato le pellicine. August la stava fissando. Sorrideva, e Debby pensò di non aver mai visto un ragazzo più bello. Quegli occhi argentei le toglievano il respiro; la scrutavano così intensamente da rendere tangibile l'unione tra i loro sguardi, un filo teso e accorciato senza sosta da occhiate magnetiche.
August era reale. Ed era lì, con lei. In quel preciso istante.
E cosa più importante in assoluto: era suo.
L'essersi momentaneamente distaccata da lui aveva permesso a Debora di osservarlo da un punto di vista esterno. Solo allora aveva realizzato quanto il ragazzo fosse bello. Sì, bello. Nel più semplice e disarmante dei modi. La curva morbida delle labbra sottili e tentatrici; la mandibola squadrata, il mento aguzzo; i capelli dai riflessi bruni, la pelle dorata; le sopracciglia nere e rettilinee, cornici degli occhi espressivi, il cui colore ricordava le increspature delle acque illuminate al chiaro di luna.
August era diverso. Diverso da tutti gli altri.
Debby amava il fatto che facesse trapelare ogni emozione attraverso lo sguardo. E ancor di più, amava il fatto che lei sola sapesse leggergli negli occhi ogni sentimento, ogni stato d'animo. Aveva imparato a prestare attenzione alle gradazioni d'azzurro e alle schegge luminose che saturavano le sottili iridi dei suoi occhi sfavillanti. Aveva imparato a notare le sfumature argentee intorno alla pupilla, il cerchio nero che contornava l'iride mettendone in risalto il colore baluginante – un disco di acque cristalline.
Sì, perché Debby desiderava August.
Ora lo sapeva, ne era sicura. L'aveva ammesso a sé stessa.
D'un tratto, avvertì una sensazione insolita. Nuova. Le pareva che un dito aguzzo le stesse pungolando l'ombelico, arrivando alle interiora.
Era degna di un ragazzo del genere? Di un ragazzo bello e forte di corpo, ma soprattutto di spirito?
Non lo sapeva.
Di una cosa era certa, però: desiderava con tutta sé stessa di poter affiancare August.
Sempre.
Ovunque.
E comunque.
Uscì da quel tetro turbine di pensieri. August le accarezzò il viso. La delicatezza di quel gesto fu impressionante e sconvolgente. Per Debby, quella fu una carezza piena di significato. Le guance le bruciavano insopportabilmente di desiderio fremente e ancora insoddisfatto. Per un istante, Debora si permise di credere che anche lui la desiderasse. Che anche lui non aspettasse altro che poter poggiare le proprie labbra sulle sue, approssimare i loro corpi, stingerla e proteggerla dalle pericolose minacce del mondo come aveva sempre fatto.
— Potrai continuare a fidarti di me — le disse August. — Sempre. — Affilò lo sguardo. — Non ti lascerò. Sei importante per me quanto io lo sono per te, Debora. Se non di più.
August.
Il suo odore.
Quella stanza, così isolata e lontana dal resto del mondo.
Fu il momento.
Fu un bisogno.
Fu un richiamo.
Debby non sapeva esattamente cosa sarebbe successo e come. Le esitazioni che l'avevano sempre trattenuta dal dare sfogo ai propri desideri e le avevano impedito di realizzare i propri sogni e di dare loro materia, cessarono. Debora cercò una sola ragione per cui non fare ciò che desiderava ormai da tempo. E non ne trovò nessuna.
Si sentì stupida ed inetta per aver aspettato così tanto. Improvvisamente, avvertì l'ardente necessità di recuperare il tempo perduto.
Ogni singola parte di Debora, ogni singola parte del suo essere, intonava il nome di August. Le sue mani reclamavano il corpo del ragazzo, i suoi occhi reclamavano il suo sguardo, il suo cuore i suoi battiti, le sue labbra il bacio che avevano atteso troppo a lungo.
Debby si protese verso di lui con irruenza. Avviluppò le braccia intorno al collo dorato di August e premette le labbra sulle sue.
Non v'era più alcuna distanza tra i corpi dei due. Debora percepiva il calore emanato da August e la liscezza del suo torso nudo contro di sé. Le sue labbra erano morbide e vagamente zuccherose, ma rigide contro le proprie per via dello stupore. Debby tuttavia non dubitò di sé stessa. Si sentì pervasa da una piacevole e gratificante sicurezza in sé stessa. Fu un qualcosa di naturale e spontaneo, una sensazione trasmessa dal senso di elettricità e dal pizzicore percepito attraverso le dita, poggiate sulla pelle di August.
E fu così che le mani del ragazzo – inizialmente sospese a mezz'aria – scivolarono lungo i fianchi di Debora. Quando la trasse a sé, Debby colse la contrazione dei suoi bicipiti, percepì la sua forza, la forza del desiderio che, ora lo sapeva, li univa l'uno all'altra, e non bruciava più unicamente dentro di lei.
I loro corpi finirono col formarne uno solo. Le dita di lei giocherellavano con i capelli di lui, intricate morbidamente tra una ciocca setosa e l'altra.
Precipitarono in un vortice di impeto e passione.
Le labbra di August erano dolci e soffici. Unendosi melodiosamente a quelle di Debora, sbocciarono in petali zuccherati e umidi, dando vita a un fiore sinuoso e attraente come veleno.
