Capitolo 6: PENSIERI

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Dolori atroci.
Allucinazioni.
Morte.
Questo era tutto ciò che Debby ricordava. I recenti e plurimi avvenimenti intorbidivano i suoi ricordi.
Gli occhi le bruciavano tremendamente. Le parevano velati di lacrime composte d'acido, benché li tenesse chiusi. Poi, battendo le palpebre, venne travolta da un turbine di rievocazioni, da cui trapelarono immagini di volti dalla pelle squarciata.
Era terrificante. Che si trattasse di un incubo?
Debora ne dubitava.
Era tormentata da un ronzio penetrante fino alle ossa, ronzio che persistette finché non sopraggiunsero le reminiscenze dell'episodio alla Sede dei Licantropi. Per un momento Debby credette di inalare per un'ennesima, terribile volta l'afrore emanato dal demone che l'aveva assalita. Ricordando, le parve che la sua pelle fosse ancora impregnata di quel puzzo nauseabondo, assorbito, repulso e secreto per mezzo della sudorazione. Fiutò ovunque quella pena olfattiva : sulle mani, fra i capelli, sul collo, sotto le unghie. L'odore rancido le infiammava le narici e le si insinuava tra le labbra e sotto la lingua. Al vortice di quelle repellenti sensazioni, le si rivoltò lo stomaco.
Poi le tornarono i sensi.
Si guardò attorno. Era distesa su un letto di legno cricchiante, sotto una trapunta di pezze rosse e verdi. Piccole e discrete fiamme crepitavano all'interno di un camino, simili a minuscoli fuochi d'artificio. I bordi degli oggetti più lontani erano indefiniti e sfocati.
Debora tentò di raddrizzarsi, ma il suo corpo venne percorso da fitte acute, lente e strazianti. Emise un ghigno di dolore, ed improvvisamente sentì stringersi una mano.
Era August, seduto su una sedia accanto al letto e reduce da un sonno turbolento. Al primo segno di vita da parte di Debby, d'istinto le aveva stretto la mano, le cui dita aveva racchiuso tra le proprie durante le ultime ventiquattro ore. Aveva trascorso la notte ad osservarla dormire, e a giudicare dall'espressione di angustia sul suo volto, non si era dato tregua, insistendo a vegliare su di lei.
Il suo angelo custode.
— Debby! — Si protese verso di lei. — Oh, grazie al Cielo. Ti sei svegliata. — Le tastò la fronte e le accarezzò il viso. Il dolce tocco di August era rincuorante, ma a prescindere dalle sue premurose attenzioni, ogni carezza causava lievi sofferenze.
— Che cosa... è successo? — domandò Debby, tra smorfie e rantoli.
— Durante la riunione al ritrovo dei Licantropi una ventina di demoni ha fatto irruzione sbaragliando tutto — le ricordò August. — Sei stata colpita da uno di loro e...
— Questa parte la conosco già — lo interruppe lei. — Intendo dopo. Dopo l'attacco del demone. Come sono arrivata fin qui? Ci sono stati altri feriti?
August sorrise. Il suo sembrò più un sorriso di disperazione. — Sei quasi morta, e tutto ciò che ti interessa sapere è se ci sono stati altri feriti?
Debora non rispose. Al che lui riprese: — No, nessun ferito. Non grave, almeno. Abbiamo evacuato il salone in tutta fretta. I demoni si sono limitati a provocare il caos. Tu sei l'unica vittima. — Stornò lo sguardo.
— Perché? — gli chiese Debby, istintivamente.
August sembrò trattenere il respiro. — Nessuno ha mai visto demoni del genere — esalò. — Pensiamo che siano stati creati e inviati da tuo padre. Li abbiamo chiamati demoni Cineraceus. Ma tu... tu sei inspiegabilmente riuscita a respingere il tuo assalitore.
Debora aggrondò le sopracciglia. — Come sarebbe a dire "inspiegabilmente"? — Le era impossibile visualizzare i propri ricordi, deboli ed irriconoscibili, lembi stralciati.
— Non sappiamo come sia successo. — August si passò una mano tra i capelli. — Eri lì, tra le fauci del demone. Nessuno ti vedeva. Ti credevamo ormai persa. Poi tu e la creatura siete esplose in una luce accecante e sei piombata a terra, inerte. Mi hai fatto prendere un accidente. Pensavo che fossi...
— Morta? — presuppose Debby.
Silenzio.
Sospirò. — Be', l'ho creduto anch'io.
