— Tesoro.
Debby aprì gli occhi. Un profumino mielato ed invitante le salì delicatamente alle narici, regalandole un dolce risveglio. Sua madre Hanna le aveva portato la colazione a letto, con tanto di pancake allo sciroppo d'acero e cioccolata calda.
— Auguri! — esclamò, gli zigomi intozziti per via dell'amorevole sorriso.
— Oh, sì! — Debora si sedette di scatto e afferrò il vassoio; se lo appoggiò sulle gambe e iniziò a rimpinzarsi di pancake.
Hanna la guardò per qualche minuto, gli occhi colmi di affetto.
La ragazza aveva le guance gonfie di cibo e la bocca contornata da briciole e gocce ambrate appiccicose. Alzò lo sguardo e rifilò alla madre un'occhiata stranita. — Perché mi fissi così? — le chiese.
Hanna si riscosse. — No, niente. Be', è arrivato il momento del regalo. — Allungò un braccio fino alla scrivania della figlia e le porse un pacchetto ricoperto di carta velina lilla e di fili bianchi e d'argento.
Debby agguantò il regalo all'istante e lo scartò con feroce entusiasmo. Una smorfia maliziosa le solcava il volto; stonava a contrasto dei suoi dolci lineamenti.
Si ritrovò tra le mani una scatoletta vellutata color porpora. Aprì l'involucro con prudenza, quasi temendone il contenuto. Lo schiuse del tutto e al suo interno vi scoprì una splendida e sottile catenina d'argento con tanto di ciondolo a forma di ali d'angelo. Le ali erano tempestate di cristallini e diamanti viola, unite l'una all'altra da un ulteriore diamante lilla sfaccettato a forma di goccia. — Wow, mamma. Ma è... è stupenda! — Debora indossò la collana in quattro e quattr'otto, e ripagando Hanna con un'espressione di pura gioia e riconoscenza, le saltò al collo. — Grazie mille. — La donna la abbracciò con calore e inalò l'odore familiare della figlia: crema idratante e chiodi di garofano.
— Ora è meglio che ti prepari, sennò farai tardi a scuola. Finisci la colazione, vestiti e vai. — Con questo, Hanna diede alla ragazza una sonora pacca sul sedere.
Debby ridacchiò e sorrise. Fu un sorriso sereno e sincero, quasi immotivato, di quelli che non le capitavano da tempo.
Divorati i pancake e trangugiata la cioccolata calda, slittò fuori dalle coperte e spalancò le ante dell'armadio, indecisa su cosa indossare. Di norma evitava di mettersi in mostra, ma quel giorno sentì il bisogno di cambiare. Non sapeva davvero quale fosse il perché di quell'impellenza. D'improvviso, gli avvenimenti della scorsa notte le tornarono alla mente come un flash. E altrettanto velocemente vennero allontanati.
Esaurimento nervoso, niente di più. Incubi, niente di più. Allucinazioni, niente di più.
Niente di più, niente di più.
La ragazza sfilò dalla pila disordinata di vestiti un attillato maglione nero e dei jeans strappati non troppo volgari, che avrebbe in seguito abbinato ad un paio di stivali borchiati. Dopodiché si truccò gli occhi in modo più accentuato del solito – cosa alquanto bizzarra, dal momento che odiava metterne in risalto il colore inconsueto –, ed infine si passò una mano tra i lunghi e lucenti capelli neri.
Raccolse da terra la cartella già pronta e uscì di casa.
Appena Debora arrivò a scuola, Lotty e Rina la soffocarono in mille abbracci. Entro la fine della giornata, tutti quanti le avevano letteralmente fatto le feste – persino i prof.
Ma il regalo più inatteso che Debby ricevette non fu né quello dei suoi compagni né tantomeno quello dei suoi professori o delle sue professoresse. In realtà non era certa del fatto che si trattasse davvero di un regalo, quanto più di un agguato.
All'uscita da scuola, ancora euforica ed elettrizzata, stentò a credere ai propri occhi.
Per un momento rimase lì, all'atrio, pietrificata. Su una stupenda Harley Davidson, nera come l'inchiostro, August la guardava da lontano, sorridente. Portava un paio di jeans e una maglietta color verde speranza, abbastanza aderente da far spiccare i muscoli scultorei. Il sole rendeva i suoi occhi argentei ancora più chiari e abbacinanti di quanto non fossero già; i capelli scuri ondeggiavano al soffio della brezza autunnale.
August sorrideva a Debby con intensità tale da permettere a Lotty e Rina di notare quanto la sua attenzione fosse focalizzata su Debora. Fra la baraonda di ragazze esagitate e smaniose di uscire da scuola, lui non vedeva altro che lei.
— Debby ma... quel... quel figo assurdo ti sta guardando. Lo conosci? — chiese Lotty, per l'appunto.
Debby si riprese tutto d'un colpo. Mantenne lo sguardo fisso su August. Il cuore le si ghiacciò per diversi, lunghi istanti. Non aveva mai fatto cenno, ad August, del suo compleanno. Doveva trattarsi d'un caso, pensò, tentando invano di ricorrere ad un qualsiasi tipo di consolazione.
Eppure, una voce lontana, forse quella della sua coscienza, sembrava persuaderla d'interrogarsi sul perché August si trovasse lì, a pochi metri di distanza, indubbiamente aspettando che lei lo raggiungesse.
Debora aveva bisogno di sapere. Di capire. Doveva verificare l'effettività delle sue frangibili convinzioni, rette debolmente da rassicurazioni improvvisate e del tutto precarie. D'un tratto venne travolta da un'incredibile ondata di ottimismo, o più che altro, di cieca speranza. August non avrebbe fatto nessun riferimento alla notte precedente, e lei, di conseguenza, avrebbe potuto proseguire per la propria strada, senza mai voltarsi indietro, senza mai rivolgersi ad un passato che non era mai esistito. Sarebbe andato tutto bene, e bramava di averne la prova.