Debby assaporò con gusto la bocca di August. Era fresca, dall'aroma delicato e frizzante; il suo corpo sembrava emanare un odore ugualmente dolce.
La pelle di August grondava nettare.
Debora ebbe l'impressione che inalando quel profumo tanto dolce, i suoi polmoni potessero alleggerirsi. August la stringeva a sé con veemenza; le loro gabbie toraciche sembravano potersi fondere.
Debby non voleva che August smettesse di trascinarla in quell'uragano di insaziabile bramosia. La fiducia che riponeva nei suoi confronti l'avrebbe persino indotta ad accettare di farsi guidare con gli occhi bendati sull'orlo di un precipizio soprastante un lago di lava.
Le mani di Debora corsero dal collo ai pettorali di August.
August ansimò. Il suo fiato, corto e caldo, liberò lungo la spina dorsale di Debby una scossa di piacere. Brividi incandescenti la percorsero, scalando una vertebra dopo l'altra. Fu allora che l'ifrit, dopo aver premuto le mani sui fianchi della stregona, sollevò il corpo di Debora. Quest'ultima si alzò sulle ginocchia andando così a risultare più alta, mentre lui si limitò ad accavallare e ingarbugliare le gambe tra quelle di lei. Debby lo baciò con ancora più slancio; lo spinse leggermente, ma August non si coricò del tutto; al contrario, rispose reclinando il busto e rovesciando la testa all'indietro. Le sue labbra scivolavano carezzevolmente contro quelle di Debora, assecondando il ritmo del bacio a suon di leggeri e delicati colpi di lingua.
Era elettrizzante.
Nessuno dei due avrebbe mai immaginato che quell'attesa logorante sarebbe sfociata in una passione talmente priva di controllo.
Ma non aveva importanza.
Debora gemette piano contro le labbra di August. Poi, perdendo la cognizione del tempo, tornò seduta e il bacio rallentò. Fino a cessare.
Il vigore che aveva fiammeggiato nel cuore di Debby languì, portandola a rendersi conto di quanto si fosse spinta oltre. Era stato il suo primo bacio, ma un qualcosa di impulsivo, un istinto irreprimibile e primordiale, l'aveva sopraffatta; un'altra Debby, più audace e spavalda, s'era manifestata con focosità e impazienza.
Evitò lo sguardo di August. Lui la prese per il mento e le sollevò il viso al proprio, con dolcezza. — Ehi — le disse, richiamando la sua attenzione.
Lei lo guardò, contro la sua volontà. Gli occhi le si velarono di un sottilissimo strato di lacrime. August osservò rapito le tremolanti pupille di Debby, contornate dalle iridi viola tendenti al lilla. — Hai gli occhi lucidi — le disse. — Perché?
Debora non rispose. Si limitò a sorridere fievolmente. August poggiò la fronte contro la sua. — A lungo ho desiderato questo momento — confessò.
Deby si irrigidì. — Anche io — rispose. — Ma perché non hai ma tentato prima di arrivare a... questo? — Alluse ai loro corpi ancora avvinghiati.
— Io... ho un problema. Uno dei tanti. Però ora non voglio parlarne. Sono felice.
Debby lo fissò per diversi istanti. Infine batté le palpebre e gli accarezzò una guancia, come lui aveva fatto con lei pochi attimi prima. — È stato qualcosa di...
— Incontrollabile — disse August.
— Sì — disse Debora. Scosse dolcemente la testa. — August... sai cosa penso di tutto ciò?
Lui fece segno di no. Il sorriso di Debby si fece più ampio. Volse lo sguardo alle labbra del ragazzo, ancora rosse e gonfie per via del precedente scambio di labbra. Lo trasse a sé e gli stampò un unico soave bacio. Lo sentì inalare il suo profumo, assaggiare il suo respiro.
Era sua.
— Mi dispiace — mormorò August.
— Shh — lo zittì lei. –– Non ha importanza.
— Be', non mi sembri abbastanza lucida, in questo momento, per poter fare un'affermazione del genere.
Debby rise in tono sommesso, dandogli un leggero colpo al petto. — Non pensarci più, davvero. Hai fatto la cosa giusta, io mi sarei comportata allo stesso modo. O persino peggio. Ieri ero solo un po'... scossa, tutto qua. Quando sono corsa via, Jandira mi ha raggiunta. Abbiamo parlato, e mi ha dato... parecchio materiale su cui riflettere. Stamattina pensavo che sarei venuta qui dicendoti soltanto che ti avevo perdonato, che capivo e che le cose sarebbero tornate come prima, a condizione che tra noi non ci fossero stati più segreti.
— E invece... — disse August.
Debby rise ancora. — Sai, Jandira mi ha parlato dei sentimenti che sembra mi leghino a te. Mi ha confusa, e credimi, ero già abbastanza sconvolta. Però mi ha fatto rimuginare molto su cosa provassi per te. Su cosa provo anche adesso, in preciso istante. Ho sempre saputo di provare per te qualcosa di molto forte, ma tra ieri e oggi mi sono schiarita le idee. E tu mi hai dato una conferma, August. Mi hai reso tutto più facile, come fai sempre. — E con questo, affondò la faccia nel caloroso e profumato collo di August.