August si adagiò sul letto, spalla contro spalla. Le sfiorò una guancia; le nocche della sua mano affettuosa erano ruvide e grattanti. — Non so cosa avrei fatto, se ti fosse successo qualcosa.
Debby gli rivolse un fievole sorriso.
D'un colpo, la porta si spalancò sbattendo contro il muro.
— Debora! — Kate si precipitò verso la malcapitata. — Stai bene? Hai male da qualche parte? Vuoi che ti porti qualcosa?
— Fatevi da parte. — Jandira spintonò Ronald, Roy e Jason, entrati assieme a Katrin. Si tuffò su Debby. — Come ti senti, ragazza? — Le sollevò il mento con mano gagliarda, controllandole le ferite.
— Sono stata meglio — disse Debora. — Ma sono viva. La vista è l'unica ad aver risentito dell'attacco.
— È normale — confermò l'anziana. — Quel bastardo ti ha alitato in faccia. Il gas che emana è estremamente tossico, ma ti abbiamo curata a dovere. Si può sapere come hai fatto a scacciare il demone?
— È questo il punto. — Debby puntellò sui gomiti. — Non ho idea di come io sia riuscita a salvarmi. So solo che ho chiuso gli occhi e... puff, eccomi qua. A proposito, dove sono?
— Sei alla Magione Dirigente di Amsterdam — intervenne Katrin.
— E... da quanto?
— Da due giorni — disse Jandira.
— Cosa? — Debora si sedette di scatto, ma il celere ed improvviso movimento le procurò una scossa di dolore. — I miei genitori staranno dando di matto!
Jandira le posò una mano sulla spalla, inducendola a riappoggiarsi contro lo schienale del letto. — Non ti preoccupare — la rassicurò. — Ho fatto loro un incantesimo. Nessuno si accorgerà di niente.
— Devo tornare subito a casa — ribatté Debby.
— No. — Jandira era impassibile. — Sei ancora in osservazione. E devi recuperare le forze. Tra l'altro, non abbiamo avuto modo di dare inizio alle lezioni di stregoneria.
Era vero.
— Jandira ha ragione — s'interpose Ronald. — Appena avrai recuperato le energie, sarai tenuta ad esercitarti. Hai un voto da mantenere. E se l'incantesimo sui tuoi familiari e suoi tuoi amici è durato per qualche giorno, potrà funzionare ancora.
— Sì, questo non è un problema — garantì Jandira.
— E va bene. — Debora si alzò dal letto e barcollò.
— Attenta! — Katrin si catapultò a sorreggerla, strattonandole un braccio.
— Ce la faccio. — Debby liquidò l'aiuto di Kate con un secco e brusco gesto della mano. Era stata sgarbata – e lo sapeva. Era stanca, però, di dover ricevere aiuto da qualsiasi persona incontrasse il suo sguardo. Il suo destino e il suo futuro erano già stati scritti: ma non da lei. Desiderava semplicemente che le cose cambiassero.
Debora s'accorse di indossare vestiti umidicci e appiccicosi, induriti come carta d'alluminio, impregnati di sangue e sudore. Era assolutamente necessario che lavasse via lo stress e le paranoie incrostate sulla sua sudicia pelle; così rimandò le scuse nei confronti di Katrin. — Con permesso — disse. — Mi serve una doccia.
Ronald abbandonò la stanza, seguito dal resto dei presenti.
Spazio.
Aria.
Sapone.
La porta si richiuse. Debby si diresse verso il bagno annesso alla camera che le era stata assegnata. Era piccolo, ricoperto di piastrelle bianche e nere. Una finestra dava sulle colline dal dolce rialzo e incorniciava le pianure ondulate antistanti il palazzo.
Era notte fonda. Una fluorescente falce di luna sovrastava le sagome delle vette; le stelle brillavano alte nel cielo, cristalli in una distesa d'inchiostro.
Debora si guardò allo specchio. Il sangue rappreso ed incrostato delle ferite in via di guarigione e le occhiaie profonde risaltavano sul pallore del volto niveo.
Non sarebbe stata in grado di dare una definizione al proprio stato d'animo, né di sottoporsi ad una qualsiasi introspezione.
Era stremata. Flussi di parole annaspavano dentro di lei.
Si spogliò; ruotò del tutto il rubinetto dell'acqua calda e si immerse in una nuvola di vapore.
Quando uscì dalla doccia, il suo volto aveva riacquistato colore, e la vista le si era affinata.