— Sì, lo conosco. — Debby si girò verso le due amiche. — Scusate, ragazze, devo andare. Mi coprite, vero?
— Ehi ehi ehi, dove credi di svignartela così facilmente, signorina? — Rina si portò le mani ai fianchi: aveva tutto l'aspetto di un cobra. — Vorresti andartene in moto con una specie di modello di Abercrombie spuntato dal nulla di cui tra l'altro non c'hai mai parlato? Non esiste.
— E dài, Rina, lasciala andare — ribatté Lotty. –– È il suo compleanno, deve divertirsi. Sua madre pensa che esca con noi; siamo il suo diversivo. Possiamo farle questo piacere, no?
Lotty e Debby fissavano Rina con aria supplichevole.
— E va bene! — concesse la guastafeste con fare scocciato, dopo attimi di indecisione. E prima che potesse aggiungere altro, le due la abbracciarono a suon di gridolini eccitati.
— Rina grazie, sei la migliore — la venerò Debora.
— Lo so, lo so. Ma ti lascerò andare solo ad una condizione — disse l'amica. — Stasera, al tuo pigiama-party, ci racconti tutto quanto. Dal primo all'ultimo particolare, okay?
— Ah, sì! — intervenne Lotty. — Su questo sono assolutamente d'accordo. Non transigo.
— Ovvio che vi racconterò tutto — esultò la neo-diciassettenne.
— E... Debby. — Rina la bloccò afferrandola per un polso.
— Sì?
— Sta' attenta.
Debby sorrise. — Ci vediamo dopo. — E detto ciò, corse verso August.
Una volta lì, lo sguardo del ragazzo scivolò lungo ogni centimetro del suo corpo. Si soffermò dapprima sulle labbra ripiene, poi sulla scollatura e le curve dei seni. Proseguì lungo i fianchi armoniosi e lungo le gambe allampanate. Infine, tornò a poggiarsi sulle iridi di Debora, viola come campanule in primavera.
August, gli occhi infatuati e le labbra appena schiuse per la lieve ed inaspettata bramosia, le porse il casco. I due non ebbero bisogno né di salutarsi né di fare domande. Bastò un'occhiata affinché Debby accettasse il casco, decidendo così di scacciare le sue mille perplessità dovute alla scena tanto surreale ed imprevedibile. Subito dopo montò in sella, fidandosi esclusivamente del proprio intuito.
Mentre sfrecciavano in moto tanto veloci da sfidare il vento, Debby riconobbe la strada: erano sul tragitto per Westerpark, uno dei parchi più belli di Amsterdam.
Percorsero una via riservata ai guardiani del parco e ai loro veicoli. Passarono tra le aiuole più variopinte e sostarono di fronte ad un cancello in ferro battuto ricoperto di vegetazione. L'aroma di muschio aleggiava da un tronco all'altro, saturando l'aria; l'umidità era palpabile.
I battenti si aprirono a rilento. August diede gas all'acceleratore della moto, che ruggì e risuonò.
Proseguirono per uno stretto sentiero. L'Harley Davidson, immersa nel bosco, procedeva tra i cespugli e le piante; i rami bassi rimbalzavano come fionde e perdevano frotte di foglie accartocciate, simili ad esili e vulnerabili pezzi di carta.
Dopo un po', i due sfociarono in un cortile spoglio di verde, contornato da antiche ville olandesi. August non si fermò: avanzò lungo un'ennesima stradina, alla cui fine era possibile intravedere un'abitazione dalle dimensioni ridotte rispetto alle altre.
La villa era nascosta e camuffata dalla boscaglia; ciononostante, Debby non l'avrebbe considerata meno bella o trascurata. Al contrario, quell'effetto di totale sopravvento da parte della natura sembrava voluto. Lo trovò romantico.
August aggirò il perimetro della casa e giunse davanti a una saracinesca. Questa si aprì sollevando piccoli gomitoli di polvere ed emettendo uno stridente clangore metallico di ferro arrugginito.
Il garage era quasi completamente vuoto: in un angolo era stata abbandonata una cassetta degli attrezzi e dovunque erano stati sbattuti diversi aggeggi e stracci. Per il resto, l'area era rivestita di polvere e ragnatele, e le pareti, in origini verniciate di bianco, erano di un grigio uniforme.
August accostò la moto contro un muro ai piedi del quale era visibile il segno scalpellato del cavalletto. Il motore brontolò fino ad ammutolire. Osservando il pavimento, Debora rilevò il tracciato nerognolo marcato dalle ruote del veicolo. Smontò con lo zaino in spalla e si tolse il casco, scuotendo la testa per far sì che i capelli le si scollassero dalla nuca. Stranamente, non si scoprì imbarazzata né agitata, contraddicendo e sorprendendo le proprie aspettative.
Diede volume ai capelli corvini con qualche gesto sbrigativo e vagamente altezzoso, per poi porgere il casco al suo legittimo proprietario. — Grazie.
August le sorrise e accantonò l'oggetto riconsegnatogli.
— Credevo che Westerpark non includesse residenze al di fuori di quelle per i guardiani — disse Debby.
— Hai visto le ville?
— Be', certo che le ho viste. Ci siamo passati davanti.
Era inquieta, ma curiosa allo stesso tempo, un tira e molla per il quale non si sarebbe mossa.
Un sopracciglio di August scattò verso l'alto. — Sei dotata della Vista, è normale che tu le veda. Ma in realtà, questi alloggi spettano agli Occulti. Gli Imperfetti non li vedono.
Debora si sentì precipitare nel vuoto. I suoi battiti cardiaci accelerarono sempre di più, finché non le perforarono le orecchie, forti come il frullio prorotto dalle ali di un coleottero. Il suo respiro si fece più affannoso.