Lui la abbracciava. Il lieve e costante fiato di Debora gli accarezzava la pelle. Ascoltava il suo corpo, lo sentiva alzarsi, gonfiarsi, abbassarsi e sgonfiarsi ad ogni respiro, fra le sue braccia. Lei si sentiva protetta, al sicuro. Intoccabile.
Avrebbe voluto scoprire di appartenere al Mondo Occulto anni prima. La sua rinascita e il ritrovo di sé stessa non risiedevano in quella rivelazione.
Risiedevano in August.
— Devi ancora conoscere gli altri — le disse lui.
— Gli altri? — ripeté Debby.
— I Vampiri, le Fate — spiegò il ragazzo. — Hai preso una decisione molto, molto impegnativa, scegliendo di far parte di questo mondo. È necessario che Jandira ti alleni per bene, affinché tu possa difenderti e superare gli ostacoli che inevitabilmente incontrerai. Ma non preoccupiamocene ora. — August si alzò dal letto. Seguito dalla stregona, le accarezzò il viso un'ultima volta. Guardandola e sorridendo, le sussurrò: — Sono così orgoglioso di te. Del tuo coraggio. Non ti sei lasciata abbattere da niente e nessuno.
— E io sono impaziente di proseguire in questa avventura con te al mio fianco — disse Debora, sorridendo a sua volta. — Ma ora sarà meglio che vada. — A malincuore, poggiò una mano su quella di August, ancora posata sul suo viso, e gliela abbassò, allontanandola controvoglia. Fece per incamminarsi verso la porta della stanza, quando cambiò direzione e si avvicinò alla finestra. La spalancò e si rivolse ad August: — Ah, a proposito. Bella maglietta. Ti sta d'incanto.
Lui rise. — Già, mi dona assai. Dovrei indossarla più spesso — scherzò, accennando al suo petto e alle sue braccia nude.
— Di certo a me non dispiacerebbe — lo tentò lei.
Lui sorrise e ricambiò il suo sguardo intenso provocatorio.
— Ciao, Ifrit. — Detto ciò, Debby si accovacciò sul davanzale e si buttò giù dalla finestra, lanciandosi a precipizio oltre un vaso di gerani rossi.
August sbiancò. Si sentì mancare l'aria fin quando non vide due ali nere come la notte risollevare la stregona un istante prima che toccasse terra e si sfracellasse contro il terreno.
Le ali la portavano su, su, sempre più su. E August, come ogni singolo giorno, non poté che rimanere allibito da quella ragazza tanto sorprendente, sorprendente nel più assoluto dei modi.

— Ragazze, oggi esco con August. Mi spiace.
Rina emise un brontolio di sdegno. — Debby, ci stai evitando.
— Ma che dici? — replicò l'amica, nonostante sapesse di avere torto. — Questa settimana mi sono dedicata solo ed esclusivamente a voi.
— Sì — intervenne Lotty, — ma i nostri incontri non sono più così frequenti.
— Lo so, scusatemi... — Debora si portò una mano alla fronte. — Però non vedo August da una settimana, ormai.
Su questo non mentiva.
Le tre amiche si salutarono e Debby si diresse verso casa.
Nel momento in cui posò lo zaino a terra, le squillò il cellulare. Lo recuperò dalla tasca del giubbotto e rispose senza nemmeno controllare di chi si trattasse. — Arrivo subito — disse. Scese le scale e uscì.
August la aspettava in piedi e al freddo, esattamente di fronte a casa.
— Buongiorno. — Debora gli gettò le mani al collo e gli stampò un bacio sulle labbra infreddolite dall'attesa. Era così strano e meraviglioso, poterlo salutare in quel modo. — Andiamo, ti prego. Muoio dall'impazienza!
August sorrise. Si avviarono verso l'Harley Davidson parcheggiata dietro l'angolo.
— Con tutto quello che è successo ultimamente, non ho avuto modo di chiederti cosa pensassi di Roy e Kate — le disse lui.
— Mi piacciono — sentenziò la giovane apprendista. — Sì, mi stanno simpatici. E trovo che il loro cognome stia loro a pennello. Voglio dire, sembrano davvero due instancabili leoncini, con quelle chiome rasta e quel carattere così... vivace. Per non parlare di Katrin. È molto... È prolissa. — Si voltò verso August. La guardava con occhi pensierosi, colmi di melensa tenerezza.
— Si può sapere perché mi fissi così? — gli chiese.
Lui distolse lo sguardo. — No, niente. È che sei adorabile.
Debora inarcò gli angoli della bocca in un timido sorriso. Arrossì appena. Pensò che se non si fosse trattato di lei, in quel momento e con quel ragazzo, sarebbe rimasta disgustata dalla sdolcinatezza di quella situazione – solitamente detestava le smancerie. Ma non aveva mai pensato a come si sarebbe sentita se qualcuno le avesse rivolte a lei.
— In ogni caso — proseguì August, — non lasciarti ingannare dal bel carattere dei fratelli Lionchild. Sono diversi, rispetto agli altri Prescelti. Sono più tolleranti, meno... vanesi. Penso sia dovuto alla loro mezza licantropia.
La stregona si girò di scatto. — Cosa? Sono mezzi licantropi?