Debby si sentiva decisamente meglio. Le pareva che una colata di acqua bollente avesse depurato ogni parte del suo corpo, esterna ed interna. La doccia le era servita.
Rientrò in camera indossando un accappatoio profumato di lavanda e asciugandosi i capelli con un salviettone avvolto intorno al collo. Sul letto rifatto trovò una pila di vestiti puliti. Indossò il tutto e aprì la porta d'ingresso.
Si ritrovò in un corridoio illuminato da fiaccole ardenti e dorate a forma di leone; il bagliore emanato tremolava debole ed aureo. Il pavimento era rivestito da una soffice moquette rossa e un affresco staccato occupava tutta la parete. Raffigurava un'orda di quelli che parevano angeli, benché si trattasse di angeli alquanto eccentrici: pelati, glabri, completamente nudi, dalla pelle rosso carminio stemperata nel blu più intenso. Il loro corpo era solcato da borchie argentate conficcate direttamente nella carne, e i loro occhi, privi di pupilla, erano del tutto oro.
Ognuno degli angeli esibiva grandi ali dalle sfumature purpuree. Uno di loro era in testa all'improbabile esercito angelico; i bordi della sua mistica figura erano tracciati da un'aura dorata. L'angelo teneva una mano alzata, il palmo rivolto verso Debby. Ciascun dito era associato ad una specie di figura geometrica fluttuante: una stella a quattro punte per il mignolo, un rombo equilatero per l'anulare, un ottagono per il medio, una clessidra dalle linee spezzate per l'indice e una semplice circonferenza per il pollice.
Debora tentò di leggere l'incisione posta alla base dell'ampio affresco staccato: De Angelis Primordialebus et Societate. Le sue conoscenze della lingua latina erano piuttosto limitate, ma la traduzione non era poi così ardua: Gli Angeli Primordiali e l'Alleanza. Dunque era quello, l'aspetto di coloro che avevano dato vita ai Nephilim. Debby non se lo sarebbe mai immaginata.
Si voltò a sinistra e scorse una rampa di scale.
Scese al piano di sotto. I suoi piedi, protetti semplicemente dal consunto tessuto delle calze grigie, tastarono un parquet di legno scheggioso.
Debora iniziò a percorrere una sala piuttosto estesa, suddivisa in più parti da camini dorati e colonne di altezza media. In lontananza vibrava una recondita e fioca fonte di luce.
Debby camminava lentamente, affascinata dalle curve contorte delle indecifrabili e arcane rune magiche, incise sulle cornici di molteplici specchi e lungo le scanalature delle numerose colonne. Procedendo, sfiorava i mobili con la punta delle dita; ne percepiva il materiale, dal più raschiante al più levigato. L'aria era stantia di un odore di antichità.
Debora si diresse verso la luce con maggior decisione, quando i suoi occhi assistettero ad uno spettacolo a dir poco strabiliante. Alcune delle rune onnipresenti si illuminarono, disseminando così una sorta di scia d'oro effervescente. E quando Debby oltrepassava le sfavillanti incisioni, queste si smorzavano, fino ad estinguersi del tutto.
Era impossibile descrivere la sensazione da cui Debora venne travolta. Le rune baluginanti sembravano richiamarla a sé, sembravano gridare il suo nome. Quei barlumi la ipnotizzavano e la stregavano, convincendola a raggiungerli.
Debby tentò di sfiorare la luce, e questa, con suo grande stupore, s'attorcigliò attorno alle sue dita; le ricoprì la mano e l'intero braccio, cucendo un guanto di sottile tela luminescente.
Debora continuò ad avanzare, incantata. Più si avvicinava alla luce in lontananza, più l'effervescenza delle rune s'affievoliva. Ed infine, l'atmosfera crollò.
— Debby?
La stregona si ridestò.
Roy la guardò di traverso. — Tutto bene?
— Sì — rispose lei, riscossa dal sogno incredibilmente reale e stordita in maniera destabilizzante. — Ehm... le rune. — Additò il soffitto.
— Già, sono bellissime.
Fu una voce femminile a parlare. Una voce ignota.
Debora si voltò.
Non conosceva la donna che era intervenuta, sebbene le risultasse familiare. In effetti la somiglianza balzava all'occhio: era identica ai gemelli Lionchild. Doveva essere loro madre, con ogni probabilità.
Debby rispose con un sorriso, leggermente imbarazzata.
— È fantastico averti qui — le disse la donna. — Sono Cheyenne Lionchild.
Deduzione esatta.