Corrucciò la fronte. — La Vista? — rantolò, con voce tremula. — Gli Imperfetti?
— Sì, la Vista. Gli Occulti possono vedersi tra di loro ed essere visti dai Figli della Luce, ma risultano invisibili agli occhi degli umani – a meno che non decidano di svelare di proposito il proprio aspetto. Dispone della Vista chiunque sia capace di riconoscere le vere sembianze di un oggetto o di una creatura al di là di un incantesimo. Il termine "Imperfetti", invece, non è che un appellativo attraverso cui ci riferiamo agli essere umani.
Debora tacque. Si sentì offesa per via del nomignolo affibbiato alla sua specie – o se non altro, a quella che credeva fosse la sua specie. Tuttavia, sorvolando sulla momentanea insolenza di August, doveva ammettere che la spiegazione di quest'ultimo rendeva tutto più logico e sensato.
Lo fissò, pronta a formulare quella spinosa domanda che avrebbe preferito reprimere e allontanare.
–– August, cos'è successo ieri sera?
Lui sembrò sorpreso, ma sorpreso in modo piacevole, come se solo in quel momento si fosse assicurato d'aver ben riposto la sua fiducia. — Contavo di parlartene meglio una volta digerito il tutto, motivo per cui...
— No, August. Riporta i fatti. Come se non mi ricordassi nulla.
Dove si stava dirigendo?
August tentennò. –– Ieri notte è comparso il tuo Marchio, cosa che non sarebbe mai dovuta accadere. Ti sono spuntate le ali. Ti ho rivelato chi sei, chi sei veramente. E ti ho raccontato del mondo a cui appartieni.
Debby discostò l'attenzione dal ragazzo, imprecando sottovoce. Sudava freddo, le vertigini la assalivano. Poggiò una mano contro una parete del garage. — Il mio presunto... Marchio... è apparso dopo il risveglio successivo all'unico incubo di cui mi sia mai ricordata. Non può essere stata una coincidenza, come non può esserlo stato il fatto che tu ti trovassi in camera mia proprio in quel momento.
August tamburellò le dita sul sedile della moto, guardandosi intorno. — Nel momento del bisogno, intendi. — Smontò dall'Harley Davidson e cinse il polso di Debora con assoluta delicatezza, come se stesse per spezzare lo stelo di un fragile calice di vetro.
— Fra poco avrai la risposta ad ogni tua domanda — le sussurrò. — Ti prego, fidati di me. Ancora pochi minuti. — Indicò una scala a chiocciola, oltre un'anta socchiusa. — Ultimo piano.
Debby iniziò a salire le scale.
Arrivò in soffitta e lì, su un pianerottolo polveroso, spalancò una porta cigolante ed entrò nell'unica stanza presente.
Il parquet era antico ma pulito, le assi di legno si imbarcavano e scricchiolavano ad ogni passo. La mobilia della camera era interamente costituita da un semplice letto e da una modesta scrivania di quercia.
Una finestrella rotonda s'affacciava sul bosco dai caldi toni autunnali. Il vetro era macchiato dalle tracce ormai seccatesi della pioggia calata nei giorni precedenti, ma il paesaggio mozzafiato del parco cittadino traspariva comunque nella sua meravigliosa interezza.
Debby lasciò lo zaino per terra e si affacciò alla finestra. Contemplò le chiome marroni, rosse e gialle degli alberi ormai vittime dell'autunno pungente. La luce del giorno stava andando scomparendo e presto il sole sarebbe tramontato.
D'un tratto regnò un silenzio sgradevole e sinistro. Debora si voltò. August la stava osservando, appoggiato a una parete. Sorrideva in modo insopportabile.
— Bene, siamo in soffitta — constatò la ragazza. — E ora vorrei "la risposta ad ogni mia domanda". Per favore.
Lui la raggiunse camminando a braccia conserte. Alzò lo sguardo solo quando le si ritrovò accanto. — Capisco perfettamente che tu esiga di ricevere le dovute risposte — disse, con fermezza. — Per questo ti chiedo di lasciarmi parlare senza interruzioni. Sarà dura, ma le domande vanno fatte alla fine, perché ci sono molte questioni di rilevante importanza ed è necessario che tu le conosca al più presto.
Le circostanze s'erano fatte incredibilmente serie. Debora, perciò, si limitò ad annuire, in modo quasi impercettibile.
— Vorrei parlarti innanzitutto della tua famiglia e delle tue origini. Solo dopo capirai per quale motivo, ieri sera, mi trovassi in camera tua, proprio quando ne avevi più bisogno — esordì August. Aspettò qualche secondo, prima di proseguire. — Come saprai, sei nata in Giappone. Tua madre, Akemi Urushiba, era la geisha più importante di tutta Tokyo, la migliore delle poche rimaste. Una perla rara. E tuo padre, Azazel, è uno dei demoni superiori più potenti in assoluto. Dico "è" e non "era" perché purtroppo è ancora vivo.
Debby torse le labbra. Ebbe un brivido.
Vivo.
Si impose di ascoltare. Non aveva del tutto abbandonato l'ipotesi secondo cui la sua mente fosse stata attaccata e successivamente contorta da un repentino schizzo di follia; ma se così non fosse stato e quella si fosse rivelata la verità, sarebbe stato necessario che tentasse di metabolizzare al meglio ogni informazione.
— Azazel, originariamente angelo supremo, fu trasformato in demone, come del resto successe a molti altri demoni superiori — continuò August. — Venne punito in seguito ad un crimine commesso molto tempo fa. In epoca preistorica – quand'era ancora conosciuto come il Forgiatore di Armi Celesti – svelò agli umani le tecniche della lavorazione dell'ohr, termine che in ebraico significa, non a caso, "luce celeste".