— Sì — rispose August. — Fra sangue di licantropo e di Prescelto prevale quello di Nephilim, quindi Roy e Kate sono Prescelti, benché nelle notti di luna piena mostrino un comportamento alquanto irascibile e le loro capacità fisiche si sovrasviluppino ancora più del normale. Loro padre Ronald è un lupo mannaro, e lui e sua moglie Cheyenne hanno trasmesso a Roy e Katrin il valore della tolleranza, insegnando loro a non discriminare gli Occulti.
Giunsero alla moto. — È una cosa bellissima — disse Debby. — E che mi dici dei Licantropi?
August sorrise. — Sapevo che me l'avresti chiesto... I Licantropi sono frutto di una malattia demoniaca insediatasi nella specie umana. Sono mortali e possono avere figli. La licantropia trasforma gli umani in lupi mannari, o meglio in semiumani che, a causa dell'infezione demoniaca, alla luce della luna piena si trasformano in grossi e pericolosi lupi. In realtà, anche quando presentano fattezze animali, non si tratta di lupi qualsiasi. Sono dotati di una forza e di una velocità soprannaturali – demoniache, per l'appunto. Vivono in branco, ma se non vengono educati a dovere, rischiano di diventare vere e proprie belve assassine. Questo, però, succede solo quando un esemplare viene abbandonato e non può di conseguenza ricevere alcun addestramento.
Debora scosse la testa in maniera impercettibile. — È incredibile.
August sbuffò appena. — A questo punto, niente dovrebbe più sorprenderti.
Montarono in sella e sgommarono.

— Debby! — Kate le corse incontro e la soffocò in un forte abbraccio. — È così bello rivederti! — esultò. — Stai bene? Io e Roy eravamo preoccupati.
Debora non ebbe il tempo di rispondere "Sto bene, grazie" che già Katrin aveva ripreso a blaterare: — Vieni, ti faccio conoscere mio padre.
Aggirarono la Magione e raggiunsero un cortile posteriore circondato da basse mura di pietra, all'interno delle quali Roy e suo fratello adottivo stavano duellando servendosi di spade celesti.
Erano meravigliosi. Impugnando le armi i celesti, la loro pelle aveva iniziato a brillare, ma in modo diverso rispetto al modo in cui la pelle di August si illuminava a contatto dell'acqua. Era come se ogni singolo poro del loro corpo, anziché secernere sudore, emettesse luce. Luce dorata. Ogni luccichio andava perciò a tracciare sulla pelle dei Prescelti una mappa delineata da fulgori dorati sparsi uniformemente.
I due Nephilim volteggiavano con abilità e sovrumana grazia in una danza dai movimenti precisi e potenzialmente letali.
Si divertivano, e Jason stava stranamente... sorridendo. Debby non avrebbe mai immaginato che il sorriso avrebbe potuto donargli quanto il broncio.
Quando li videro arrivare, i due Prescelti interruppero il combattimento in cui Jason stava avendo la meglio. Roy continuò a ridere; il suo valido avversario, al contrario, perse la luce di cui i suoi occhi avevano scintillato fino all'istante precedente.
— Ciao, ragazzi! — li salutò Roy piantando nel terreno la propria arma. Jason si allontanò. Depositò la spada su un bancone di legno; questa, sbatacchiando tra le altre armi, sferragliò e provocò un fragore metallico. Il Nephilim si incamminò verso l'entrata posteriore dell'edificio, quando Debby disse, a voce alta: — È un piacere rivederti, Jason.
Il ragazzo era in procinto di poggiare un piede su uno scalino. Si bloccò all'istante; si voltò e rivolse a Debora un lento e seducente sorriso. — Sai, è bello avere a che fare con qualcuno che provi a tenermi testa — le rispose. — È divertente. Mi dispiace ammetterlo, ma effettivamente non è affatto male rincontrare quei tuoi graziosi occhioni viola.
Debora tacque. Doveva ammettere che essere apprezzata da Jason risultava piuttosto piacevole. Piacevole e sbagliato.
Il Prescelto le sorrise per un'ultima volta e se ne andò. In quel momento, però, un uomo robusto dalla folta barba bruna spalancò le ante del portone posteriore. — Figli miei! — esclamò. — Dov'è la ragazza? — Era alla palese ricerca di Debora. Quando ne riconobbe la figura al centro del cortile, capì che era lei. — Oh — mormorò osservandola. Si avvicinò trainando Jason. Le prese una mano – le sue dita erano bitorzolute, calde e callose – e ne baciò il dorso dal biancore esangue. — Debora Urushiba — disse. — Quale onore, conoscerti.
Debby avvampò. — Piacere mio — tartagliò.
L'uomo – Ronald – rialzò lo sguardo e la studiò. Lei fece lo stesso. Sopracciglia cespugliose e spettinate coronavano gli occhi del signor Lionchild, che, simili a due piccole castagne, trasmettevano affetto. Sulle spalle dell'uomo ricadeva una chioma di capelli mori; la barba ben coltivata nascondeva il collo taurino.
