1-Why can't I be you?

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-Mamma, perché mi chiedono sempre se sono il tuo fratellino?- mi domandò Luc non appena fummo usciti dal Tesco Express di Trafalgar Road e porgendomi il lecca lecca affinché glielo aprissi.
-Perché sei così alto e in gamba che sembri un ometto e sei più simile ai tuoi zii che a un bambino piccolo.
Quella risposta inorgoglì mio figlio ed era più che sufficiente per i suoi cinque anni: avrebbe avuto tempo per confrontarsi con la cattiveria della gente che lo considerava soltanto un errore che mi aveva rovinato la vita e che mi giudicava una ragazza leggera o la stupida che si era lasciata fregare.
-Dai mamma, adesso muoviamoci, altrimenti farò tardi a scuola.
Prendemmo l’autobus al volo e ci sedemmo al piano superiore, Luc appoggiò la testolina sul mio braccio in cerca di coccole che non gli seppi negare e arrivammo in Wyndcliff Road appena prima del suono della campanella. Gli sistemai lo zainetto sulle spalle e lo accompagnai con lo sguardo, mentre si incamminava verso il portone della scuola con il chupa chups in bocca, voltandosi mille volte a guardarmi e a salutarmi: mi sembrava impossibile che fosse già al primo anno della Primary School.
Luc era il frutto di una colossale sbronza che avevo preso durante una vacanza in Irlanda, concepito in un rapporto occasionale con un ragazzo di cui ricordavo solamente i grandi occhi azzurri, ma quello che gli altri definivano “uno sbaglio”, era l’unico amore della mia vita. Cercavo di farlo vivere come tutti i bambini della sua età, portandolo al parco, a giocare a calcio e alle feste di compleanno, ma mentre lui era ben integrato con i coetanei, io mi sentivo sempre fuori posto: le altre mamme mi evitavano come la peste perché secondo loro ero troppo giovane per sapere come si tira su un figlio e, non avendo un compagno, non potevo capire nulla delle loro dinamiche familiari. E proprio perché avevo già un figlio e dunque altri tipi di problemi, ero tagliata fuori anche dalla vita delle mie coetanee. Non poteva essere diversamente giacché quelle che non passavano le loro giornate sui libri, pensavano unicamente a divertirsi; inoltre tutte sembravano avere un fidanzato o comunque una persona cui importasse di loro, mentre io ero sola da diversi anni.
Ogni tanto mi vedevo con qualcuno: una birra in un pub, una passeggiata, a volte del sesso occasionale, ma nessuna storia si era mai trascinata all’indomani e, soprattutto, non avevo mai presentato nessun ragazzo al mio bambino.
-Mamma, perché non ho il papà?- era un’altra delle domande frequenti di mio figlio.
-Non ti serve, hai il nonno, il bisnonno, due zii e tutto il personale dell’albergo- gli rispondevo, ma negli ultimi tempi il piccolo Luc si era fatto più insistente e affermava che gli sarebbe piaciuto che la mamma avesse un fidanzato che le desse i bacini sul naso.
-Ho te- gli dicevo ogni volta e poi lo abbracciavo e gli facevo il solletico fino a fargli dimenticare l’inopportuna domanda.
In realtà mi sarebbe piaciuto avere un ragazzo, in fondo la solitudine mi pesava molto, ma tra la cura di mio figlio e il lavoro all’Inn non mi rimaneva molto tempo libero, inoltre ogni mia azione era giudicata pesantemente dai miei familiari che mi ricordavano in continuazione che ero una madre e che avevo delle responsabilità. E poi non ero mai riuscita a trovare nessuno che potesse essere un compagno per me e al tempo stesso un buon padre per mio figlio: in tutti gli uomini che conoscevo trovavo ogni tipo di difetto o incompatibilità a mio avviso insormontabili, alla fine, però, credo si trattasse solo di scuse come sosteneva mia cugina Léonie.