— Oh, sì. È meraviglioso. — Debora si grattò una tempia. — Vi chiedo scusa per il mio atteggiamento scontroso di poco fa — aggiunse. — Ora mi sento meglio. Volevo ringraziarvi per avermi... ospitata.
La donna rise. — Fase post-risveglio.
Debby aggricciò le labbra. Non capiva.
Jandira sbuffò. — La fase post-risveglio conseguente all'attacco di un demone che emana gas tossico è spesso caratterizzata da improvvisi sbalzi d'umore — spiegò, lo sguardo vagante al di là della finestra a cui era affacciata.
Si trovavano in una sala da pranzo al centro della quale era posizionato un lungo tavolo di legno lucido. Alle pareti erano appese strambe corna affusolate.
— Le rune si illuminavano al tuo passaggio — disse l'anziana. — Vero, Debora?
— Sì.
— Ovvio. — Jandira discostò l'attenzione dal panorama. — Riconoscono la presenza di una stregona.
— Sì. L'ho sentito — disse Debby. — Ho avvertito una sorta di... aggancio. Tra me e la magia. È stato magnifico.
La donna si voltò. — Ti capisco. — Si avvicinò. — August mi ha detto che hai imparato a controllare le tue ali.
A Debora sembrava quasi di aver ricevuto una minaccia, un'accusa. — È così — confermò, con indugio.
— Il fatto che tu abbia psicologicamente e fisicamente accettato la tua situazione ti permette di gestire il tuo Marchio — esplicitò Jandira. — Come immaginavo. Questo significa che non dovrai ricorrere continuamente ad incantesimi di camuffamento. Ritieniti fortunata.
Per un momento, Debby sperò in meglio, e in nessun altro modo. Le parve che tutto sarebbe andato bene, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Avrebbe imparato a padroneggiare i suoi poteri. Li avrebbe riscattati e impiegati al servizio del Mondo Occulto. Sarebbe stata accettata dal resto degli Occulti e dei Prescelti. Sarebbe stata amata dalla persona che, ora come ora, per lei, aveva lo stesso valore dell'ossigeno.
Poi successe.
Un particolare apparentemente insignificante. Sfuggevole. Inafferrabile. Una piccolezza celata dal buio. Un dettaglio inconfondibile.
La figura di un uomo tenebroso scaturì dalla penombra. Uno degli uomini dell'incubo.
Debora si scagliò all'indietro. Sbatté contro una cassettiera di quercia. Tre portacandele si rovesciarono cozzando tra loro, tre colate di cera ustionante andarono così ad intarsiare il tappeto persiano al di sotto dei mobili.
Debby teneva gli occhi sbarrati. S'aggrappava alla cassettiera come se questa avesse potuto animarsi e difenderla.
— Debby, calma! — August la strinse a sé; percepiva la rigidità del suo corpo attraverso il proprio. Le alzò il viso al proprio, con presa ferrea. — Ascoltami — le disse. — Va tutto bene. Lui è dalla nostra parte.
Debora scosse irrefrenabilmente il capo. — C-c-cos'è? — balbettò.
— È un Prediletto Ancestrale.
Il petto di Debora si alzava e abbassava senza sosta; le narici dilatate e i suoi ansiti affannati rendevano evidente la sua apprensione.
— Ora basta, tranquillizzati — la calmò August. — Sì, ha un aspetto orribile. Ma è stato lui a salvarti la vita.
I respiri di Debby rallentarono. — Davvero?
Il ragazzo annuì.
— Pre-prediletto Ancestrale — mormorò lei.
­­— Sì. È un Prediletto Ancestrale.
Debora fece errare lo sguardo. Dapprima osservò August, poi l'uomo dall'aspetto a dir poco inquietante. August le strinse i gracili polsi tra le proprie mani aitanti. E quando il Prediletto Ancestrale parlò, rinvigorì la stretta.
— Sono il Prediletto Ancestrale Elias. Non temere, stregona; non ti farò alcun male.
Le parole pronunciate da Elias erano pacifiche ed innocue, ma la sua voce risultava in maniera del tutto diversa. Elias non parlava come qualsiasi altra creatura soprannaturale: strillava, emettendo ultrasuoni assordanti, e questi, per chiunque non avesse mai udito la voce metallica di un Prediletto Ancestrale, avevano l'effetto di una vera e propria tortura.
Debby si portò le mani alle orecchie e gridò, gridò per il dolore, gridò per i timpani frantumati, finché le urla di Elias non formularono parole comprensibili. Allora guardò August, che la rassicurò con sguardo incoraggiante.
