Debby era attorniata da tenebre silenziose e maligne, affamate dei suoi sogni e desiderose di privarla d'ogni notte serena.
Dopo essere stata vittima di incubi agghiaccianti, l'impatto con la realtà era incredibilmente violento e brutale. Uno schiaffo in pieno viso, con tanto d'artigli.
In quel periodo, i tormentosi sogni di Debora erano frequenti, ma ricordare cosa avessero raffigurato era impossibile. Persino i più deboli stralci di memoria svaporavano nell'oblio. La ragazza si svegliava di colpo in un bagno di sudore, terrorizzata e in preda al panico. E ciò che detestava ancor più era non sapere cosa rendesse quei sogni tanto terrificanti.
Dopo i soliti incubi, ormai quotidiani, riaddormentarsi era un'impresa. Non tanto perché Debby non potesse, ma perché non voleva: rimanendo sveglia per tutta la notte, credeva di poter scampare all'oscurità. Si sarebbe incollata le palpebre alle sopracciglia, pur di non ricadere nel sonno.
Non che questo funzionasse per la notte successiva.
Debora contava senza dubbio sull'appoggio delle sue due più care amiche, Lotty e Rina, oggetti di sfogo e confidenza. Ma per quanto queste ultime la consolassero, le cose non cambiavano.
Anzi, strano a dirsi, ma più il diciassettesimo compleanno di Debby incombeva, più le atrocità dei suoi sogni si rinvigorivano. Il tempo sembrava sfamarle.
Le pareva quasi che il fato si facesse beffa di lei, poiché Debora, a proprio discapito, amava la notte: questa la nascondeva e proteggeva, sigillandola tra le pareti blindate dei sogni che abitualmente non poteva concedersi, dei particolari e dei dettagli che alla luce del giorno mutavano aspetto.
Era ormai mattino. Debby si infilò una tuta e un maglione rubato di nascosto a suo padre adottivo.
Sapeva poco o niente, dei suoi veri genitori. Naturalmente non le faceva piacere essere ignara delle proprie origini, e non sapere di chi fossero i tratti del suo viso, o se mai li avrebbe ritrovati nel volto di qualcun altro; ma in fondo, Debora aveva tutto ciò di cui aveva bisogno: una famiglia, una casa, e amici di cui potersi fidare.
Dopo essersi pettinata, si avviò verso l'uscita di casa, afferrò le chiavi da una scodella di mogano e osservò la propria immagine riflessa nello specchio: i capelli neri le allungavano il viso, e gli occhi viola, anche se cerchiati da un paio di occhiaie, erano due esplosioni di colore a contrasto della pelle candida come neve incontaminata.
Non c'era niente da dire: Debby era una bella ragazza.
Eppure non amava farsi notare. Non per niente, soleva indossare vestiti larghi che nascondessero le sue forme, e se la giornata era luminosa, non esitava a portare gli occhiali da sole, per esporre il meno possibile gli occhi che la rendevano tanto speciale e tanto diversa dagli altri.
Debora si pizzicò le guance e si morse le labbra per conferire al proprio viso un po' più di colore. Dopodiché uscì.
Era un giorno umido e nuvoloso. Eccessivamente caldo, per i soliti standard di Amsterdam.
Durante il tragitto verso il Freedom – un ritrovo per artisti alternativi in Berenstraat –, Debby si limitò a mantenere lo sguardo fisso sul marciapiede. Evitò gli sputi dei pedoni passati prima di lei e le gomme da masticare spiaccicate qua e là. Si strinse nelle spalle per non volare via ad ogni sporadico soffio di vento. Osservò i mozziconi di sigaretta e i tappi di bottiglia ormai sprofondati nel cemento, tirando a indovinare a quale marca d'alcolici appartenessero.
Nonostante il sole giocasse a nascondino dietro i densi nuvoloni grigi e il vento ogni tanto ululasse, i passanti venivano oppressi da un calore insolito, interpretato dai meteorologi televisivi delle ultime settimane come uno dei tanti sbalzi di temperatura previsti e causati dalle prime e vivaci manifestazioni del mese d'ottobre.
Debora adorava l'autunno.
Era la stagione in cui era venuta al mondo, e ogni anno non aspettava altro che la brezza autunnale inondasse la città. Amava le mattinate che parevano sere, le giornate grigie e buie trascorse a rintanarsi sotto un caldo piumino, mentre la pioggia batteva contro la finestra di camera sua rigandola di piccole goccioline d'acqua.