— Lu... luce celeste? — barbugliò Debora.
— Non mi interrompere, per cortesia. Ora ti spiego di che si tratta — la azzittì August. — La leggenda narra che quando gli Angeli Primordiali scesero in terra per creare i Nephilim, portarono con sé la loro primaria fonte di energia, ossia l'ohr, autentica luce dal potere angelico. Questa luce si depositò ove i piedi degli Angeli Primordiali sfiorarono il suolo atterrando, e lì, a partire da quel momento, l'ohr crebbe e crebbe, senza mai mancare od esaurirsi. Da quell'area consacrata si ersero le Torri di Cristallo, a cui presiedeva un tempo tuo padre e in cui vivono e lavorano ancora oggi i Miniatori Empirei, le Forgiatrici Divine e i Fabbri Celesti.
Lo sguardo interrogativo di Debby incoraggiò August a non fermarsi.
— I Miniatori Empirei trovano l'ohr, mentre le Forgiatrici Divine, grazie alla premura dei loro gesti e al dono loro conferito, accolgono la cosiddetta luce celeste per incanalarla in qualsiasi tipo di materiale. Tuttavia è fondamentale trattare l'ohr con quanto più garbo possibile, poiché esso è considerato il motore, l'energia generatrice di ogni Prescelto. Si dica goda di vita propria.
August sembrava impassibile.
— "Inserito nella pietra più grezza o nella gemma più preziosa, l'ohr renderà indistruttibile qualsivoglia materia. Materia che nulla potrà scalfire, che nulla potrà ammaccare, purché l'arma da essa ricavata sia brandita da un Figlio della Luce". Questa è una delle tante cose che i Nephilim apprendono non appena sono in grado di comprenderne il senso. Ad ogni modo, una volta che i Miniatori Empirei reperiscono l'ohr e le Forgiatrici Divine lo maneggiano fino ad introdurlo in una qualsiasi sostanza, è compito dei Fabbri Celesti realizzare l'arma vera e propria. Fu tuo padre, Azazel, a divulgare agli Imperfetti i segreti del trattamento dell'ohr. Nessuno credeva che gli umani fossero in grado di lavorare la luce celeste senza risentirne, eppure tuo padre riuscì a dimostrare la falsità di quell'opinione che da sempre era stata erroneamente condivisa e data per scontata.
— E poi che successe?
— Ci furono molte morti. Pochi Imperfetti furono in grado di maneggiare l'ohr in modo adeguato, e questo costò loro la vita. Prima che però la corretta lavorazione dell'ohr potesse diffondersi, gli Angeli Primordiali castigarono Azazel e "graziarono" gli umani a conoscenza dei segreti svelati da tuo padre, tramutandoli in Miniatori Empirei, Forgiatrici Divine o Fabbri Celesti. Questa si rivelò essere la soluzione più rapida e conveniente, e l'ordine venne ristabilito. Tuttavia non chiedermi quali fossero il fine e l'utilità dell'assurda contravvenzione di Azazel, perché non sarei in grado di risponderti, e data l'irrazionalità di tuo padre, non mi sono mai preoccupato né sforzato di comprendere cosa l'avesse spinto a commettere un crimine tale. La ragione per cui Azazel mancò al proprio giuramento rimane tutt'oggi un arcano mistero. In ogni caso, che le sue motivazioni fossero giuste o meno, la grave trasgressione da lui compiuta lo portò ad essere trasformato in demone, costringendolo ad assumere il ruolo di Luogotenente dell'Inferno.
August poggiò le mani congiunte sul davanzale congelato dell'oblò, sul quale giacevano i cadaveri appallottolati di mosche e moscerini. Da un spiffero nella cornice bianca della finestra penetrava l'aria gelida dell'autunno preannunciato.
— Tua madre... — riprese — è morta poco dopo averti data alla luce, uccisa da alcuni servitori di Azazel. Dopo il suo assassinio, tuo padre ordinò ad alcuni stregoni di infliggerti un sortilegio, il cui scopo sarebbe stato quello di privarti per sempre dei tuoi poteri. Ma questo non è successo, o almeno non in modo permanente, ed è un caso straordinario.
August indagò a lungo l'espressione di Debora. Benché studiasse attentamente ogni tratto e piglio del suo viso, non poteva capire quanto Debby, dentro di sé, si sentisse a pezzi. La monotona normalità della sua vita – a cui s'era sempre aggrappata – era andata in fumo.
Forse sarebbe stato meglio non sapere nulla di ciò che stava a mano a mano imparando, nulla sulla sua identità frantumata e sulle sue origini. Forse continuare ad avere una vita per così dire "normale" l'avrebbe aiutata a trovare una base solida su cui poter rimanere in equilibrio. Un appiglio che in ogni momento le avrebbe conferito stabilità.
E invece no.
La normalità non aveva mai fatto parte della sospetta vita di Debby. Non veramente. E Debora, in fondo, l'aveva sempre saputo.
Un tempo aveva creduto che la sua diversità e la sua unicità fossero un problema, o peggio: una maledizione. Aveva creduto che in lei ci fosse un errore, che lei stessa rappresentasse uno sbaglio, senza sapere da chi o cosa fosse stato commesso. Ma ora, erano proprio quelle assurde e mirabolanti verità a darle sicurezza.
Questo sarebbe stato il suo punto di riferimento, l'unica certezza e garanzia: il fatto di essere speciale nel più insolito e singolare dei modi.
— E tu? — chiese Debora ridestandosi. — Perché sei qua? Perché ci sei proprio tu a dirmi tutte queste cose? Sei, tipo, il mio angelo custode?