Debora studiò attentamente l'atroce essere. Indossava una coprente armatura di sonanti e luccicanti catenelle nere dai riflessi dorati. Il suo volto era sciupato e disidratato; in testa aveva pochi e ondulati capelli bianchi. I suoi occhi erano quasi completamente d'oro, se non per le pupille ingrigite e il disco bronzeo attorno all'iride dorata. D'un tratto, il Predileto Ancestrale dispiegò un paio di maeostose ali dalle sfumature indaco e porpora, ali che fino a quel momento a Debora erano parse un mantello color porpora.
Il sogno di Debby si era rivelato erroneo ed impreciso. Il viso di Elias era tremendamente raggrinzito, disidratato e sciancato da una vecchiaia conturbante, ma la sua pelle, sebbene rossa, non era lacerata.
Stava di fatto che il Prediletto Ancestrale aveva un aspetto a dir poco spaventoso. Se però le aveva salvato la vita, Debora era inequivocabilmente in debito con lui.
— Lascia che mi presenti, Debora — la pregò Elias. Avanzò con grazia sorprendente, con movimenti estremamente fluidi, passi inudibili.
— Potrà sembrarti impossibile, ma io sono un semplice Nephilim — disse l'uomo. — Come immagino saprai già, i Prescelti che conobbero la grazia di ricevere il potere angelico da un Angelo Primordiale in persona vennero definiti Prediletti. Ogni Prediletto, per cui, è il fondatore di una famiglia di Prescelti, e tale onore lo rende un Nephilim immortale. Quando giunge la sua ora, vale a dire il momento in cui teoricamente dovrebbe morire, il Prediletto continua a vivere. Il primo sintomo della sua immortalità è la comparsa degli occhi oro. A questo punto, il Prediletto non è più un Prediletto qualunque, bensì un Prediletto Ancestrale. Col passare degli anni, l'aspetto del Nephilim in questione muta fino ad assumere le sembianze degli Angeli Primordiali. Le sue abilità fisiche si sviluppano, poiché il potere angelico racchiuso in lui cresce e i suoi infiniti anni di vita lo rendono incredibilmente saggio. Per tale ragione, di norma, i Prediletti Ancestrali svolgono il ruolo di insegnanti alle Accademie dei Nephilim. Sono costretti ad abbandonare le loro famiglie, alle quali si possono ricongiugere rare volte durante l'anno. Noi Prediletti Ancestrali siamo gli archivisti, i medici, i guerrieri più spietati, i guaritori e gli accademici dei Nephilim. Ho mandato qui alla Magione Dirigente di Amsterdam alcuni dei Prediletti Ancestrali dediti alle misteriose arti curative del nostro mondo. Hanno contribuito alla tua guragione.
Il volto di Elias era completamente inespressivo; la sua voce, dal timbro apatico, riecheggiava incessantemente nella frastornata testa di Debby.
Il Prediletto Ancestrale proseguì: — Mi è stata sottratta buona parte della mia umanità, ma questo mi ha consentito di prostrarmi al servizio del Bene e di avvicinarmi al Paradiso. C'è chi dice che alcuni dei più valorosi Prediletti Ancestrali abbiano avuto l'onore di tramutarsi in Angeli Primordiali, di morire e di essere accolti tra i loro nuovi compari.
Debora non si mosse.
— Spero che la mia minuziosa presentazione sia bastata a conquistare la tua fiducia — concluse Elias.
— Sì, è bastata.
— Eccellente. Ora vi prego di scusarmi, prendo congedo. — Il Prediletto Ancestrale si dileguò.
Debby tirò un sospiro di sollievo. — Santo Dio.
— Ti è spettato un grande privilegio — proruppe Jandira. — Come ti sei permessa di mostrarti orripilata nei confronti del Prediletto Ancestrale Elias?
— Jandira — intervenne Cheyenne. — Debby non aveva mai incontrato un Prediletto Ancestrale, prima d'ora. Elias apparterrà pure ad un rango di Prediletti Ancestrali piuttosto elevato, ma il suo aspetto resta quello che è.
L'anziana digrignò i denti. — Vedi di recuperare le forze — disse volgendosi a Debora. — Domani avrà inizio il tuo addestramento. — E detto questo, si allontanò, accompagnata da uno sfavillio di scoppiettanti scintille.
— Scusala. — Cheyenne sorrise debolmente.