Amava le diverse tonalità di giallo, rosso e marrone. Amava il modo in cui le foglie rinsecchite si arricciavano verso il cielo, assetate di luce. Amava leggere un libro sorseggiando una tisana alle spezie accanto al camino, baciata dalle fiamme crepitanti. Amava il fatto che la luce fievole e a volte inesistente dell'autunno potesse nasconderla agli occhi altrui come le nuvole occultavano il sole.
Finalmente Debby avvistò il ritrovo e accelerò il passo.
Benché non avesse ancora scoperto il proprio talento, era attratta da ogni particolare inconsueto. Era alla ricerca di sé stessa, e scoprire cose nuove le dava speranza. Speranza nel trovare qualcosa in cui davvero si sentisse a suo agio.
Al Freedom, tutti la conoscevano: Debora commentava le opere degli altri frequentatori, dava loro consigli e spesso li aiutava con qualche svelto lavoretto. Tra i membri del ritrovo, aveva particolarmente stretto con August.
Debby si recava al ritrovo ogni domenica, o quasi. Al mattino si costringeva ad uscire dalle coperte per poi immergersi in una doccia fredda e a dir poco irritante. Sapeva, nel più profondo del suo cuore, che era quel ragazzo a sollecitare quella sua abitudinale follia.
— Be', sicuramente è solo un periodo un po' difficile — disse August. — È probabile che la causa dei tuoi incubi sia lo stress. Ma non puoi decidere di non dormire per evitare di avere brutti sogni. Crollerai, prima o poi.
Il ragazzo armeggiava dietro l'apparecchiatura da DJ, intento ad occuparsi di dischi e cavi elettrici con un paio di cuffie al collo. I capelli neri gli ricadevano sul viso, oscurando quegli occhi azzurri dai riflessi argentei che avevano catturato Debora sin dal primo incrocio di sguardi, una deflagrazione di sfumature viola e argentee.
— A proposito, scusa la franchezza, ma oggi hai due borse non poco indiscrete sotto gli occhi. Il tuo aspetto non è esattamente dei migliori.
— Oh, grazie! — rispose Debby ironicamente. — Apprezzo la tua sincerità. E comunque ti ringrazio per i consigli, August. Sei un amico.
— Di niente — disse lui sorridendo. — Stasera che fai?
— E me lo chiedi? — La ragazza inarcò le sopracciglia. — Niente, domani ho scuola. Cosa vuoi che faccia?
— Ah, è vero che sei ancora prigioniera dell'istituzione scolastica. Scusa — la punzecchiò August, con tono e sguardo provocanti. C'era qualcosa di lievemente stucchevole e paradossalmente lusinghiero in quel ragazzo, e nonostante l'età – ventun anni! – Debora, standogli accanto, si sentiva... bene. Semplicemente bene.
Si sovvenne della prima volta che August le aveva sorriso, la prima volta che l'aveva degnata di una parola, che aveva sfiorato le sue mani con le proprie, e l'aveva abbracciata. Erano passati diversi mesi, eppure quei ricordi rimanevano vividi nella mente di Debby, uno spiraglio di luce nel buio più assoluto.
Bastava includere August in uno dei suoi pensieri affinché il battito cardiaco le accelerasse e lo stomaco le si rattrappisse in una morsa vorace. Debby sapeva che significato potesse avere provare certe sensazioni per una persona, e quella mera consapevolezza la elettrizzava e spaventava al tempo stesso. A volte si ritrovava a rifiutare e reprimere l'idea; a volte la accettava e accoglieva a braccia aperte.
E ora, lei ed August erano solo "amici".
Non avrebbe dovuto, ma quel termine, tanto semplice – fin troppo semplice – e così poco significativo, la urticava come un maglione di lana insopportabilmente pungente. — Ah-ah-ah, davvero molto divertente — frignò.
August si chinò in avanti, i gomiti poggiati sul bancone, pressati contro l'addome, le braccia aderenti al petto. Si limitò a scoccarle uno sguardo volpesco e ad alzare un angolo di quella sua bocca sottile ed intrigante.