August sorrise appena. — Sì, una sorta. In verità... Be', è ora che ti parli di me. — Portò lo sguardo altrove, al di là del paesaggio incorniciato dalla finestra. — Come sai, gli ifrit portano il peso dei loro Marchi inumani senza ereditarne nessun tipo di potere. Perciò storicamente ricadono nelle sottoclassi del mondo soprannaturale e spesso operano dalla parte opposta della Legge, incapaci di vivere nel mondo umano così come di condurre un'esistenza degna e meritevole nel Mondo Occulto. All'inizio ero giovane, ingenuo. Credevo che la mia unica possibilità di avere una vita soddisfacente fosse servendo il Male.
La ragazza si irrigidì di colpo e squadrò August, che però, accorgendosene, reagì all'istante: — Non guardarmi così; lasciami finire. Quando si svolse tutta quella... tutta quella faccenda, riguardo tua madre e Azazel, avevo già lasciato il Male. O se non altro, avevo già capito di non volervi più appartenere. Tuttavia non me n'ero ancora andato, così in quel periodo spiai e boicottai alcuni dei piani di Azazel, al servizio di tua madre. Akemi era una donna testarda, oltre che intelligente e altruista. Ma pur sempre testarda. Nonostante fosse un'umana, era riuscita a scoprire e ad affrontare l'esistenza dei demoni, e aveva intenzione di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di proteggere i propri cari. Allora si creò un piccolo esercito di stregoni. Tutti furono colpiti da come un'Imperfetta fosse riuscita ad integrarsi nel Mondo Occulto. Non era mai successa una cosa del genere, ed era sbalorditivo, ma i demoni e gli stregoni di Azazel erano comunque più forti dell'esiguo schieramento di Akemi, e tuo padre, perciò, la fece uccidere. Solo dopo la tua nascita, ovviamente.
Debby si era persa nell'oceano tempestoso e infinitamente profondo dei propri pensieri.
Suo padre aveva ucciso sua madre.
Non esisteva cosa più oscena. Malgrado ciò, non provò niente, nei confronti di Akemi.
Se ne doveva preoccupare?
Probabilmente no. In fin dei conti non l'aveva mai conosciuta.
Più che dal lutto e dal dolore della perdita, Debora era invasa dallo sdegno. Dalla consapevolezza del fatto che le sue vene fossero irradiate dal sangue di un assassino, lo stesso assassino che aveva ucciso sua madre, e che senz'altro sarebbe stato capace di uccidere anche sua figlia.
Ancora una volta, era troppo. Troppe informazioni su argomenti che ancora le parevano irreali.
Eppure Debby ne voleva di più, sempre di più. Perché più sapere accumulava, più domande nascevano. Era uno straziante ed asfissiante, apparentemente interminabile circolo vizioso.
— Continua. Parlarmi di me. Perché Azazel voleva privarmi dei poteri? E per quale motivo ha voluto mettere incinta mia madre per poi ucciderla? — chiese dunque.
August increspò le sopracciglia con aria di forzata riflessione. — So solo che Azazel ha fatto uccidere tua madre per sbarazzarsene prima che lei potesse rappresentare un pericolo concreto, una minaccia. Ma per il resto non saprei. Non so perché abbia voluto ingravidarla al posto di ucciderla subito. E non so perché abbia preferito sprovvederti dei poteri evitando di eliminarti non appena concepita. Niente di ciò che Azazel ha fatto è sensato. Tuo padre era ed è tuttora riconosciuto per la sua incoerenza.
Non le staccò gli occhi di dosso, pronto a sorreggerla al primo segno di tracollo.
— Tutto quello che posso dirti — aggiunse August — è che pochi minuti dopo la tua nascita, ti portai all'orfanotrofio. Tua madre sapeva che l'avrebbero uccisa e che non l'avrebbe potuto impedire. Temeva che se ti avessero trovata con lei, avrebbero ucciso anche te. Così mi chiese di portarti altrove, in un posto lontano, dove avresti potuto vivere una vita tranquilla e felice, con persone che ti avrebbero amata. All'inizio non volevo farlo; non volevo lasciarla. Pensavo di poterla convincere del fatto che sarebbe potuta sopravvivere, del fatto che avesse ancora qualche chance. Ma in fondo sapevamo entrambi quale fosse la verità. Allora ci separammo, a malincuore, e le promisi che mi sarei preso cura di te, sempre e comunque. Le giurai di assicurarmi che tu stessi bene.
August continuava ad osservare Debora con sguardo affranto ed espressione angosciata. Avrebbe voluto prenderle la mano, ma non lo fece. Era necessario, prima, che trovasse e cogliesse l'occasione di carpire il gancio grazie al quale avrebbe ricollegato la realtà al passato, dando un senso a quel suo lungo racconto, che Debby aveva ascoltato con tanta attenzione, seppure sotto shock.
Per cui riattaccò: — Quando i tuoi genitori adottivi vennero a prenderti, io vi seguii e mi stabilii ad Amsterdam, e da allora ti ho sempre tenuta d'occhio da lontano. In questo ultimo periodo, però – e parlo degli ultimi sei mesi –, in te si sono manifestati diversi cambiamenti. L'ho notato, e ho deciso di entrare nella tua vita in modo più diretto. Ho fatto bene.
Tentò di sorridere, ma con scarsi risultati. — Ieri, al Freedom, i tuoi occhi mi erano parsi... neri, anche se solo per un attimo. Completamente neri, come quelli di un demone. Ti ho pedinata e ho vegliato su di te per tutta la notte, fin quando non ti sei svegliata. Il resto della storia lo conosci già. Quindi possiamo dire che... sì, sono il tuo angelo custode.
Debora era spaesata, totalmente.
Non era in grado di reggere il peso di tutte quelle parole, tutto quel miscuglio di storie intersecate tra loro. Stava scoppiando.