— Le ali sono simbolo di potere, per i Prediletti Ancestrali — sussurrò August all'orecchio di Debby, ancora sconvolta. –– Nonostante Elias sia diventato un Prediletto Ancestrale solo qualcheanno fa – e questo lo puoi dedurre dal fatto che la sua mutazione non sia ancora del tutto terminata –, presiede alla Guarnigione Aurea, l'ordine militare Ancestrale. Il secondo ordine Ancestrale è invece quello della Biblioteca Eterna, dove i Prediletti Ancestrali più importanti arricchiscono le proprie conoscenze in campo medico e perlopiù scientifico e culturale grazie agli innumerevoli testi sacri a loro disposizione. È in questi due ordini angelici che vengono selezionati gli insegnanti delle Accademie frequentate dai Nephilim.
Ronald s'intromise: — Sarà meglio riposarci. — Prima che potesse dirigersi verso le scale, Debby domandò dove si trovasse la cucina. Era talmente affamata che avrebbe potuto tarlare i mobili a forza di smangiucchiarli.
— Anch'io ho un certo languorino — disse Katrin. — Ti faccio strada.
Le due ragazze percorsero un corridoio di porte chiuse, finché non giunsero in una cucina di antica pietra giallognola.
— Ti va una zuppa? — chiese Kate. — Fa piuttosto freddo.
— Volentieri, grazie.
Presto calò un silenzio imbarazzante.
— Senti, Kate... — Debora si sedette ad un bancone lustrato e accavallò le gambe. — Mi dispiace per prima. Stavo male e me la sono presa con te. Scusa, non volevo offenderti.
Katrin accese il fuoco. — Tranquilla, acqua passata. — Sorrise, e Debby pensò di non aver mai visto un sorriso più sincero e brillante. Ad eccezione dei sorrisi di August.
— Anche se devo ammettere — aggiunse la Prescelta –– che un po' ci sono rimasta male. Dopo l'attacco dei demoni Cineraceus, ho aiutato Jandira a medicarti, e i vestiti che hai addosso sono miei. Ma non farti troppi scrupoli. — Le sue labbra assunsero un ghigno volpesco. — Hai sentito la vecchia e saggia stregona, no? È normale che tu ti sia comportata così.
Debora tacque per qualche istante. Osservò i tre graffi neri sul dorso della mano di Kate, il suo emblema.
Erano così belli.
Molti li avrebbero trovati svalorizzanti, ma Debby pensò che quei tre graffi simbolizzassero il vigore della Prescelta. Erano la rappresentazione in tinta nera del suo coraggio e della sua audacia.
Katrin non era affatto stupida, od innocente. Al contrario. Voleva che Debora si sentisse in colpa.
— Dimmi un po' — le disse lei, — vuoi proprio farmi stare uno schifo tu, eh?
Kate ridacchiò. — Non mi sottovalutare, tesoro. — Ritornò ai fornelli. — Ricordati che uccido demoni per mestiere e per stile di vita. Mi definirei tutt'altro che candida.
Debby rise. Poi Katrin le servì la zuppa in una ciotola sbeccata. Rimasero sedute al bancone in cucina, sorseggiando brodo bollente e chiacchierando tra loro. Consumato il pasto, si salutarono abbracciandosi. Kate sostò al pian terreno, mentre Debora ritornò alle scale che aveva sceso precedentemente. Salì sperando con tutta sé stessa che i gradini non scricchiolassero troppo.
Giunta al primo piano, lasciò che la sensazione di morbidezza trasmessa dalla moquette la confortasse, e percorse il corridoio fino alla propria camera. Fece per agguantare il pomello della porta, quando venne tirata per un braccio. Si irrigidì istintivamente, ma poco dopo riconobbe quel tocco garbato e familiare.
August.
Il ragazzo la prese per mano, sorridendo.
Dopo aver conosciuto il sapore di quella bocca, Debby non aveva fatto altro che desiderare di poterlo assaggiare nuovamente. Era drogata delle labbra di August, e la droga era lì, a disposizione, a portato di mano. Pronta ad essere iniettata attraverso un bacio.
— Vieni — disse August. — Voglio farti vedere una cosa.
Debora si lasciò trascinare. Percorsero il corridoio e svoltarono a sinistra. Trovarono una scala abbastanza alta da raggiungere il soffitto. August la afferrò e la posizionò in corrispondenza di una botola. Debby osservò il collo dorato del ragazzo reclinarsi mentre August rovesciava la testa all'indietro, alla ricerca dello sportello da centrare. Contemplò le sue larghe spalle contrarsi per lo sforzo che compirono nel posizionare la scala.