Poi, in un istante, gli accattivanti tratti del suo viso mutarono: si corrucciarono senza alcun preavviso, assumendo le linee di una maschera dal materiale grinzoso.
Il ragazzo si fece più vicino; il suo naso per poco non sfiorò quello di Debora. La scrutava come se qualcosa, in lei, lo terrificasse. Poi, senza scollarle gli occhi di dosso, fece il giro del bancone, e Debby tornò in sé stessa solo quando sentì le gambe di lui contro i propri fianchi. Sembrava che si stessero abbracciando senza l'utilizzo di mani e braccia.
August, ancora stranito, batté le ciglia più e più volte, come se avesse intravisto un qualcosa di spaventoso e ora non credesse ai propri occhi. Pareva essere alla ricerca di una conferma.
Ma la conferma di cosa?
Il volto di Debora fu attraversato da un sorriso prudente, effimero. Vagamente impaurito.
Avrebbe voluto chiedere ad August cosa lo turbasse tanto. In tal modo, però, lo avrebbe riscosso con bruschezza eccessiva e lui si sarebbe distaccato, ricorrendo ad una battuta penosa – battuta che detta da lui, però, sarebbe suonata esilarante. Avrebbe cambiato argomento, e Debby gliel'avrebbe lasciato fare.
Per cui non fiatò. Perdurò un silenzio colmato da sguardi profondi e trasognati.
Fu lei a rompere il ghiaccio: — Sai cos'ho sempre notato, August?
Lui scosse la testa, con sguardo invaghito. Erano talmente vicini che Debora iniziò persino ad avere paura di respirare.
Ma le piaceva. Le piaceva ritrovarsi così prossima ad August inalando il dolce profumo di sudore che la sua pelle emanava.
— Ho sempre notato — esordì — che tu sei la prima e unica persona a non aver mai detto niente sui miei occhi viola.
August tacque, senza smettere di osservarla come se si fossero sempre appartenuti e non se ne fossero mai accorti. — Se vuoi sapere la verità, Debby, non ho mai commentato il colore dei tuoi occhi perché ho capito che essi ti si addicevano sin dal primo istante in cui ti ho vista — rispose. — Sia tu sia i tuoi occhi siete unici nel vostro genere. Ti rappresentano.
Debora sorrise senza neanche volerlo.
Quelle parole la costrinsero a realizzare di trovarsi decisamente troppo vicina ad August.
Si sentì avvampare per l'imbarazzo. Mosse un passo per scostarsi piano piano dal ragazzo; tenne lo sguardo basso per non mostrare il rossore sulle proprie guance. — Ora, ehm... è meglio che vada. Sai, i miei si staranno preoccupando. È tardi.
— Oh, certo. — August districò il proprio corpo da quello dell'altra in maniera impacciata, un po' troppo frettolosa, come se si fosse improvvisamente risvegliato da un sogno.
Debora recuperò le sue cose e lo salutò. Sgattaiolò fuori dalla stanza e lasciò August esattamente nel punto in cui i loro volti si erano trovati a meno di un centimetro l'uno dall'altro.
Quando arrivò a casa, si precipitò in mansarda – in camera sua; gettò la borsa ai piedi della scrivania, si sfilò le scarpe con due calci e si tuffò nella marea di cuscini e peluche che ricopriva il suo letto. Sdraiata, si intrecciò le dita dietro alla testa e fissò il soffitto, tappezzato di poster e fotografie. Poi, dopo aver cambiato posizione centinaia di volte, Debby si sedette a gambe incrociate, abbracciò un pupazzo ed iniziò a mordicchiarsi le unghie.
Sentiva lo sfrenato bisogno di strillare e allo stesso tempo di nascondersi sotto la scrivania, al solo pensiero di quanto lei e August fossero stati vicini, e di quanto lei si fosse lasciata assoggettare.
Cosa le stava succedendo?
Qualcuno bussò alla porta.
Era Hanna, la madre adottiva di Debora. — Tesoro, la cena è pronta. Scendi?
— Se non ti dispiace, mamma, sono parecchio stanca. Vorrei provare a dormire.
Qualcosa, nell'animo della ragazza, le suggeriva di lasciarsi travolgere e cullare dal sonno.
La madre era a conoscenza dei problemi di insonnia della figlia, così le concesse senza esitazioni di andare a letto. — Ma certo. E dormi bene. Ti voglio in forma per i festeggiamenti dei tuoi diciassette anni.