— Cara Debora — esordì il licantropo, — come saprai, sei qui per essere accolta nel Mondo Occulto. Per fare ciò, tuttavia, non ti basterà semplicemente conoscere un licantropo – cioè il sottoscritto. — Sorrise. — È necessario che tu venga accettata all'interno dei diversi branchi di Amsterdam. Si dà il caso ch'io sia il capobranco del principale clan di licantropi locale, e posso, all'occorrenza, convocare ogni lupo mannaro in zona. — Si portò le mani dietro la schiena. — È una cosa abbastanza seria. Quando gli altri sapranno che tu – una vera e propria leggenda – sei ancora viva, la voce sarà divulgata. Giungerà senz'altro a tuo padre, Azazel. Dunque per te sarà come entrare in guerra, non intendo nascondertelo. Gli Occulti vorranno conoscerti, e potresti ritrovarti in pericolo. Il Mondo Occulto, alle volte, può rivelarsi ostile, e tutt'altro che pacifico. Per non parlare di tuo padre, appunto. Casa tua dovrà essere circondata da una serie di difese magiche, per proteggere te e la tua famiglia. A meno che tu non voglia vivere qui con noi.
— No — scattò Debby. — Cioè, lo apprezzo molto, grazie — rettificò. — Ma non saprei come spiegarlo ai miei. E so che basterebbe non fargliene parola, ma non voglio mentire loro più di quanto non stia già facendo.
Ronald annuì. — Capisco... — La guardò con insistenza. — Arriviamo al dunque, Debora. Preferisci continuare a condurre la tua bella ma incompleta vita, o diventare quello che sei sempre stata destinata a diventare, ovvero la promessa della nostra salvezza? Sappi che se tu scegliessi di accorrere in nostro aiuto, la tua vita cambierebbe radicalmente. Ripeto: entreresti ufficialmente in guerra contro Azazel. Devi esserne ben cosciente, e ponderare con giudizio ogni possibilità, prima di fare la tua scelta.
Debora indugiò. Si guardò attorno. Tutti – August, Kate, Roy e persino Jason – la stavano fissando.
Il fatto che Ronald la ponesse di fronte a una decisione tanto importante, andando precipitosamente al nocciolo della questione, la metteva in difficoltà.
Ma non si sarebbe arresa.
Pensò al vuoto che aveva dentro ormai da troppo tempo. Pensò a quanto i contorni e i bordi della propria vita si fossero fatti nitidi con la scoperta di sé stessa e del mondo a cui apparteneva davvero. Pensò ai suoi genitori adottivi, a Rina, a Lotty, minacciati a loro volta, e malgrado fossero comuni mortali, da suo padre. Pensò a sua madre, Akemi. Uccisa da Azazel.
E compì la sua scelta.
— Mi rendo conto di avere delle grosse responsabilità — rispose quindi. — Questo è un momento cruciale. Qui, con voi, adesso, deciderò cosa fare della mia vita. Se tenermi stretto quello che ho già, tutto ciò che di buono mi viene offerto da una vita da comune mortale, o se rischiare per scoprire chi sono veramente, per riscattare i dubbi che ho avuto per tutta la vita. Perciò...
Nessuno osò fiatare.
— Scelgo di rischiare.
Cadde il silenzio. Un silenzio che Debora ritenne segno di rispetto.
— Ne sei sicura? — le domandò Ronald.
— Sì — disse Debby con totale fermezza, assumendo un tono incredibilmente deciso. — Ne sono sicura. Voglio sapere chi sono, da dove vengo. Voglio scoprire la mia storia, il mio passato. E il mio futuro.
Ronald tacque. Solo successivamente il suo volto sembrò assumere le dolci pieghe di un sorriso colmo di premura e di qualcosa simile a dell'orgoglio. — Molto bene. — Le diede una pacca sulla spalla, e fu allora che Debby si sentì davvero accolta e accettata all'interno di quell'improbabile gruppo di guerrieri.
— Vado a fare qualche telefonata per contattare il branco. — E con questo, Ronald scomparve oltre il portone del palazzo.
Debora non si mosse dal centro del cortile. Pensava a ciò che aveva appena fatto, alla decisione che aveva appena preso.
Poi avvertì un tocco delicato e si sentì stringere da braccia familiari.
— Sei molto coraggiosa — le bisbigliò August con sguardo caloroso, quasi fosse un segreto. La strinse ancora, in un rassicurante abbraccio.
Quando i due si sciolsero l'uno dall'altra, Kate e Roy fecero a Debby le proprie congratulazioni. — Benvenuta, Debora — le disse Katrin abbracciandola a sua volta.
— Grazie.
Da lontano, Jason indirizzò alla neo-stregona un muto ma eloquente cenno del capo. Significava "Buona fortuna".
D'improvviso, Ronald fuoriuscì dall'edificio impuntandosi di fronte ai figli e a Debby ed August. Aspettò di ottenere l'attenzione di tutti, per poi assumere una postura alquanto diritta e impettita.
— Sono pronti — annunciò.

Debora posò un piede in una sordida pozzanghera.
Si trovavano in piena Amsterdam, sul bordo di un canale. La luce del giorno s'affievoliva, aspirata dalla notte incombente. Sulle acque verdastre si riverberavano sagome dalle sfumature rosee. La zona era in apparenza disabitata. Da lontano, giungeva il putiferio della città attiva, a qualche isolato di distanza. Una serie di edifici in ricostruzione s'intricava tra scale e balconi fatiscenti, andando a formare una sorta di aggrovigliato labirinto.
— Quand'è che imparerai a creare portali, Debby? — latrò Jason con sfrontatezza. — Potrebbero tornarci utili, sai. — Le sfrecciò davanti in direzione di un'oscura viuzza.