August le fece segno di salire. Debora lo squadrò per un istante. Nei suoi occhi, le iridi cristalline brillavano intorno alla pupilla come diamanti grezzi in una miniera polverosa.
Facendosi convincere dallo sguardo di August, Debby fissò le mani ai lati della scala e salì nel tentativo di reggersi saldamente.
Si ritrovò all'aria aperta, sul tetto della Magione. Uscì lentamente, cercando di mettere i piedi nei punti giusti. Si sedette. Avvertiva attraverso i jeans il freddo gelido delle tegole, e con le mani ne tastava il muschio umido e carezzevole. August spuntò dalla botola e si adagiò accanto a lei. — Non è splendido? — le disse.
— Sì, lo è. — Debora portò gli occhi al cielo, inumidendoli di luce. Lì, lontano dai lampeggii artificiali della metropoli, le stelle e la via lattea si potevano ammirare in tutto il loro splendore, intrappolate nella nera rete della notte. Lì, oltre quel cielo rabbuiato, Azazel la scrutava, e presagiva la sua distruzione. Lì, al limitare dell'infinito, la aspettava un futuro ineccepibile.
August richiamò la sua attenzione: — Ho pensato che ti avrebbe fatto bene allontanarti per un po' dal trambusto di questi ultimi giorni.
— Già. — Debby sorrise fiocamente. — Grazie.
I due tacquero, osservando la notte e i grappoli di stelle, una piantagione di viti celesti, al fine di imprimere quel nitido momento nei loro ricordi.
— Debora — la chiamò il ragazzo.
Lei si voltò. — Sì?
— Stai bene?
Debby ricondusse lo sguardo al cielo, sospirando. Era almeno la terza volta che se lo sentiva domandare, ma la risposta che avrebbe dovuto dare non le era ancora chiara.
— Credo di sì — disse infine. — Voglio dire, non penso di aver mai corso un pericolo più grande, in vita mia. Ho rischiato addirittura la morte. E non credo di aver mai scoperto così tante cose in così pochi giorni. Ma d'altronde, è stata una mia decisione. Per cui... ho voluto la bicicletta? e adesso pedalo. In ogni caso, non me ne pento.
August, le ginocchia al petto, la fissava, mentre le stelle incantavano lo sguardo di Debby. Riprese: — E comunque penso che avendo accettato di difendere il Mondo Occulto, è normale ch'io corra dei rischi. Me ne capacito. — Inalò l'aroma notturno. — Eppure — continuò, — non mi sono mai trovata tanto bene nella mia stessa pelle, prima d'ora. Cioè, finalmente capisco perché mi sia sempre sentita così diversa dagli altri. Così... sbagliata. Era semplicemente il mondo in cui vivevo, o meglio, in cui credevo di vivere, che non mi si addiceva. Ora, invece, tutti i miei dubbi sono stati smentiti. E me ne compiaccio, nonostante questo abbia significato farsi alitare in faccia da un demone Cineraceus. Dio, pensavo di aver provato di tutto, nella vita, quando fui costretta a conversare con mio padre dopo aver mangiato gli spaghetti alio e olio preparati dalla mamma.
August rise.
— Te lo giuro! — eruppe Debora, scherzosa. — Il giusto dosaggio non rientra nelle competenze di mia madre. E paragonare mio padre a un demone Cineraceus è alquanto... allarmante.
August non riusciva a contenersi. — Mi fa piacere vedere che stai meglio — disse, smorzando le parole tra una risata e l'altra.
Debby sorrise. — Posso... — Si interruppe. — Vorrei saperne qualcosa di più, su di te. Da dove vieni? Come sei finito da Azazel e da mia madre?
August annuì impercettibilmente. — Sapevo che prima o poi me l'avresti chiesto. — Non disse nulla, per qualche istante. — Sono nato in Argentina, ad Iguazu — disse poi. — Non ho mai conosciuto i miei genitori; da che ho memoria, ho sempre vissuto in un grande raggruppamento di ifrit. Vivevamo in una sorta di orfanotrofio. Lo chiamavamo il Cortile. So che sembrerà triste, ma la nostra era una famiglia a tutti gli effetti. Arrivati ad una certa età, però, ognuno di noi doveva lasciare il gruppo e decidere che stile di vita intraprendere. È così che sono arrivato ad Azazel e poi a tua madre.
Nel silenzio più assoluto, Debora poggiò la testa nell'incavo tra il collo e la clavicola di August. Lui le accarezzò i capelli, distrancole le ciocche con le dita. Le lunghe ciglia della ragazza gli solleticavano la pelle.