Le scale scricchiolarono finché Hanna non giunse al pianoterra. Debby si spogliò, indossò il pigiama di lino bianco, si lavò i denti e andò a rifugiarsi sotto le coperte vellutate. Chiuse gli occhi e scivolò in un sonno profondo.
Tenebre oscure la ammantavano e avviluppavano.
Debora levitava nell'oscurità, incosciente di dove si trovasse e incosciente di sé stessa.
Si sentiva incredibilmente leggera, come se fosse stata svuotata d'ogni organo e di ogni goccia di sangue.
D'un tratto percepì un prurito alla schiena, e senza sapere come, la sua anima sembrò fuoriuscire dal corpo che la imprigionava, permettendole di osservarsi da un punto di vista esterno, così che Debby poté scrutare sé stessa nel nonnulla.
Dietro la sua sinuosa schiena si libravano enormi ali nere. Debora rovesciava la testa all'indietro; i lunghi capelli neri le fluttuavano attorno come la chioma di Medusa, mischiandosi e confondendosi alle tenebre.
Venne avvolta da un'ombra in un fascio di oscurità. E gridò, gridò con tutta sé stessa.
Ma non emise alcun suono.
Debora si rizzò a sedere di scatto. Ansimava, grondava sudore. Il terrore la dilaniava.
Ricordava ogni cosa, ogni particolare che potesse ricondurla al proprio incubo: uno spazio vuoto e indeterminato, lei che fluttuava nel nulla, munita di gigantesche ali nere.
Brancolò nel buio fino a premere l'interruttore della lampada poggiata sul comodino. La luce immediata la accecò; tuttavia fu questione di un secondo, perché presto, Debby venne riportata alla realtà da un tonfo sordo e accennato: il portamatite sulla scrivania era caduto. Si voltò: August era curvo su di lei dal lato opposto del letto.
August.
— Che diavolo... — Ma prima che potesse terminare la frase, o reagire in qualsiasi altro modo immaginabile, Debora avvertì una fitta lancinante ad entrambe le scapole. Lanciò un grido di dolore, scalciando e spingendosi indietro, contro lo schienale del letto.
— Calmati, ti posso spiegare — la ammansì il ragazzo.
Lei non lo ascoltava, quasi avesse perso il senso dell'udito. Tutto ciò che riusciva a percepire era quell'abrasiva fitta alle scapole. Le pareva che le sue stesse ossa premessero verso il fuori, nell'intento di bucarle la schiena e di liberarsi dalla carne che le opprimeva, scarnificandola dall'interno.
— Debby, insomma, ascoltami! Stai sognando.
La ragazza si calmò di colpo e riportò lo sguardo su August. Ne scandagliò la figura, la fronte corrugata, lo sguardo accigliato.
Aveva ragione, per forza. Non poteva che trattarsi d'un sogno. Due incubi in uno, un incubo inscatolato nell'altro.
— Ma... sembra tutto così reale — farfugliò in un rantolo.
— Lo so, ma non lo è. Il solo modo che hai per svegliarti è ascoltandomi.
Debby esitò. — Ti ascolto.
— Bene. — August sospirò. –– Senti, puoi controllare questo dolore. Devi solo smettere di opporre resistenza. Rilassati, e tra poco non sentirai più niente.
Debora seguì le sue indicazioni. Chiuse gli occhi, inspirò a fondo ed espirò dalla bocca, esalando una gran quantità d'aria. Pochi minuti dopo, ogni dolore cessò.
Era solo un incubo, si disse.
Ma si sbagliava.
Sì, le ossa avevano smesso di ribellarsi al suo corpo, eppure le sue scapole parevano essersi appesantite. Quasi fossero cresciute.
— Perfetto. Ora che ti sei calmata, devi sapere una cosa — disse il ragazzo.
Lei lo fissò in silenzio.
August raddrizzò il busto, prima piegato per chinarsi su Debora. –– Ecco, vedi... tu non stai sognando.