Le scappò un singhiozzo e da lì pianse a dirotto. Piroettò su sé stessa e si allontanò da August, ma quest'ultimo la trattenne serrandole un braccio. — Ehi — le disse, con voce di melassa e sguardo confuso.
— Scusa, è che... è tutto così complicato e... istantaneo –– farfugliò Debby. — In un giorno ho scoperto chi era mia madre, chi è mio padre, chi sono io. È stato lui, un mio genitore, ad uccidere la donna che mi ha messa al mondo. Il sangue di un demone scorre dentro di me e... Mi dispiace, io non ce la faccio. Sono... sono... sono un mostro! — Si lasciò prendere dal panico e dalla disperazione, in preda a singulti spasmodici.
August la strinse saldamente per le braccia e avvicinò il suo viso al proprio, costringendola a guardarlo negli occhi. — Ascolta. È difficile. Posso capire che ogni cosa ti sembri tragica e orribile, ma sappi che non sei un mostro. Tuo padre lo è. Tu no, tu sei diversa. Nonostante gli stregoni ingaggiati da Azazel fossero alcuni tra i migliori al mondo, hai ritrovato la tua magia. E questo significa che è molto forte. Invidiabilmente forte.
Lo sguardo dell'ifrit era irremovibile. — Tutto ciò è incredibile, Debby. Tu sei incredibile. E riesco ad immaginare cosa tu possa provare in questo momento, ma cerca di rifletterci. È la spiegazione del perché ti sei sempre sentita diversa dagli altri, del perché non sei mai riuscita a definire la tua identità, del perché hai sempre visto cose che gli altri non vedono. Nel profondo, hai sempre saputo che sei unica e che il futuro ha in serbo per te qualcosa di grande. E di' la verità, in questi due ultimi giorni ti sei sentita più sicura, più a tuo agio nella tua stessa pelle. Questo è perché sei finalmente tornata ciò che eri destinata ad essere: una stregona. La Debby che esisteva un tempo, dimenticala. Era la vera Debby solo in parte. La vera te si palesa adesso che hai ritrovato i tuoi poteri. Adesso che sei finalmente completa. Lo vedi dal tuo nuovo comportamento, meno titubante e più impulsivo. E dalla maggiore confidenza in te stessa. Questa, molto probabilmente, è la vera Debby.
L'enfasi gli illuminava gli occhi.
— È strano da pensare, lo so. Ti sei sempre reputata una ragazza timida, con l'autostima sotto i piedi. Fuori posto in qualsiasi contesto o situazione. Pensi che quel tipo di persona fossi davvero tu, ma ti assicuro che non è così. Non del tutto. Insomma, Debora, sei rinata. In tutti i sensi, di corpo e di mente. Non credevo possibile che una ragazza di diciassette anni potesse riappropriarsi dei suoi poteri dopo esser stata vittima di un maleficio tanto forte. È una cosa... fantastica, eccezionale.
Debby non piangeva più. E benché sulle sue guance colasse ancora qualche lacrima residua, era seria, composta. Impressionata da quanto quel ragazzo potesse essere convincente; da come lui, stringendola e rassicurandola, potesse trasmetterle un tale senso di pace e risolutezza; da quanto potesse capirla – persino più di quanto lei stessa sarebbe mai riuscita a capirsi.
Quando August s'accertò che Debora si fosse effettivamente calmata, allentò la presa dalle sue gracili braccia. Tacque, fissandola e aspettando.
— Grazie — gli disse lei, la voce rotta per via del pianto che l'aveva scossa fino a qualche attimo prima. — Hai ragione. Tutte queste novità, per quanto sconvolgenti, danno un senso ad ogni cosa.
Lui allargò la propria espressione in un sorriso sollevato e rasserenato. — Di niente — le rispose.
Lei dondolò sui talloni, cercando di riordinare i pensieri, sparsi in un guazzabuglio di euforia, terrore, incredulità e speranza. — Sai, sono felice che tra tutte le persone a questo mondo, sia stato proprio tu ad esserti preso cura di me — confessò. — Non so come avrei fatto altrimenti. Sono sincera. E mi dispiace per... per ieri notte.
August si avvicinò ancora una volta, ma, a differenza di prima, racchiuse il piccolo e umido viso di Debora tra le proprie mani. Erano grandi, calde, raschianti e callose. Dolci.
Debby temette di incontrare il suo sguardo. Il cuore iniziò a batterle all'impazzata, martellandole nel petto come se potesse saltarle in gola.
— E io sono onorato di poterti stare vicino — disse lui. — Debby, voglio che tu lo sappia. Non ho mai visto nessuno come te, né in questo mondo né in quello Invisibile. Hai un effetto unico su di me, che non so descrivere.
Si zittì, poi schiuse le labbra, come per aggiungere qualcosa, ma subito dopo si rimise a tacere. Infine si decise: — So soltanto che sento costantemente il bisogno di scavare più a fondo dentro di te, per capire davvero chi sei. E per quel che mi riguarda, non mi stancherei mai di cercare. Mi attrai a te e non posso resisterti, perché ho troppa voglia, troppa impazienza di scoprire chi sia veramente Debora Myako Brouwer. O forse ora dovrei dire Debora Myako Urushiba.
Debby non sapeva cosa rispondere. Aveva perso l'uso del linguaggio. Tutto ciò di cui si rendeva conto era il tremore interiore che sembrava sconquassarla ad ogni parola pronunciata da August. Poi lo vide farsi sempre più vicino e pensò di essere sul punto di disintegrarsi in mille particelle di polvere fine ed insignificante. Dalla notte scorsa, la sua opinione a proposito del ragazzo era cambiata molto, se non completamente. In quel momento, Debora non sapeva cosa dovesse pensare. Associò l'idea che s'era fatta di August nei mesi precedenti a una scultura perfetta. A partire dalla notte precedente, la scultura era esplosa, spezzettandosi. E ora le toccava – per via di ciò che era successo nel giro di sedici ore – recuperare ogni masso disperso e ricostruire la statua dal nulla, raggruppando blocchi di pietra che tra loro probabilmente non avrebbero combaciato.