Diventare madre così giovane, inoltre, aveva accentuato la mia tendenza a chiudermi a riccio e la mia diffidenza verso chi mi circondava; spesso sentivo lontanissime le persone che mi stavano vicino, ero convinta che nessuno fosse in grado di capirmi o forse ero io che non capivo gli altri, anche se, ad essere sincera, non mi impegnavo neanche a farlo: ormai vivevo solo per Luc.
Ricordavo ancora quando avevo iniziato a stare male e, pur immaginando di cosa potesse trattarsi, mentivo a me stessa dando la colpa ad ogni tipo di malessere. La diagnosi di mia cugina fu più precisa, immediata e realistica della mia: fu lei a tenermi la mano mentre aspettavamo il risultato del test, lei la prima a chiedermi “Elise, che farai adesso?” quando le due striscette parallele su quel pezzetto di plastica ci rivelarono che una nuova vita stava crescendo dentro di me.
Cosa avrei fatto? Quel bambino aveva il diritto di venire al mondo anche se non avevo la più pallida idea di chi fosse suo padre, non era giusto che pagasse con la vita solo perché io mi ero comportata in maniera sconsiderata. Ero una ragazza determinata, avrei portato avanti la gravidanza anche se la mia famiglia si fosse opposta. Quando, piena di paura, ero andata da mio padre confessandogli di essere incinta, lui aveva semplicemente alzato gli occhi dal giornale e aveva detto:
-Hai idea di cosa hai rischiato, con tutte le brutte malattie che ci sono in giro?- e aveva ripreso a leggere come se niente fosse, accettando con serenità quella gravidanza inaspettata: ero la sua unica figlia femmina, era sempre stato molto indulgente nei miei confronti, probabilmente per farsi perdonare di aver destinato i suoi pochi risparmi per mandare al college mio fratello Benoit anziché me che era la più portata per gli studi.
Ricevetti l’appoggio incondizionato di tutta la mia famiglia: persino quei bacchettoni dei miei zii, che vivevano e lavoravano con noi al Pilot Inn, l’avevano presa piuttosto bene, avvertendomi che, però, non sarebbe stato facile, ma d’altronde se mi ero sentita tanto grande per fare sesso dovevo essere altrettanto matura da accettarne le conseguenze. Questa naturalmente era l’opinione di mia zia, una donna piuttosto cinica, che aveva una figlia della mia stessa età. La testa di mio nonno era ferma agli anni Trenta quindi non si accorse neanche del mio pancino che lievitava e non fece commenti sulla presenza di quel bambino nella stanza accanto alla sua. Quanto ai miei fratelli,  non erano stati di molte parole: Jean si era limitato a dire “Figo, sono zio! Userò tuo figlio per rimorchiare le ragazze” mentre Benoit mi aveva dato una pacca sulla spalla e mi aveva detto “Bene sorellina, è finita la tua carriera di dormitrice”.
A dire il vero finì un po’ tutto a cominciare dalle partite di calcio alle quali non potei più prendere parte e dovetti rinunciare al posto da titolare nella squadra della scuola, per il resto, riuscii a concludere l’anno scolastico senza problemi, mimetizzando la gravidanza sotto maglioni ampi e vestiti con la vita a impero. Luc nacque a settembre, fortunatamente la mia scuola aveva dei buoni programmi per i privatisti, così riuscii prendere comunque l’A Level: una bella conquista, potevo ritenermi soddisfatta, anche se non dimenticherò mai la delusione negli occhi della mia insegnante di letteratura il giorno in cui andai a ritirare l’attestato. Il mio professore di scienze fu molto più esplicito:
-Hai fatto una cavolata Elise: eri una delle allieve migliori dell’istituto, avresti potuto frequentare l’università, fare una scoperta che avrebbe cambiato il mondo, invece hai scelto di cambiare pannolini.
Quella mattina erano appena le dieci e mi sentivo già stanca: avevo portato mio figlio a scuola, aiutato mio fratello Jean a fare l’inventario degli alcolici del pub, sistemato la biancheria e badato che il nonno avesse preso tutte le medicine. Entrai in camera mia e guardai Louis che rispose col silenzio al mio buongiorno non dato.