Debby sbarrò gli occhi. — Cosa?! — Si alzò e inaspettatamente perse l'equilibrio; un apparente peso sulla schiena la trascinò con sé fino a farla cadere all'indietro. Era sul punto di sbilanciarsi del tutto, ma August corse a sorreggerla. Debora si ricordò di quando, quel pomeriggio, si erano ritrovati tutto d'un tratto appiccicati. Subito scacciò il pensiero: era furiosa, udiva il sangue ribollirle nelle vene per via della rabbia corrosiva, ed era sopraffatta dall'innato desiderio di gridare con tutte le sue forze, tanto da rompere i vetri delle finestre.
Tutta quell'assurda situazione – e persino August – le trasmettevano una paura tale da sbranarla.
Senza rendersene conto, lo spinse lontano da sé, con quanta più foga le fu possibile.
— Ti sentiranno! — la rimbrottò lui.
— Io non sto sognando? E allora mi spieghi che cavolo ci fai tu, qui, in camera mia, a mezzanotte passata? — tuonò Debby. — Come sei entrato? Tu... tu... vattene, non osare toccarmi. Vattene via, lasciami, lasciami in pace!
— Debora, non ti voglio fare del male. È difficile da spiegare... — In quel momento, August le parve vulnerabile, spaventato, ferito. Quanto lei, forse. Ma prima che potesse anche solo tentare di darle spiegazioni, le scale cigolarono sotto una marcia di piedi striscianti. La voce di Hanna raggiunse la camera di Debora: — Tesoro? Tutto bene?
Debby ebbe la conferma che tutto quanto, tutto ciò che le stava succedendo, era reale.
— Sì, mamma — gridò di rimando.
Perché aveva mentito? Perché non aveva chiamato soccorso? August, nella sua stanza, a quell'ora, la terrorizzava. Chi era davvero? Com'era entrato, e perché era lì con lei, proprio la notte in cui era riemersa dall'unico incubo che le fosse mai rimasto impresso con la precisione e l'esattezza di una fotografia? Cosa poteva mai voler dire?
Hanna non si fermò.
–– Vai sotto le coperte. Rimboccatele e copriti per bene, fino al collo –– bisbigliò l'intruso.
— Che? Perché dovrei andare sotto le coperte? Cosa vuoi, cosa vuoi da me? Devi andartene!
Il ragazzo additò il letto con fare autoritario, nascondendocisi sotto un attimo dopo. Debby si coricò.
Hanna entrò. — Ti ho sentita gridare. Fatto altri incubi?
Indossava una vestaglia di cotone turchese; portava i capelli sciolti e arruffati, gli occhi strabuzzanti, la voce impastata dal sonno.
Debora ponderò ogni possibilità. Avrebbe potuto fare cenno muto, a sua madre, del fatto che sotto il suo letto si nascondesse un maniaco, un depravato. Ma la mimica da mettere in atto si sarebbe svelata piuttosto complessa e articolata.
Seconda possibilità: convincere Hanna a tornare a letto e a non agitarsi per lei. A differenza del piano A, sarebbe stato molto facile a compiersi, ma più rischioso.
Quali erano le reali intenzioni di August?
Su questo si basavano i ragionamenti di Debby.
Non trovava alcuno sbocco. Ma prese la sua decisione.
— Adesso sto bene. Grazie, mamma. — Debora sorrise di sbilenco.
Sua madre sembrò indugiare sulla soglia della porta. — Sicura? Non vuoi che ti porti una camomilla?
— No, non ne ho bisogno. Grazie comunque.
— Okay. Buona notte, Debora.
Quando la porta dietro Hanna si richiuse, la ragazza scalciò via le coperte. August strisciò fuori da sotto il letto, e lei lo incalzò con voce bassa e sibilante: — Ora come ora, mi spaventi a morte. Non vedo nessun motivo per il quale dovresti essere in camera mia a notte fonda. Non so di che tipo sia il dolore che mi assale e non so come tu me l'abbia fatto passare. Se solo mi tocchi, o ti avvicini di un millimetro, io grido a più non posso e qualsiasi sia il tuo intento, fallirai. Devi andartene immediatamente. Non accetterò nessuna sorta di spiegazione, o di scusante. Vattene, August. Vattene, e non farti vedere mai più.
Le richiese un sforzo mentale sovrumano e un autocontrollo incredibile, minacciare August senza lasciarsi sopraffare dall'inquietudine.
Il ragazzo titubò, boccheggiando lievemente, come se le parole gli morissero in gola, e lì vi rimanessero intrappolate, soffocandolo. –– Io... ehm...
E successe.