Debby si smarrì nell'evolversi di quelle riflessioni. August le portò un pollice alla tempia, dove, dalla coda dell'occhio, le asciugò una lacrima rimasta in bilico tra un singhiozzo e l'altro. Ed infine...
iniziò ad allontanarsi, molto lentamente.
Debora, ancora piuttosto diffidente, si sentì irritata e punta nel vivo.
August l'aveva lasciata in preda alla disillusione più snervante. Non era sicura di quale effetto avesse prodotto in lei quel gesto vigliacco. Allora lo guardò negli occhi: così facendo l'avrebbe messo in difficoltà – ne era consapevole.
Le guance della ragazza bruciavano insopportabilmente, e le sue iridi luccicavano. Poteva dedurlo dalla luce viola riflessa nelle pupille di August.
— Senti, che ne dici se ora ti porto a casa? — le chiese lui distogliendo lo sguardo. — Per oggi ti ho detto abbastanza. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo per parlare di te e del tuo nuovo mondo.
Debby era persa nei suoi occhi argentei. Era impotente, o almeno credeva di esserlo, e detestava con tutta sé stessa sentirsi così. Fiacca. Svigorita. Lo detestava ancor più del fatto che August non avesse deciso di colmare quella distanza che per poco aveva diviso i loro volti. Debora in effetti aveva desiderato con tutta sé stessa che le loro labbra si fossero incontrate. Per un semplice motivo: aveva l'impressione che un tentativo di quel tipo avrebbe risposto alle sue incertezze molto più efficacemente di quanto avrebbe fatto un'infinita serie di parole.
Nonostante tutto annuì, mentre il suo cuore dissentiva.
Pochi minuti dopo, i due erano di nuovo in sella all'Harley Davidson. I muscoli di August guizzavano sotto le mani di Debby ad ogni contrazione; lei si reggeva a lui e veniva artigliata dall'aria pizzicante.
Aspettando al semaforo, Debby sentì il cellulare vibrarle nella tasca dei pantaloni.
Lo recuperò.
Era Rina.
— Pronto, Rina?
— Debby, finalmente ti fai viva! Ma dove cavolo sei? Tua madre ci ha chiamate cinquanta volte, dicendoci che aveva provato a contattarti e che tu non avevi risposto. Ti abbiamo salvato il culo, e con successo, oserei dire. Si può sapere dove sei finita?
Il tempo con August era volato: erano quasi le sei, e guardando la schermata del cellulare, Debora notò cinque chiamate perse. Rina era la regina delle iperboli.
— Ehm... non lo so. — Col cellulare incollato all'orecchio, si sporse in avanti. — Dove siamo? — chiese ad August.
— Di' che arriviamo tra cinque minuti — rispose lui.
— Tra cinque minuti sono lì.
— Okay, ti aspettiamo all'angolo. Vedi di muoverti, ché se tua madre ci scopre siamo nei guai fino al collo. Tutte e tre. — E con questo, Rina riattaccò.
I due arrivarono davanti a casa di Debora, in Runstraat, proprio come predetto da August.
Accostarono al marciapiede. Debby si affrettò a scendere; si levò il casco per una seconda volta e lo porse al ragazzo. — Grazie di tutto. Ora scusa, ma devo andare. Se mia madre scopre che non ero con Lotty e Rina, mi ammazza. A presto.
Prima che potesse correre a casa, però, August le sfiorò una mano. Al suo tocco, Debora si voltò. Sorrisero entrambi.
Fu allora che la novella stregona avvertì una stretta al cuore. Ripensò alla distanza irrisoria che poco prima aveva rappresentato un odioso confine tra lei e August, confine che era maledettamente rimasto tale.
— Ora sarà meglio che vada — gli disse. — Ciao. — Corse frettolosamente incontro a Rina e Lotty, irrequiete e scalpitanti all'angolo della via.
Riconobbe l'espressione di vorace curiosità stampata sui volti delle due amiche, così le ammansì prima ancora di poter essere bombardata e bersagliata dalla prevedibile raffica di domande. — Non-di-te-nien-te — sillabò. — Andate dentro, forza. — Le incitò ad incamminarsi verso casa.
Le due ragazze obbedirono, baldanzose e ingarzullite.
Salirono in camera di Debora e lì crollarono sul suo morbido letto. Salterellavano dalla curiosità e dall'agitazione. — Avanti, dai! Cosa aspetti a dirci tutto? — la pungolò Lotty.
— Okay, okay, calmatevi. Ora vi racconto — le tranquillizzò Debby. — A dir la verità, non è che ci sia molto da dire. Si chiama August, ci siamo conosciuti al Freedom e siamo diventati amici. Oggi mi ha fatto una sorpresa, mi ha portata a fare un giro, abbiamo parlato e... e non è successo niente. O almeno, niente di quello che potrebbe interessare a voi, conoscendovi. — Il suo stomaco si contraeva in mille capriole, ai ricordi di quel pomeriggio.
— No! Ma perché? — sbottò Rina.
— Presumo che sia stato perché neppure io ho avuto il coraggio di prendere l'iniziativa –– ammise Debora con rammarico.
Rina scosse la testa in segno di riprovazione. — Debby, Debby, Debby... I ragazzi sono già abbastanza stupidi di per loro: dovresti aiutarli. Sai cosa intendo.
Le tre ragazze sghignazzarono.
Il resto della serata trascorse piuttosto in fretta.
Verso le tre del mattino, Lotty e Rina si addormentarono, mentre Debora rimase sveglia a meditare sulla giornata.
