Prologo: FRANTUMI

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Debora sfogliò l'ultima pagina del suo nuovo – ormai vecchio – libro fantasy; richiuse il volume e se lo portò al petto come se non esistesse niente di più prezioso, come se la sua stessa voce e la sua stessa identità risiedessero in quell'inchiostro e in quelle pagine.
   Dalla finestra in camera sua il mondo sembrava lontano, estraneo ed irraggiungibile. Debby poteva quasi udire le parole che la vita le sussurrava, frasi disperse nel vento, ovattate da una realtà che non le apparteneva. Segreti, premonizioni nefaste, menzogne, prefigurazioni propizie e verità.
   Scampoli di luce dorata filtravano fino ad accarezzarle il viso. Una mano inconsistente e luminosa, che le scaldava il cuore, premurosa e materna.
   Debora aveva l'impressione che la sua unica, vera casa fosse il mondo, nella sua infinita interezza. E considerava la vita stessa come la madre generatrice di ogni animo, buono o cattivo.
   Quando terminava di leggere un libro, percepiva un vuoto inesorabile, causa di destabilizzazione completa. I personaggi di cui aveva letto finivano col diventare amici stretti. Perciò, quando doveva fatidicamente reinserire un libro tanto amato nella sua piccola biblioteca privata, era come se una parte di lei andasse in frantumi, come se sparisse nel nulla, con quei personaggi e con le emozioni che le loro tacite parole le avevano trasmesso.
   Debora Myako Brouwer era un'autentica patita di racconti fantasy. Amava lasciarsi travolgere dai sogni generati dagli eventi narrati, sogni che per poco non risultavano realizzabili e tangibili. Sogni in cui bramava con ardore di poter salvare il mondo da creature malvagie, o perlomeno di poter vivere in un universo fantastico come quello dipinto nei libri che tanto adorava.
   Quasi diciassettenne, Debby viveva ad Amsterdam, adottata dai signori Edward e Hanna Brouwer. Il suo volto era marcato da soavi tratti giapponesi e da una velata parvenza europea. Sfoggiava una pelle marmorea e lucenti capelli corvini, lunghi fino alla vita; aveva forme ben proporzionate, nonostante la corporatura esile.
   Ma la più evidente peculiarità di Debora erano gli splendidi occhi viola: coloro che ne ricambiavano lo sguardo non potevano che inebetirsene. I dottori spiegarono la singolarità di quella tonalità cromatica delle iridi definendola come un'anomalia genetica.
   Debby, per di più, era inequivocabilmente attratta da tutto ciò che poteva essere considerato al di fuori dalla norma, tutto ciò che svelava in sé un'insolita bellezza. Difatti frequentava un luogo di ritrovo, chiamato Freedom, dove ogni tipo di artista era libero di esprimersi a modo proprio, di dare libero sfogo alla propria creatività. Debora non sapeva ancora quale fosse la sua arte, ma era certa di possederne una.
   Vedeva cose che le altre persone non vedevano. Minuscoli esseri fatati, cani a otto zampe, bambini dalla pelle colorata nei passeggini sospinti per le comuni strade di Amsterdam.
   Aveva imparato ad attribuire quelle che i suoi genitori reputavano "innocue fantasie" alla propria immaginazione, e aveva smesso di parlarne con altri da quando, in quarta elementare, era diventata lo zimbello della scuola. Ora, seppur ignorando qualsiasi stranezza vedesse, quelle presunte allucinazioni avevano finito col far parte di lei, della porzione più intima e celata del suo essere.
   Il tutto aveva funzionato: rimanendo discreta e conservando le proprie fantasticherie per sé, al fine di affastellarle e ripescarle all'occasione opportuna, Debby si era reintegrata. Più o meno.
   Eppure, sin dalla prima infanzia, le sue quotidiane visioni erano state comprese e condivise da Rina, una delle sue due migliori amiche. Era così che si erano conosciute e la loro solida amicizia aveva avuto inizio. Mentre Lotty – il terzo elemento del loro inseparabile trio – non aveva mai dato prova di notare a sua volta particolari sovrannaturali, ma era stata una delle poche persone a non aver schernito e ostracizzato le due giovani incomprese per i loro cosiddetti abbagli.
   Reprimendo il suo istinto e diffidandosi dei propri occhi, Debora aveva fatto della sua vita un banale susseguirsi e ripetersi di noiose e stancanti abitudini. Senza neanche accorgersene, l'insulsa sistematicità dei suoi giorni era andata rispecchiandosi nel riverbero della sua personalità. In effetti, rinnegata la sua vera natura, Debby rimaneva una ragazza comune.
   O se non altro, credeva di esserlo.

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