Debby intravide il proprio riflesso nella finestra illuminata dalla flebile luce della lampada ancora accesa. Si girò verso lo specchio accanto al proprio letto.
Rimase paralizzata, sgomenta.
Da dietro la sua schiena, e solo in quel momento, si spiegarono due maestose ali nere.
Esattamente
come
nel sogno.
Questo spiegava il dolore alle scapole e il senso di pesantezza. Le ali erano ripiegate su sé stesse, abbastanza da sfuggire alla coda dell'occhio.
Debora fece per svenire, ma la vista di quelle ali era talmente strabiliante e surreale da impedirle di perdere i sensi. Si sentì mancare l'ossigeno, lacrime bollenti le ustionarono gli occhi, l'aria le andò di traverso, la testa sembrava scoppiarle.
— Questo non è possibile. Mi hai presa in giro, è tutto un sogno. Tu... Sono pazza! Oh mio Dio, oh mio Dio... — Strillava, le sue urla erano lamenti ultrasonici. Iniziò a tremare, convulsamente. Si accartocciò su sé stessa.
August si fiondò su di lei e le tappò la bocca. Le strinse le braccia da dietro in modo da immobilizzarla. — Basta! Basta, Debora, basta. No, non è tutto un sogno. Se sei disposta ad ascoltarmi, ti potrò spiegare ogni cosa.
Debby lo guardò con aria supplicante, gli occhi sgranati, urlanti, che imploravano pietà. Sentiva, ma non reagiva. Non ne era in grado: la paranoia si era ormai impossessata di lei, squassandola senza darle tregua. Tutto ciò che le riusciva era subire. Lui, allora, la condusse fino al letto, dove la costrinse a sedersi. — Ciò che ti sto per dire potrebbe scioccarti ulteriormente. Devi tranquillizzarti. So che non ti sembra possibile, ma non puoi fare altrimenti.
Debora trovò la forza di annuire. Doveva tentare. Aveva l'impressione, se non la certezza, del fatto che, in caso contrario, sarebbe morta.
Consacrò ad August ogni minima attenzione. Il suo tremore si moderò e provò ad allontanare ed ignorare momentaneamente qualsiasi pensiero angoscio le passasse per la mente.
— Ascoltami — cominciò il ragazzo. Si sedette accanto a Debby e sprofondò nelle soffici coperte. –– Immagino che tu conosca già gli esseri fantastici di cui si parla nei libri. Sai, licantropi, stregoni, vampiri e fate. Prestami bene attenzione. Queste quattro razze formano il gruppo degli Occulti. Ognuna di loro esiste, dalla prima all'ultima. E non solo. Il Bene e il Male sono rappresentati rispettivamente dagli angeli e dai demoni.
August non dava segno d'esitazione.
–– Ma c'è di più. L'equilibrio tra Luce e Tenebre è gestito dai Nephilim, detti anche Prescelti o Figli della Luce. Vennero creati dagli Angeli Primordiali, di cui ti parlerò prossimamente. Nephilim, Occulti e demoni costituiscono il cosiddetto Mondo Occulto. So che ti sembra quantomeno impossibile. Mi starai prendendo per matto, e ne hai il pieno, assoluto diritto. Prometto che ti spiegherò tutto in ogni minimo dettaglio, ma non è questo il punto. Prima, è fondamentale che tu venga messa al corrente di una questione molto più importante.
Debora non batté ciglio: ogni capacità cerebrale l'aveva tradita. Non sapeva se piangere o ridere, se disperare o sospirare di sollievo, per la tragicità delle circostanze.
— Te lo giuro, Debby. È tutto vero. — August le strinse le mani tra le proprie. Quel gesto non fece che amplificare il senso di smarrimento a cui la ragazza era soggetta.
— Ora — riprese lui, –– lascia che ti parli degli Stregoni. — Fece una pausa, deglutì. — Gli Stregoni sono il frutto dell'accoppiamento tra demoni e umani, che avviene di solito per... stupro, o per inganno. Molto spesso, i demoni assumono l'aspetto di un umano e si approfittano di una donna facendole credere di essere suo marito. O insomma, di essere qualcuno di cui potersi fidare, qualcuno a cui potersi abbandonare sotto ogni punto di vista. Gli Stregoni – ossia il risultato di questo incrocio – sono creature immortali e sterili; non possono avere figli. Ogni stregone ha una o più particolari caratteristiche fisiche, dalle più appariscenti alle più nascoste. Queste particolarità vengono dette Marchi. E tu... — Sembrava quasi che soffrisse, la voce gli tremava. — Tu, Debby, sei una stregona dotata di occhi viola e ali nere.