Pensò a quanto bene volesse alle sue amiche. A Lotty – Charlotte Mayer – e a Rina – Karina van Deer Meer.
Lotty era una ragazza di media statura e abbastanza in carne, dagli occhi nocciola e i capelli color caramello. Il suo volto era lievemente pervaso da una satura distesa di lentiggini. Non era di molte parole – per via della sua innata introversione – ma nel momento stesso in cui riusciva a sbloccarsi, si rivelava dolce, tenera ed estremamente generosa.
Tuttavia, se da una parte Lotty era taciturna e reticente, dall'altra Rina non mancava mai dall'aggiudicarsi l'ultima parola. E nonostante potesse mostrarsi acida e polemica, era un'amica su cui poter contare ad ogni evenienza. Era di costituzione slanciata; aveva occhi azzurri, glaciali, e capelli lunghi appena sopra le spalle, di un biondo platino talmente chiaro da variare al bianco.
Ma Debby pensò soprattutto a ciò che le stava accadendo.
E ad August.
Quest'ultimo stava assumendo un certo ruolo, nella sua vita. Non sapeva di che tipo, precisamente, ma se non fosse stato per lui, chissà in quali condizioni si sarebbe ritrovata.
Inoltre, il ragazzo aveva parzialmente ragione sulla questione della vera Debora. Debby doveva riconoscerlo: la notte in cui aveva scoperto di essere una stregona si era sentita incredibilmente viva. Sconvolta, ma pur sempre viva. Quella duplice sensazione di turbamento ed esaltazione continuava a crescere, e lei la recepiva con sospetto, sì, ma anche con curiosità.
Esitava ancora a crederci. Eppure, ogni cosa aveva una spiegazione logica, si incastrava perfettamente nei meandri della sua esistenza e ne colmava i recessi.
E dire che fino a due giorni fa, Debora si sarebbe definita una ragazzina qualsiasi. Ora non sapeva più che pensare, né di sé, né di August, né delle circostanze. Ciononostante era consapevole del fatto che la parte di diletta quotidianità legata alla sua vita abituale non l'avrebbe mai del tutto abbandonata. Dopotutto, era anche grazie ad essa se era arrivata fin lì.
Nel bel mezzo di quelle considerazioni, Debby strattonò la coperta di cotone che Lotty e Rina, incoscientemente, si stavano contendendo con avidità.
Sospirò. Non riusciva ancora a capacitarsi del fatto che tutte quelle inconcepibili novità potessero, per certi versi, essere reali. Aveva sempre tenuto conto dei cosiddetti aspetti positivi dell'ipotetica scoperta di sé stessa, tralasciando quelli negativi, maligni, che erano comunque compresi e andavano ugualmente valutati.
August aveva parlato a Debora di demoni, di tenebre. E da ciò che le aveva detto, lei era una stregona, e il suo sangue era dunque, per metà, sangue oscuro, sangue demoniaco.
Ma se da un lato era atterrita, investita dai singhiozzi, da pensieri e paure, da lacrime roventi – evanescenti canali di lava –, dall'altro non avrebbe potuto appagarsi di quella rivelazione? L'evento non avrebbe potuto in qualche modo... giovarle?
Sarebbe stato illogico. Però Debby aveva resistito, e ora poteva sentirsi bene? molto bene? anzi, benissimo? quasi galvanizzata?
Sarebbe stato sbagliato?
Non lo sapeva.
Era tremendamente combattuta. Possibile che l'episodio avesse soddisfatto ogni suo precedente dubbio?
In fondo, tutte le domande che Debby si era posta fino a quel momento avevano ricevuto una risposta, come promesso da August, nonostante l'avessero sconvolta. Quelle domande in cui s'era chiesta come mai le piacessero tanto le cose "strane", come mai fosse sempre alla disperata ricerca di sé stessa e come mai ogni notte emergesse da incubi traumatici. Quelle domande in cui aveva dubitato della propria persona.
Era semplice: Debora era stata all'oscuro del proprio destino.
Ma le cose sarebbero cambiate presto.
E ora voleva altre risposte ad altre domande, ed era naturale che se ne facesse di nuove. Riguardo lei, riguardo August.
Riguardo tutto.
E per quanto la situazione la insospettisse, in essa concepiva un qualcosa di... giusto. Un qualcosa che aveva aspettato per una vita intera.
Nella sua mente sorgevano nuovi dubbi. Cosa le sarebbe successo ora? Sarebbe entrata a far parte del Mondo Occulto? E se sì, gli altri Occulti e i Figli della Luce l'avrebbero accettata? Perché Azazel aveva reso gravida sua madre per poi ucciderla? E per quale motivo, a sua figlia, aveva risparmiato la vita privandola però dei suoi poteri?
Da ciò che Debby sapeva, sembrava quasi che suo padre avesse voluto che lei sopravvivesse. Ma la domanda era: perché?
Alla fine decise di non pensarci. Doveva godersi il momento finché fosse stato possibile. Allora non avrebbe potuto prevederlo, ma non si sarebbe trattato di molto tempo.
Così chiuse gli occhi e si addormentò, le labbra curve in un quieto sorriso.
Per la prima volta dopo tanto tempo, Debora dormì senza inceppare nei tranelli degli incubi, opere di spietatezza.
E pianse.
Non sarebbe stata in grado di riconoscere a quale natura appartenessero le sue lacrime.
Tristezza – dubbi
o gioia – risposte?JCg2
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Le Origini Negate
FantasyDebora non pensa di avere precedenti. Non pensa di avere un passato, né un futuro. Ma ha incredibilmente bisogno di entrambi, più di quanto possa immaginare. E sarà solo quando i suoi sogni e i suoi incubi si realizzeranno brutalmente, che se ne ren...