Debby non rispose. Una mano le sfiorò delicatamente il braccio, solleticandola da dietro. Pensò che si trattasse di August, ma invece no. — Forza, andiamo — la incoraggiò Ronald. — Non ti mangeranno. — Il sorriso dell'uomo la confortò all'istante.
I Prescelti e il licantropo avanzavano a passo di carica. August camminava accanto a Debora. La prese per mano intrecciando le dita alle sue. — Andrà tutto bene — pispigliò.
— Lo so. — Debby avvertì il pungente bisogno di abbracciare e baciare August, per reprimere il timore che in realtà provava; ma Kate li chiamò.
Avevano raggiunto un vicolo buio e odorante di muffa. Ronald bussò a una botola di legno, attraverso cui, probabilmente, sarebbero acceduti ad una cantina.
— Chi va là? — domandò una roca voce maschile.
— Sono Ronald Lionchild. Qui con me ci sono anche i miei tre figli, August Ferreyra e la ragazza, Debora Myako Urushiba.
Per tutta risposta, si udì lo sferragliare di serrature che venivano progressivamente sbloccate.
La botola si spalancò. All'interno di essa, si slanciò la figura allungata di un uomo deperito, dagli occhi grigi e i capelli bianchi, il volto grinzoso con tanto di pizzetto. — Benvenuti.
Ronald ringraziò e si fece avanti, seguito dai gemelli e da Jason.
August aspettava che Debora proseguisse. Debby decise di ignorare l'accelerazione graduale del proprio battito cardiaco. Quasi tuffandosi, si inabissò all'interno della botola. Per poco non perse l'equilibrio, ma Ronald le tese una mano. Lei lo ringraziò con un sorriso sbilenco e si levò i capelli dal viso, limitandosi a seguire il gruppo.
Scesero lungo strette scale di pietra color ocra e sfociarono in un corridoio dal soffitto piuttosto basso – lo si sfiorava appena con la nuca. Il passaggio era illuminato da una sequela di fiaccole appese alle pareti. Debby era affiancata da August. Man mano che procedevano, potevano avvertire il brusio sempre più distinto di voci, risate e grida. La folla da cui proveniva il rumorio dava l'idea di essere numerosa.
— Sono agitati, Signore — disse la guida, ossia l'uomo emaciato, con un leggero tono di concitazione. — Per lei. Per la ragazza.
— È comprensibile, Aramis — rispose Ronald. — Tutti quanti aspettavamo questo momento con grande impazienza.
Debora si sentì molto a disagio nell'accorgersi di essere diventata l'oggetto di quella accesa discussione; eppure nessuno le rivolse particolare attenzione, come se la cosa fosse scontata. Come se il fatto di essere sulla bocca di tutti rientrasse nella normalità. Come se non ci fosse nulla di strano od insolito nel fatto che un perfetto estraneo pronunciasse il suo nome con tanta naturalezza. Prima o poi avrebbe dovuto farci l'abitudine, si disse.
Pensò di intervenire, ma non ne ebbe il tempo. Sbucarono in un immenso atrio di pietra giallognola; l'altezza del soffitto era aumentata di circa dieci volte. La sala rassomigliava alla taverna di un castello nordico medievale. Era alquanto estesa e ariosa, percorsa da colonne mastodontiche e portici armoniosi, da ognuno dei quali si diramavano innumerevoli corridoi. Al centro dell'atrio erano disposti lunghi tavoli di legno, intorno a cui sedevano centinaia di persone intente a brindare, cenare e gozzovigliare, provocando un gran chiasso. I tavoli slabbravano di tacchino, selvaggina, pollo arrosto, patate, insalate miste, bistecche succulente, vino e birra a volontà. Per tutto l'atrio andava a spargersi un delizioso aroma di carne bollita e tuberi bruciacchiati.
Inizialmente, nessuno sembrò notare la presenza del gruppo. Poco dopo, Ronald si avviò verso il fondo della sala, dove sette scanni di pietra erano occupati da quattro uomini e due donne; uno di essi era vacante. L'intera selva umana si voltò a fissarli e nell'atrio regnò un silenzio immediato.
Il signor Lionchild si sedette sul settimo trono, posto al centro dei restanti sei. Debby e gli altri non si mossero, scrutati dagli avidi e affamati occhi di migliaia di licantropi.
Un uomo fra i sette spiccava più degli altri. Era giovane; indossava pantaloni di pelle nera, una larga camicia bianca e un paio di anfibi slacciati. Sfoggiava lunghissimi capelli biondi e sedeva alla destra di Ronald. Quest'ultimo s'accinse a parlare, quando l'altro lo precedette: — Ronald Lionchild — disse, — è un piacere riaverti qui tra noi. Quella dev'essere la ragazza. — Indicò Debora, sporgendosi dal trono e scoccandole un'occhiata indecifrabile.
Tra i presenti si dispersero moderati versi di stupore. Debby poté immaginare perché le persone stessero reagendo a quel modo. Secondo le leggende e le storie che le mamme raccontavano la sera ai propri figli un attimo prima di rimboccargli le coperte, lei sarebbe dovuta essere la loro salvatrice, la loro eroina. Era dunque probabile che si aspettassero qualcuno dal portamento più imponente od elegante. Debora non era altro che una semplice stregona da poco diciassettenne, a malapena in grado di gestire il proprio Marchio. Una ragazzina che, nel bel mezzo di quella destabilizzante atmosfera antiquata, portava un insulso paio di All-Star nere.