Debora era esterrefatta.
Era troppo, decisamente troppo.
Si sentiva la testa alleggerita, galleggiante. Ogni suo sostegno cedette. Si rivelò spaventosamente calma. Calma come un neonato che inala quanta più aria possibile per diversi secondi, prima di lasciarla fuoriuscire dai polmoni in un pianto senza fine.
Fissò August. Aveva capito tutto ciò che le aveva detto, ma avrebbe preferito non averlo mai fatto.
Il ragazzo parve in difficoltà, quasi non sapesse se svelarle o meno un grande segreto. I guizzi induriti e alternati della sua espressione ne erano la prova. Alla fine, si diresse verso il lavandino del bagno annesso alla camera di Debora, aprì i rubinetti e si bagnò le mani. Poi tornò dalla ragazza e le mostrò mani e braccia, arrotolandosi le maniche della felpa fino ai gomiti. La sua pelle brillava, e quella lucentezza si estendeva gradualmente ad ogni parte visibile del suo corpo, compresa la faccia.
Non era uno splendore qualunque.
August si tramutò in una creatura glabra dalle sembianze umane. La sua pelle sembrava essersi trasformata in uno strato sottilissimo di vetro azzurro-argenteo, attraverso il quale erano intravedibili tutti i vasi sanguigni. In ognuno di essi scorreva un liquido bianco fosforescente e scintillante. Gli occhi del ragazzo parevano due sfere di diamanti, senza iride né pupilla.
Nell'incanto del momento, Debby era sconcertata e assolutamente affascinata. Osservò quell'essere meraviglioso, lì, in piedi, proprio davanti a lei. Lo studiò come se al mondo non avesse mai visto niente di più bello. Come se bastasse un solo sguardo affinché quell'immagine sbalorditiva non la abbandonasse mai.
Si avvicinò, vacillando appena. Posò un dito sulla fronte di August, con leggerezza calcolata. Dopodiché lo fece correre lungo la tempia e la curva della mandibola.
— Che cosa sei?
Lui si ritirò giù le maniche e, a poco a poco, la sua pelle perse la brillantezza di cui Debora era rimasta stregata.
— Sono un ifrit — rispose, lo sguardo sfavillante di speranza per il ripristinato interesse di Debby. –– Con qualche eccezione. Un ifrit è un essere che nasce con l'aspetto e i Marchi di uno stregone, privato però dei poteri soprannaturali.
Debby si allontanò con cautela. Sentiva voci, sibili in fondo alla sua mente; immagini convulse le attraversavano l'anticamera del cervello con perenne frenesia.
— Cosa ne faccio di queste? — chiese, indicandosi le ali. — Devono sparire. — Ed era così. Doveva tutto finire, svanire nel nulla da cui era provenuto, al più presto. O qualcosa, in lei, si sarebbe spezzato in modo permanente. Il senno che si presupponeva le appartenesse sarebbe evaporato e volato fino a depositarsi sulla luna. Ammesso che non fosse già successo.
August le si approssimò. — Puoi controllare le tue ali, esattamente come hai controllato il dolore che ne deriva. Devi solo immaginare che scompaiano. Concentrati.
Debora chiuse gli occhi ancora una volta e tentò di attenersi alle raccomandazioni di August. Ma la sua mente era in subbuglio, timori infiniti la invadevano, non lasciandovi altro che disperazione. Le ali erano ancora lì.
Il ragazzo capì. Alle spalle di Debby, fece pressione sulle ali, che con lugubre lentezza si ritrassero.
Debora trattenne il respiro. Le parve che qualcosa fosse tornato al suo posto. Come se il suo stomaco, alla manifestazione delle ali, si fosse intirizzito e contratto, e con la loro dissimulazione fosse tornato a distendersi.
— Non intendo ripeterlo ancora. Esci di qui. Subito.
— Ma, Debora...
