1 - Erika

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"Gli esperti vogliono rassicurare la popolazione sull'arrivo dell'uragano Elena: non ci sarà alcun pericolo per i civili che sono comunque invitati a rispettare le basilari norme di sicurezza come-"

FZZZZZT

"...-mici telespettatori, quest'offerta è IM-PER-DI-BI-LE! L'intero set per affettare le vostre verdure a sol-"

FZZZZZT

"... Marco, vero? Lo sento, sento le vibrazioni della tua anima. Ora scegli tre carte e la tua fortuna ti verrà svel-"

FZZZZZZZZZZZZZZZZZT.

I programmi televisivi lasciarono il posto a una nebbia argentata che già aveva fatto capolino di tanto in tanto tra le trasmissioni.

L'interferenza rischiarava la camera a giorno, nonostante l'alba non avesse ancora messo in moto la città che di lì a poco si sarebbe levata, ancora assonnata, stirandosi e sbadigliando in mille voci diverse.

A un occhio disattento la stanza sarebbe potuta sembrare vuota, un paio di scatole di un take-away cinese abbandonate sul pavimento, la portafinestra chiusa per fermare quella poca aria che filtrava attraverso l'avvolgibile chiuso.

La luce bianca si rifletteva su un certo numero di oggetti: un paio di foto incorniciate su una mensola, lo schermo spento e silenzioso del computer, la locandina di un film di fantascienza che occupava buona parte della parete di fronte e due piccole sfere nascoste tra le coperte aggrovigliate.

Due occhi e un braccio levato con il palmo rivolto verso l'alto, a sostenere un telecomando lucido e nero verso quel sole tecnologico.

Gli occhi di Erika sembravano grigi e appannati in quella luce, come se uno strato di quella polvere che regnava sovrana per la stanza si fosse adagiato anche su di loro. Se li aveste osservati in una luce meno meschina, avreste visto un verde smeraldo che si nascondeva tra il rossore delle lentiggini e di quei capelli crespi che le si allungavano ai lati del volto.

L'unico cenno di vita di quella bambola sul letto era il lento e regolare battito di ciglia, con il petto che si sollevava appena mentre ogni respiro si tramutava in un sospiro al momento del lasciare le labbra socchiuse.

Una natura morta.

Una camera di stasi.

Poi il trillo di una sveglia, così simile a quegli orologi classici con le campanelle sulla testa, scoppiò nel cellulare adagiato sul comodino.

Un trillo, due trilli, poi una mano, buttata quasi per caso alla ricerca della fonte di quel fastidioso rumore che la andava a disturbare in un momento tanto importante.

Perché se con il corpo e con gli occhi appannati era lì, davanti al televisore che continuava a sputare grigiume, con la mente era altrove, svincolata dai limiti spaziotemporali.

Era tornata a molti anni prima, quando ancora non esistevano numeri più grandi delle dita di mani e piedi messe insieme, quando ancora non esistevano problemi più grandi di un dispetto di un bambino o della bacchettata della mamma. Una bacchettata metaforica, il più delle volte, ma aveva assaggiato anche il mestolo di legno che riposava pericoloso sulla credenza.

Era tornata al tempo delle scampagnate nei boschi, dell'odore dei funghi che ti entrava dentro appena scesa dalla macchina, dell'euforia nel trovarne uno, del disappunto nello scoprire che ne esistevano anche di velenosi e che, a quanto pare, lei era una maestra nel trovarne solo di quest'ultimi.

Era tornata al tempo dei giochi con un'altra macchia rossa come lei, solo un po' più grande.

Ma ora, anche se era tornata, osservava tutto questo come un'estranea, una spettatrice di uno spettacolo doloroso. E allora, dolore per dolore, tanto valeva tornare a essere protagonista del presente.

La mano zittì la sveglia e poi si alzò verso l'alto a stirare il polso e poi l'avambraccio, il bicipite e la spalla mentre più in basso arrivava un gemito di soddisfazione.

Gettò le coperte via pentendosene subito dopo, quando il gelo l'abbracciò svegliandola completamente. Fece una piccola piroetta sul posto e toccò con i piedi il pavimento ricoperto di piastrelle.

Fu grata al doppio strato di calzini per averle evitato quell'ennesimo bacio gelido. Ne aveva avuto abbastanza di quelle manifestazioni di affetto mattutine.

Alcuni avrebbero potuto obbiettare che un pigiama ricoperto dalla triade Topolino-Pippo-Paperino era poco dignitoso alla veneranda età di ventidue anni. E quel qualcuno sarebbe potuto stare zitto, di questo non aveva dubbi.

Si alzò stirando la schiena, sentendo scricchiolare un certo numero di ossa, come se si fossero messi a suonare le nacchere lungo la sua spina dorsale.

Arrivò alla porta e fece un respiro profondo. Sapeva che stava per arrivare un altro trauma mattutino, un'escursione termica degna di quella tra notte e giorno del deserto del Sahara.

È vero che doveva risparmiare, ma spegnere il riscaldamento del corridoio centrale le era sempre sembrata una tortura inutile.

Superò con un balzo i due metri che separavano la sua camera dal bagno e si specchiò strofinandosi le mani sulle braccia del pigiama per riscaldarsi.

A rispondere al suo sguardo c'era una ragazza della sua età, gli occhi cerchiati da un paio di occhiaie degne di nota. I capelli le andavano in ogni direzione e la battuta della scarica elettrica, per quanto banale e scontata, sarebbe stata la più calzante.

Fece un sorriso di compassione a quella poveraccia al di là del vetro e si chinò sul lavandino, cercando di lavare via le ombre di una notte insonne dalla faccia. La giornata non era cominciata nel migliore dei modi e il pensiero di dover arrivare fino a sera la fece sentire leggermente stordita.

Si passò il burro di cacao sulle labbra screpolate e si diede una singola spazzolata che ebbe lo stesso effetto di una secchiata d'acqua fuori da una nave che affonda. Poteva dire però di averci provato.

Ringraziò la sé stessa della sera prima per aver avuto l'accortezza di accendere la televisione solo dopo aver preparato la borsa, indossò un paio di jeans slavati e una camicia spiegazzata e si diresse verso il portone d'ingresso.

Sapeva che avrebbe dovuto guardare avanti, posare la mano sulla maniglia e uscire. Sapeva che solo così avrebbe potuto avere la minima speranza di riuscire a seguire la lezione senza altri pensieri.

Ma, evidentemente, la forza dell'abitudine era più forte del buonsenso.

Girò la testa quel tanto che bastava per scorgere la parete dell'altra camera, quella non affittata. Ricordò quando aveva pregato il padre di prendere l'intero appartamento, perché ne avrebbero giovato i suoi studi e lui l'aveva accontentata, come sempre.

Non si sentiva in colpa, all'epoca le sue intenzioni erano le più nobili. Non era certo colpa sua se poi il suo percorso aveva preso una piega inaspettata.

Aveva voluto quella stanza per tenerla separata da tutte le altre tentazioni della sua camera. Un santuario dello studio, lontano da computer, televisione e giochi. Lontano da tutto.

Ma dove un tempo si tenevano compagnia una libreria carica di libri di testo e una sparuta scrivania su cui passava le giornate a studiare, ora si trovava solo desolazione. I due mobili stavano accatastati in un angolo, prede della polvere perché niente doveva distogliere l'attenzione da quella parete.

Fece qualche passo incerto nella stanza, guardando le foto e gli articoli di giornale che svettavano tra le puntine da disegno, sfiorando con le dita i fili che le collegavano tra di loro, creando una ragnatela di diversi colori che si estendeva da un lato all'altro della stanza.

Aveva passato intere settimane studiando quel grafico, cercando di trovare un indizio, una prova che le dicesse dove si trovasse, dove si fosse nascosta. Le sarebbe bastato anche solo sapere se stava bene, non avrebbe chiesto altro.

Ma niente, il vuoto cosmico. Ogni ritaglio di giornale dava la sua versione e allora doveva cercare la verità nascosta tra le parole, cercando di capire cosa fosse realmente successo.

Si costrinse ad allontanarsi e uscì di casa, nel vociare della città che incominciava a vivere, sperando che una di quelle voci fosse la sua, che fosse lì vicino.

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