— Fate silenzio! — inveì il giovane dai lunghi capelli biondi.
La folla tacque.
— Grazie, Graham. — Ronald volse le proprie attenzioni ad ogni presente: — Ascoltate, in qualità di supremo capobranco di Amsterdam, vorrei che prestaste attenzione a ciò che sto per comunicarvi.
Nell'atrio non ronzava una mosca.
— Lei è Debora Myako Urushiba, come sapete. Le leggende che narrano della sua sopravvivenza sono vere — disse Ronald. — Poco prima che Azazel uccidesse sua madre, Debora venne data in adozione, e una coppia di Imperfetti di Amsterdam la accolse nella propria famiglia. Alcuni stregoni gettarono su Debora un maleficio sotto richiesta di suo padre Azazel, e lei venne così sprovvista di ogni potere. Ma — aggiunse il capobranco prima che la calca di persone potesse reagire in alcun modo — Debora ha da poco ritrovato le proprie capacità, cosa straordinaria, data la maestria con cui il maleficio le venne inflitto. Per questo motivo, confidiamo nei suoi poteri e riteniamo che potrebbe aiutarci nell'affrontare Azazel. Inoltre, il fatto che sia sua figlia la spinge ad intervenire per scopi personali. Debora è pronta ad assumersi le sue responsabilità e ad impegnarsi per riacquisire pienamente i suoi poteri, così da poterci aiutare. Ha intenzione di farsi conoscere e accettare dal Mondo Occulto. Ecco perché oggi si trova qui.
Un'ennesima volta, piombò il silenzio. In seguito, e tutto d'un colpo, una donna si alzò dal posto a sedere. Portava un modesto abito color salvia e i lunghi capelli mori erano raccolti da una bandana turchese. — Chi ci garantisce che Debora potrà davvero aiutarci? — chiese. — Il recupero dei suoi poteri potrebbe essere casuale o limitato, perciò nessuno ci assicura che sia potente come pensiamo. Tra l'altro, potrebbe attirare Azazel e i suoi demoni su di noi!
Nella sala si sparse scalpore.
Un uomo s'aggiunse alle accuse: — Già! E se peggio, fosse una sua alleata? Non abbiamo nessuna certezza!
Gli astanti iniziarono ad agitarsi, fin quando l'atrio non ricadde in un subbuglio clamoroso.
— Non possiamo fidarci!
— Non possiamo rischiare di eleggerla nostra guida!
— Azazel ci ucciderà tutti!
Ronald, Graham e gli individui sugli scanni – gli altri cinque capiclan, di ordine inferiore a Ronald – tentarono invano di calmare la folla.
Lo scompiglio e la paura iniziavano ad opprimere Debby. Nella sua mente mulinavano atroci dubbi.
Non si sentiva all'altezza del compito. Ma non poteva arrendersi: era solo all'inizio. Quella era l'occasione per dimostrare a tutti – compresa sé stessa – chi era veramente Debora Myako Urushiba.
E fu così che il coraggio ormai peculiare della nuova Debby prevalse su ogni indugio e ogni paura.
— Scusate...
Nessuno le diede ascolto.
— SCUSATE! — si sgolò.
La fiumana di licantropi si zittì di colpo e si voltò a guardarla, gli occhi sgranati.
— Sentite — li richiamò Debora. — Potete stare certi del fatto che non sono un'alleata di Azazel. Vengo controllata da quand'ero appena nata – August Ferreyra lo può confermare. Mio padre ha ucciso Akemi Urushiba, mia madre. Non potrei mai e poi mai stare dalla parte di colui che ha annientato la mia stessa famiglia, la mia identità. E il ritrovo dei miei poteri non è affatto casuale. O meglio, potrebbe esserlo, ma rimane pur sempre un dono. Un'opportunità che è stata data a me e a tutti voi. Basti pensare che il sortilegio mi venne inflitto dai servitori di un demone superiore, e che nonostante ciò sono riuscita a spezzarlo, anche se non so come. Credo che questo non sia da sottovalutare.
La turba di lupi mannari era ipnotizzata dalle parole di Debby, o piuttosto, dal solo fatto che stesse parlando. Dopotutto, ai loro occhi era una leggenda vivente.
— Vi posso solennemente promettere che ho tutte le intenzioni di diventare la migliore stregona possibile — garantì Debora. — Non solo perché voglio capire davvero chi sono e qual è il mio posto in questo mondo, ma anche per collaborare alla salvezza di tutti noi. Potrei essere l'unica persona capace di affrontare Azazel, ed è ciò che intendo fare. Sono qui per giurarvi che mi impegnerò, con lo scopo di difendere l'intero Mondo Occulto. Io sono Debora Myako Urushiba, la stessa ragazza che tutti voi considerate la protagonista delle vostre leggende.
Quell'ultima frase suonò quasi irreale. Irreale, gratificante, e sorprendentemente verace.
— Mi serve tempo al fine di imparare tutto ciò che è necessario sapere riguardo alla gestione dei miei poteri — disse Debby. — Per cui, bisogna che io, come prima cosa, venga accettata dal Mondo Occulto. Da tutti voi. Altrimenti, come potete pretendere che vi protegga?