— Va' via! –– Debby diruppe nuovamente in pianto. Un fuoco interiore le toglieva il respiro e tramutava l'ossigeno in gocce di pianto incandescenti. — Queste sono tutte invenzioni della mia mente malata. Ti prego, chiunque tu sia e in qualsiasi modo io ti abbia dato vita, sparisci! — Si portò le mani alla testa, quasi strappandosi consistenti ciocche di capelli. — Sto impazzendo, st-sto impazzendo, st-st-sto imp-impazzendo... Esci dalla mia testa!
August si precipitò alla finestra che – Debora se ne accorse solo in quel momento – era spalancata. Si calò fino a toccare il marciapiede, aggrappandosi agilmente ad un rivestimento di edera lungo la facciata della casa.
Debby si voltò verso il proprio letto. Tutto ciò che riusciva a malapena a distinguere era sformato, sfocato: i bordi di ogni oggetto sembravano roteare e mischiarsi. Il mondo ruotava intorno a lei, un mulinello di colori sbiaditi e fenditure abbaglianti. Luce e ombra si mescolavano, vorticando, infrapponendosi.
Era sola. Come lo era sempre stata, come lo era stata per tutta la notte e come si augurò di restare.
Debora si autoimpose di non credere a nulla di tutto ciò a cui aveva assistito, a nulla di tutto ciò che le era successo. Di non cedere, e franare nella follia.
Si prese ininterrottamente a sberle.
Era quella, la pura, semplice realtà?
Non poteva esserlo. Era solo la congettura di un fato avverso, si disse. Era soltanto il risultato dello stress provocato dalla persistenza degli incubi che da tempo la rincorrevano, sfociato in un trauma insormontabile.
Solo questo era. Solo questo doveva pensare che fosse.
Ciò di cui s'accertava era che niente prima d'ora aveva mai rischiato di ucciderla a tal punto, e che niente, però, avrebbe potuto allo stesso tempo ravvivarla tanto, nel caso si fosse trattato della verità. Tutto ciò avrebbe dato una spiegazione alla sua costante estraneità dal mondo, ma avrebbe anche rappresentato la più improbabile, assurda ed estrema interpretazione del suo continuo senso di solitudine e della sua costante sensazione di incomprensione.
Debora non poté trascurare la miriade di interrogativi che turbinava freneticamente nella sua testa. Si chiese perché si lasciasse soverchiare dalla paura, da ciò che riguardava il lato più malevolo e ostile di ciò che August le aveva detto, e perché invece non si facesse affascinare da quell'aspetto mirabolante e letteralmente fantastico che di solito invidiava ai personaggi dei racconti da lei adorati, un aspetto che tuttavia era presente e non poteva essere ignorato. Perché, nella maggior parte delle cose, era più facile credere alla parte oscura e malefica che non a quella luminosa e benefica? Perché le minacce s'impadronivano delle persone più facilmente di quanto facesse la speranza?
Debby non faceva altro che pensarci, ormai da molto tempo, sin da prima di quella notte, e questo indicava il suo evidente distaccamento dalla realtà. Non poteva permettersi di perdere la testa, di precipitare oltre la soglia della razionalità, della ragione.
Pertanto, decise che l'indomani – il giorno del suo diciassettesimo compleanno – non avrebbe accennato a nessuno dell'accaduto e avrebbe fatto di tutto pur di sorvolare. Non ci avrebbe mai più pensato, e mai ne avrebbe fatto parola ad August. Lui non avrebbe mai rievocato la vicenda, perché non era reale. Non poteva essere reale.
Doveva solo dimenticare.
Così Debby compì la sua scelta: si sarebbe goduta i suoi diciassette anni, e il resto sarebbe sprofondato nella più abissale delle dimenticanze. Erano solo state allucinazioni, sintomi di un esaurimento nervoso. Tutto qua. Doveva crederci, aveva bisogno di crederci.
La stanchezza, la fatica fisica e soprattutto psichica,
prevalsero su Debora, su qualsiasi pensiero e riflessione.
S'addormentò, la notte la travolse, o meglio la accolse, e ritrovandola, la cullò con dolcezza.
Le diede il bentornato.
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Le Origini Negate
FantasyDebora non pensa di avere precedenti. Non pensa di avere un passato, né un futuro. Ma ha incredibilmente bisogno di entrambi, più di quanto possa immaginare. E sarà solo quando i suoi sogni e i suoi incubi si realizzeranno brutalmente, che se ne ren...