3 colours

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capitolo 31

"costruendo la propria gabbia, ognuno impara ad amarla"
(Mirko Badiale)



Passarono i giorni; le ore; i minuti; i secondi. Le lancette rintoccavano il tempo infranto da impressioni senza bussola. Disorientata in un campo avvolto da un cielo privo di stelle, dove il sole non sorge e non tramonta, la luna non brilla e non eclissa, il vento soffia inerte e il prato si spegne di verde.
Le uniche coordinate erano segnate sul braccio, tramite tragitti sconnessi color cremisi.
Aloni violacei sotto gli occhi abbandonati, indicavano luoghi di notti crudeli.
I tremolìi incessanti delle mani ferite conducevano verso un'anonima destinazione che infrangeva come vetro sulle nocche distrutte.
La mappa ero io, era il mio mondo e non c'era modo di fuggire da me stessa.

Le ricerche non avevano portato risultati ed ogni mattina la speranza si riduceva sempre di più in briciole.
Probabilmente il mio stato mentale influiva durante il processo, facendomi stancare prima del dovuto perdendo facilmente la concentrazione.

Mi ero rinchiusa in abitudini malate che iniziavo a normalizzare.
Salivo una scalinata di gradini spinosi che affiancava un baratro a cui, con passi flebili, mi avvicinavo, sperando di cadere definitivamente.
Ogni pietra che in quel cammino trovavo, la usavo costruendo una parete. Muro dopo muro, mi ero rinchiusa in una gabbia.
Una prigione della mente, un loop infinito.
Imparavo sconsideratamente ad amarla ed ad adagiarmi su tradizioni immorali e consuetudini inconcepibili.
Ma il dolore fisico andava accettato per non annegare nelle acque turpi dell'agonia recondita.
Era una vera dipendenza.
Ogni volta cercavo di celare davanti lo specchio tutti i sintomi dell'astinenza.
Ogni volta il mio riflesso mi implorava di smettere.
Ogni volta io combattevo battaglie già perse.
Ogni volta ricadevo nello stesso baratro.
Come Eva con la mela, io necessitavo di sentire il sangue mischiarsi a gocce limpide e pure.
Il serpente tentatore mi sibilava silente alle spalle.
La sua voce altro non era che la mia coscienza.
Le sue parole tanto ingannatrici, altro non erano che le mie.
Era un bisogno disumano che mi divorava. Il plasma scarlatto e le lacrime cristalline cadevano sulla ceramica lattea.
3 colori così opposti tra loro: rosso, bianco, trasparente-se questo può essere definito colore-.
3 elementi del mio sfogo.
Il sangue dei tagli.
Il lavandino a cui reggersi tremante.
Le lacrime ripudiate per troppo tempo.
Io ero immersa in tutti e 3 sperando di reprimere i mali.
Il dolore era d'affogare. Ma io stavo affogando con lui, dannatamente.

Anche il settimo giorno congedai la squadra delusa con un
"«niente da fare»".
Jarvis non sembrava avere piste e ciò che trovava erano vicoli ciechi contro cui sbattevano con tutta la testa.
Con Bucky e Sam ci ignoravamo e nonostante fossimo stati discreti alcuni della squadra provarono a fare domande.
Così anche la rossa quella mattina dopo le ricerche mi si avvicinò sedendosi accanto a me.
Pochi erano rimasti in sala comune e il silenzio che ormai era nostro fedele accompagnatore, avvolgeva quasi tenebrosamente la tensione.
«tu mi dirai cosa è successo oppure mi aprirai un'ala in metallo davanti agli occhi?» mi sorrise apprensiva.
«Nat, niente di importante ok?» fui tanto convincente quasi da ingannare me stessa.
Mi squadró studiandomi.
«non sarò brava in queste cose, ma sono una spia russa. Ti copri le occhiaie con il fondotinta, non stai mai ferma come ora perché se no si noterebbe che tremi come una foglia, eviti gli orari di punta per mangiare e puzzi di fumo»
Colpita ed affondata.
Mi irrigidii per la verità sputata in faccia ed improvvisamente sentii uno sguardo insistente che silenziosamente ascoltava la conversazione.
In un attimo infrangibile mi scontrai impetuaosamente con gli occhi di Bucky. Ci osservava, riportando a galla quello che avevo visto durante la discussione: delusione, amarezza, rigidità, ira.
Ma una luce peculiare di preoccupazione mi fece restare interdetta.
Rivolsi il secondo dopo l'attenzione alla russa che non aveva notato lo scambio fulmineo.

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