Ero diventata adulta a diciassette anni, l’avevo scelto io in fondo e non avrei cambiato mio figlio con niente altro al mondo, ma spesso sentivo stretto quel ruolo al quale non avevo il coraggio di ribellarmi: odiavo dovermi comportare con giudizio solo perché dovevo dare il buon esempio a Luc e soprattutto detestavo che me lo ricordassero in continuazione.
L’unico momento in cui mi sentivo ancora una ragazza di ventidue anni era quando mi mettevo davanti al computer a vedere video e interviste o quando infilavo le cuffiette nelle orecchie, perché c’era una sola persona al mondo che mi faceva stare in pace con me stessa ed era Louis Tomlinson.
A livello musicale preferivo i Guns and Roses: gli One Direction me li aveva fatti conoscere mia cugina Léonie che era una loro fan scatenata e ne parlava in continuazione e piano piano avevo cominciato ad apprezzare le loro canzoni e a guardare con occhi diversi uno di loro. Non avrei saputo dire esattamente cosa mi piacesse di più in Louis, lo trovavo divertente e non mi importava niente se Léonie mi diceva “Ma Harry è più figo!”, per me era il ragazzo più bello del mondo.
No, un momento, Louis non era bello. “Bello” era un aggettivo dal significato quasi svilito dal troppo uso: Harry era bello, Louis, ai miei occhi, era qualcosa di più.
Avevo un piccolo poster sul muro di fronte al letto e una foto attaccata allo specchio del bagno in cui Tommo, come amavo chiamarlo perché me lo faceva sentire più vicino, era leggermente abbronzato, aveva un bel sorriso sereno e indossava un completo elegante, da Comunione, avrebbe detto mio nonno.
Il nonno era molto anziano, aveva mille acciacchi e l’Alzheimer e ogni volta che entrava nel bagno che Luc ed io avevamo in comune con lui, si lamentava di quella faccia da psicopatico che lo guardava mentre espletava le sue funzioni corporali.
Una mattina mia zia venne alla reception e pregò Léonie e me di non prendere prenotazioni per il 19 febbraio.
-Promettetemi di stare calme- ci disse, guardandoci duramente. Aveva gli occhi molto chiari che le conferivano un’espressione davvero glaciale quando ci rimproverava; era la sorella di mio padre, aveva i suoi stessi tratti severi e la sua rigidità era accentuata dalla pettinatura: i capelli tiratissimi in una  crocchia sulla sommità della testa la facevano somigliare ad una governante tedesca. In realtà era francese, tutti noi lo eravamo, anche se ricordavo ben poco dei miei anni a Nizza, giacché ci eravamo trasferiti a Londra quando avevo poco più di due anni.
Mia cugina guardò la madre e le chiese il motivo di tanta serietà.
-Avremo degli ospiti importanti, molto importanti.
Non era la prima volta: il Pilot Inn era un piccolo albergo annesso al pub e spesso vi alloggiavano gli artisti che avrebbero dovuto esibirsi nella vicinissima arena O2, non capivo perché mia zia facesse tanto la misteriosa e si perdesse in tanti preamboli.
-Pernotteranno qui la sera precedente ai Brit Awards- sospirò, poi fece una pausa lunghissima prima di annunciarci che si trattava degli One Direction e concluse mettendosi le mani sulle orecchie per non sentire il grido che facemmo partire in simultanea mia cugina ed io. Ci prendemmo le mani e cominciammo a saltellare, eccitate come bambine il giorno di Natale.
-Elise! Datti un contegno!- tuonò mio padre all’improvviso.
Sempre la solita storia. Léonie aveva la mia stessa età, eppure le era concesso tutto, mentre qualsiasi mia richiesta o emozione era accompagnata dagli immancabili “e tuo figlio?” “pensa a Luc” oppure “non è un atteggiamento consono ad una madre”.
E a quanto pareva, esprimere la mia felicità perché avrei finalmente avuto l’occasione di conoscere il mio idolo, non era un comportamento che si addiceva al mio ruolo di mamma. Nemmeno se, in fondo, avevo solo ventidue anni e Louis, assieme al mio Luc, era l’unica cosa che mi facesse sentire viva.

A Letter to Elise (Ita)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora