5 - Part Time

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"Cosa hai detto?" chiese Erika spalancando gli occhi, il libro aperto sulle sue gambe.

"Vieni a darmi una mano!" ripeté Matteo nervoso. "L'altra cameriera ha avuto un contrattempo e non ce la faccio a gestire tutto da solo!"

"Cosa?! No, aspetta!" esclamò lei arrabbiandosi. "Non posso smettere di leggere ora! Hanno appena parlato di mia sorella! Hai detto che si chiama Fenice, no? E poi scusa... perché dovrei lavorare per te?"

"Uhm, vediamo..." disse lui in un falso tono meditabondo, la mano sul mento. "Forse perché non mi hai ancora pagato la stanza? O perché altrimenti mi riprendo il diario? O per gratitudine? Fa niente, scegli il motivo che vuoi, basta che ti sbrighi a venire giù!"

L'oste se ne andò sbattendo la porta e lei rimase basita guardando il punto in cui si trovava fino a un momento prima.

Borbottando parole incomprensibili si allacciò il grembiule che le aveva lasciato attorno alla vita e scese le scale verso la sala.

C'era già un certo numero di persone sedute ai tavoli e Matteo volava da una parte all'altra prendendo gli ordini e correndo dietro il bancone.

"Non è difficile" le disse fermandosi davanti a lei. "Ogni volta che arriva un nuovo cliente vai al suo tavolo e gli porti il menù, dopo cinque minuti ci torni, prendi l'ordine e lo porti da me. Io preparo il tutto e te lo consegni. Tutto qui."

Tutto qui? Erika prese il taccuino in mano e si girò, sentendo il panico crescerle mentre osservava i tavoli del pub.

DING!

"Ordine del tavolo tre!" gridò Matteo.

Tavolo tre? E quale diavolo era il tavolo tre? Guardò confusa i tavoli più vicini alla ricerca del numero ma non trovò niente.

DING!

"Bevande al tavolo cinque!" le gridò ancora lui, da dietro il bancone e poi aggiunse: "Cosa diavolo stai aspettando?"

"Qual è il tavolo tre? E il cinque?" chiese lei nel panico.

"Sveglia, bimba!" le rispose lui indicandole una piccola pianta del pub affissa alla colonna, con la posizione dei tavoli e il loro numero.

Corse attraverso la sala e cominciò a consegnare cibo e bevande, condite da scuse per il ritardo e sobbalzando a ogni DING! di Matteo.

"Cosa c'è di buono?" le chiese a un certo punto un ragazzo, mentre lei prendeva il suo ordine.

"Non saprei..." rispose lei, guardandolo sconvolta. "È tutto scritto nel menù..."

"Sì, ma volevo sapere per bere..." replicò lui, guardandola perplesso.

"Birra."

"Birra...?"

"Birra. Te ne porto una?"

Quello scoppiò a ridere e annuì.

In qualche modo riuscì a superare la serata. Dopo i primi ordini era diventato tutto più facile, uno schema da ripetere fino a diventare scema. Quando l'ultimo cliente augurò una buona serata a lei e all'oste si sdraiò distrutta su una panca: le facevano male i piedi dopo aver camminato da un tavolo all'altro per quattro ore di fila e si sentiva la testa scoppiare.

"Hai fatto un buon lavoro..." rise Matteo, sorseggiando un boccale di birra e sedendosi accanto a lei. "Non ci avrei scommesso... ma grazie!"

"Non è che mi hai lasciato molta scelta, eh" gli rispose la ragazza, sollevandosi a sedere a sua volta.

Stava per salutarlo per tornare nella stanza quando un rumore di vetri rotti la fece voltare. Un enorme gatto, il pelo a chiazze nere e bianche, era saltato sul bancone del bar rovesciando a terra buona parte dei bicchieri che Matteo aveva lasciato ad asciugare.

"Ma porc-" esclamò lui alzandosi di corsa e prendendo l'animale sotto il braccio, tirandolo via dai vetri. "Ecco perché non ti faccio mai uscire, Mana!"

Erika sorrise ma in quel momento fu folgorata da una strana sensazione: non sapeva dire perché, ma quella scena le sembrava stranamente familiare. Solo quando vide il muso soddisfatto del gatto sbucare da sotto l'ascella dell'uomo, le rivenne in mente una scena che l'aveva fatta sorridere: un uomo che fuggiva da un lupo tenendo un coniglio sotto il braccio come se giocasse a rugby.