Per l'atrio volarono occhiate indecise, esitanti.
Graham scese dal trono e si avvicinò alla stregona con assoluta cautela, ancheggiando e tenendo lo sguardo fisso su di lei. Le si fermò davanti senza smettere di guardarla dritto negli occhi. Debora non aveva nessuna intenzione di distogliere lo sguardo per prima. Un tempo era stata una persona timida, solita ad ammutolire per poco o niente.
Ma ora era qualcun altro. Era qualcuno che realizzò di nutrire un amore irrefrenabile per le sfide.
Visto da vicino, Graham – il giovane capobranco – non era alto né particolarmente bello. Il suo volto era solcato da tratti forti: un naso lungo e storto, occhi fin troppo distaccati l'uno dall'altro. Coltivava una barba biondo cenere eccessivamente folta, e questo lo invecchiava di parecchi anni, nonostante la luce sprigionata dai suoi occhi rivelasse la sua giovinezza e trasmettesse quell'enfatica voglia di vivere propria di un qualsiasi ragazzo sui vent'anni.
D'un tratto, Graham si inchinò.
Debby rimase basita. Si immobilizzò.
Ronald, Katrin, Roy, August e persino Jason imitarono Graham. Così fecero gli altri cinque capiclan, finché ogni presente non si prostrò al cospetto di Debora, attonita.
Le sembrava che il cuore le si fosse fermato. Trattenne il respiro. Si guardò intorno, gli occhi le brillavano di meraviglia e incredulità. La quiete era assoluta, quasi paradossalmente assordante.
Ed era per lei. Tutta per lei.
Graham si rialzò, seguito dal resto dei presenti. Le sorrise. — Direi che sei stata più che accettata, Debora.
Sul volto della stregona balenò l'abbozzo di un sorriso a novantasette denti, ma qualcosa le proibì di sfoderare quel magnifico sorriso. Il pavimento iniziò a vibrare.
Fu il caos.
La folla si tramutò in un flusso di licantropi del tutto ingovernabili; alcuni di loro si trasformarono in giganteschi lupi. La massa di gente impaurita andò a riversarsi negli oscuri corridoi ai lati dell'atrio. Le persone si sparpagliavano ovunque, simili ad una colonia di scarafaggi. Un'orchestra di urla atterrite si unì al trambusto provocato dai macigni di pietra che erano iniziati a crollare dal soffitto.
— Ma che diavolo sta succedendo? — urlò Debby. Il suo sguardo vagò alla ricerca di August, fra le nuvole di polvere sollevate dalla fuga dei licantropi e dai massi del soffitto che andavano ad abbattersi sul pavimento. Poi lo vide: stava aiutando a far sgombrare l'atrio.
— Non lo so! — rispose il ragazzo urlando di rimando.
Debora tentò di scoprire a cosa fosse dovuto il terremoto.
All'improvviso, la sala venne pervasa da nubi amorfe oscure ed infuocate. Debby venne sopraffatta da una di esse. Si trattava di un vero e proprio essere vivente; la scrutava ferocemente attraverso due fluorescenti occhi rossi. Era munito di tre file di denti aguzzi ricoperti da un viscido fluido verde.
Fu un attimo, e Debora venne inghiottita dalla creatura gassosa. Le parve di ritrovarsi all'interno di una bolla: ogni rumore le giunse alle orecchie attutito ea smorzato. Era intrappolata in una sorta di sfera priva di luce; l'unica, distinguibile fonte di luce proveniva da quel mostruoso sguardo sanguinolento.
Venne scaraventata contro qualcosa di duro – una colonna, probabilmente. Recuperando i sensi, intravide le fauci dell'essere spalancarsi su di lei. Fu pervasa da un alito caldo e pestilenziale. Debora non era in grado di riconoscere quell'afrore, quell'odore nauseante – e si augurò di non riconoscerlo mai. Eppure, una parola le passò per la mente ancor prima di capire quale fosse il suo significato.
Morte.
L'alito di quel mostro sapeva di morte.
L'essere si faceva sempre più vicino. Debby si dimenava invano; i suoi pugni e i suoi calci trapassavano il nemico per via della sua inconsistenza.
Poi capì: l'unica sua possibilità era colpire il mostro nei punti in cui non era composto di materiale gassoso. Gli tirò un pugno tra gli occhi e un calcio in bocca, ricoprendosi una scarpa di una sostanza melmosa e appiccicosa. La creatura emise un urlo atroce, così tagliente da spaccare i timpani. Una sottile e violacea lingua biforcuta fuoriuscì dalle tre schiere di denti acuminati, sibilando e spruzzando liquido verdastro. L'attacco di Debora non aveva fatto altro che alimentare la rabbia del suo rivale, che di conseguenza si scagliò contro di lei.
Era giunta la sua ora.
Debby gridò. Si riparò il viso tra le braccia fiacche e debilitate. Chiuse gli occhi. Vedeva una luce, una scintilla, che però si indebolì fino a spegnersi del tutto.
Debora si sentì cadere; sbatté la testa contro il pavimento gelido e raschiante. Il mondo roteò e si rovesciò contro di lei, una trottola impazzita.
Venne risucchiata dalle tenebre.


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