Per diversi minuti, i gracidii furono l'unico suono udibile. Debora avvertiva il calore emanato dal corpo di August e la morbidezza del suo maglione contro il proprio viso. Non avrebbe mai potuto chiedere di meglio: August, la sua dolcezza, il suo profumo. Il bagliore lunare e un cielo stellato come non mai.
— A volte penso di non essere all'altezza — confessò Debby. — Di poter deludere tutti quanti. In fondo, la mia era solo una leggenda.
— Hai detto bene — disse August.
La stregona rialzò la testa di scatto e lo guardò, intontita da quella sua risposta.
— "Era" una leggenda — rettificò lui. — E ora è realtà. Debby, il solo fatto che tu sia riuscita a rompere il sortilegio spiega tutto, quante volte te lo devo ripetere? — Scosse la testa. — Tra l'altro, pensi davvero che Jandira avrebbe accettato di insegnarti l'arte della stregoneria e di allenarti, se non avesse riconosciuto in te la stessa forza che riscontriamo tutti? Debora, questi dubbi, ormai, non li devi più avere. Non puoi perdere tempo a lagnarti. È troppo tardi, hai già accettato di proteggere il Mondo Occulto. Questa è la verità, per quanto difficile o confusa possa risultare. — August parve inasprirsi. — Piuttosto, ciò a cui dobbiamo pensare è... tuo padre. La domanda è: Azazel sa che sei viva? O voleva semplicemente intromettersi nelle faccende dei Licantropi?
Una profonda voragine di paura si aprì tra i pensieri Debora. I suoi occhi, amalgamati al nero della notte, erano di un viola ottenebrato. Ea quasi impossibile notare il distacco tra l'iride e la pupilla.
Debby era preoccupata. Da quella fatidica e meravigliosa notte in cui il ragazzo le aveva svelato ogni mistero, si era limitata a reprimere l'idea che suo padre potesse cercarla. Ma affrontare certe paure era inevitabile.
La luce lunare illuminava il profilo aquilino di August, finché l'ifrit non si voltò, gli occhi seminascosti dal buio. — Scusa — le disse. — Non volevo darti ancora più preoccupazioni.
— No — troncò Debora. — Hai fatto bene. Ora so come stanno le cose. Come stanno sul serio. — Queste furono le sue parole: gelide.
Si alzò. — Sono stanca — annunciò. Detto questo, si infilò nella botola con fluidità e grazia. Scese le scale, seguita da August. Camminarono a passo svelto. Fu un tragitto privo di un qualsiasi sguardo o di una qualsiasi parola.
Arrivarono alla stanza. Debby si voltò. — Buonanotte.
Prima che potesse svanire al di là della porta, August la fermò. — Sappi che se hai bisogno di me, io ci sono. Sempre.
Debora non resse. Cedette, si ingentilì. Avvolse le mani intorno al collo del ragazzo. Lui le passò le dita fra i capelli. Dopo la doccia e l'uscita sul tetto, alcune ciocche corvine si erano leggermente arricciate.
Si baciarono.
Un solo bacio. Lento. Mite.
Debby inspirò il profumo zuccherato di August, il quale, a sua volta, assaporò l'essenza notturna che lei aveva imprigionato nei lunghi capelli color dell'ebano.
Poi, i corpi dei due si slacciarono l'uno dall'altro e le loro dita avvinghiate continuarono a sfiorarsi finché non furono costrette a lasciarsi definitivamente.
Debora entrò in camera. La percezione delicata e sconvolgente di quell'ultimo bacio era ancora vivida sulle sue labbra.
Si rintanò sotto le coperte. Le fiamme del camino scoppiettavano, ma lei pareva non sentirle: il subbuglio dei pensieri che affollavano la sua mente predominava.
Prima di addormentarsi, Debora pensò al senso di completezza da cui sempre più invigorita. Pensò al rapporto d'amicizia che stava instaurando con Katrin. Pensò alla solidarietà che riceveva da tutti quanti. Pensò al fascino intrigante e al contempo sdegnoso che Jason esercitava su di lei. Pensò al garbo dei Lionchild. Pensò a Jandira e al suo enigmatico ed incoerente comportamento.
Pensò a tante cose.
Pensò all'amore che nutriva per August, un amore crescente ad una velocità ultraterrena. Un amore incontenibile, dirompente, che non poteva essere fermato in nessun modo e che Debby, soprattutto, non voleva fermare.
E poi, si addormentò.

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