"Coyote?" chiese lei, a mezza voce, mentre lui spostava i vetri con la mano libera. Quello si fermò e si girò lentamente con una strana espressione sul viso.

"Ora mi devi spiegare..." disse a metà tra un sorriso e uno sbuffo.

"Ti ho riconosciuto da come hai preso il gatto..." spiegò lei. "Lucio ha scritto che avevi preso in quel modo anche Roger, quando lui liberò il lupo."

"Ah, ma certo!" disse lui battendosi la mano sulla fronte e posando il gatto a terra. "Come non riconoscermi? Beh, ci hai azzeccato: io sono... ero Coyote."

Si mise seduto, improvvisamente stanco e lei lo imitò curiosa. Era strano trovarsi nella stessa stanza con una persona di cui aveva letto fino a un momento prima.

"A che punto sei arrivata?" chiese lui riluttante, prima che lei potesse dire qualcosa.

"Lucio sta per incontrare mia sorella" disse lei, sorridendo appena.

"Ti prego, non chiamarlo Lucio." disse lui con voce stanca. "Lui è Druido. Il Lucio che conoscevo io è morto quella sera insieme..."

Non terminò la frase e un'ombra di dolore gli attraversò il volto.

"Quando venne da noi e cominciò a parlare di terrorismo e vendetta in quel modo..." continuò dopo qualche secondo. "Avresti dovuto vedere l'espressione sul suo volto! Se ne stava lì in piedi, vicino come adesso siamo io e te, con quel lupo accanto, entrambi pieni di sangue..."

E lei lo vide: il gracile Coyote seduto davanti al gigante e il suo lupo, terrorizzato da tutto quel sangue.

"Era spaventoso e la cosa peggiore era quello che diceva: parlava di vendicare Lupo e nello stesso momento sputava sulla sua regola fondamentale... e tutti gli davano ragione... ma io non potevo!" concluse, asciugandosi il sudore sulla fronte.

"Per questo lasciasti il Branco?" chiese lei, mentre l'immagine svaniva dalla sua mente.

"Non ho lasciato il Branco!" esclamò lui, agitato. "Loro l'hanno distrutto! Quella non era la famiglia che aveva creato Lupo, erano solo un gruppo di delinquenti!"

Tacque all'improvviso, come temendo di aver detto troppo.

"C'erano ancora animali di cui prendersi cura, anche se loro se lo erano dimenticati..." aggiunse dopo qualche secondo. "Li curai e diedi loro una casa e poi... me ne andai. Mi padre lavorava in questo pub e mi prese a lavorare con lui, senza sapere quello che avevo fatto con il Branco."

Lanciò un'occhiata furtiva alla foto di un uomo baffuto su una parete e lei non chiese altro.

Dopo un lungo silenzio fu lui ad alzarsi per primo dicendo: "Scusami, sono molto stanco, vado a letto..."

Prese a salire le scale e lei lo seguì.

"Grazie, Matteo" gli disse mentre lui le dava le spalle. L'oste si girò guardandola sorpreso e aprì la bocca per richiuderla subito, voltandosi di nuovo dicendo a mezza voce: "Buonanotte..."

Erika tornò in camera sua e si mise seduta sul letto, guardando il libro piena di domande. Mancava poco, molto poco ma non poteva fare a meno di farsi domande su quanto aveva letto. Aveva finito per dare ragione a Lucio senza pensare che tutto quello che stava leggendo era stato raccontato dal suo punto di vista. Era stato Matteo a farle capire che la verità non era mai una sola. In effetti concordava con Coyote: Lucio non era sé stesso... o forse lo era per la prima volta.

In quel momento si rese conto di una terribile quanto innegabile verità: quel diario era la prova di un duplice omicidio, solo in quel momento si rese conto di quanto fosse pericoloso.

Leggendo si era quasi dimenticata che quella fosse una storia vera, presa com'era da quanto era successo.

Ma non era il momento per tentennare: ancora poche pagine e avrebbe saputo la verità.

Tremando per l'eccitazione e la paura, prese nuovamente il libro tra le mani e se lo aprì in grembo.

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