D4 - Prometeo

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La mattina dopo mi svegliai e rimasi sdraiato a letto tenendo strette le coperte. Sarebbe stato meravigliosamente facile girarmi sul fianco e dormire, mandare in malora tutto: Yong, Lupo e i loro intrighi di palazzo.

Sarei rimasto lì, nella mia tana, in attesa che mi venissero a stanare con il fumo, quindi avrei opposto una strenua resistenza e sarei andato avanti con la mia vita.

Avrei dovuto farlo. Avrei dovuto accettare le conseguenze del mio comportamento, giuste o meno. Magari avrei perso il lavoro e forse anche l'abilitazione, ma avrei potuto andare avanti e ricominciare. Decidere, una volta tanto, per la mia vita.

Questo se a decidere non fosse stato un vigliacco.

Mi alzai e finii in quella serie di stanze che mettevano in moto la mia giornata: bagno, cucina, bagno, camera, salotto, uscita. Tutti percorsi fatti alla stregua di una spia che si muove nel covo nemico, attenta a non sfiorare i laser di sorveglianza. Così io mi muovevo, in modo inconscio e non, dando sempre le spalle ai due specchi della casa.

Chiavi, portafoglio e cellulare. Il biglietto da visita rimase sul mobile d'ingresso ed evitai accuratamente di incrociare il suo sguardo.

Così cominciai quella mattina: con la netta impressione di essere un'auto che fatica a partire per poi avanzare con difficoltà per le strade.

In effetti, ora che ci penso, non ero tanto diverso dal mio fuoristrada, in quel periodo. Tutto stava nello scoprire chi dei due sarebbe andato in pezzi per primo.

Raggiunsi i Laboratori Bianchi, seguendo quel percorso che ormai sapevo a memoria.

Parcheggio sul ghiaino, dito medio al serpente di metallo e poi fui dentro.

Due cose erano cambiate da quando ero stato lì per la prima volta: il dottor Sanna se ne stava ben lontano, mi lasciava le cartelline delle cavie sulla scrivania e mi controllava da una distanza di sicurezza. Non ci eravamo più parlati dal nostro... diverbio. Non che ne fossi dispiaciuto ma tra le due, avrei preferito la sua compagnia.

Infatti Yong sembrava ben intenzionato a colmare il vuoto che Sanna aveva lasciato nel mio cuore, seguendomi in ogni giro visite e allietando il mio lavoro con storie di altri esperimenti o con miti classici per poi osservare le mie reazioni.

Quel giorno toccava a Prometeo.

"Prometeo amava gli esseri umani, sai?" mi diceva, mentre segnavo sul blocco le condizioni degli animali. "In effetti è capibile, eravamo esseri ancora puri, prima che il vaso di Pandora non riversasse su di noi fatica e malattia, eravamo una razza da proteggere perché superiore alle altre..."

Non dissi niente. Non dicevo mai niente e a lui andava benissimo. Se ne stava lì a crogiolarsi della sua cultura classica e della sua visione del mondo. Non ebbi mai l'impressione che cercasse di convincermi: voleva solo un pubblico a cui imporre i suoi deliri.

"Ed è proprio da questo amore che è nato il suo gesto più grande..." continuò lui, stando seduto vicino una centrifuga e muovendo le mani mentre raccontava. "Vedi? Zeus non sopportava che gli uomini venissero tenuti in così grande considerazione da Prometeo, perché erano esseri pericolosi, dotati di intelligenza e ingegno. Così rubò loro il fuoco e li lasciò nell'oscurità. Prometeo dovette fare una scelta..."

Sottolineò quest'ultima parola e sollevai appena la testa.

"Prometeo sapeva benissimo che se avesse scelto di aiutare gli umani, ne avrebbe pagato le conseguenze..." continuò. "Ma lui scelse lo stesso di riportare loro il fuoco e venne punito duramente per questo..."

Alzai la testa e lo guardai dritto in faccia. Non aveva senso continuare a fingere, quando lui mi stava così deliberatamente provocando.

"Zeus lo prese e lo fece incatenare su una montagna con un'aquila che gli mangiava il fegato ogni giorno, che poi gli ricresceva ogni notte... per sempre." finì di raccontare lui. "Una punizione esemplare, vero? Non come perdere il lavoro, certo, ma più o meno..."

"Perché?" chiesi io stancamente. "Perché mi fa questo?"

"Perché?" ripeté lui, apparentemente confuso.

"Mi ha fatto capire che avrei dovuto accettare questo lavoro" continuai. "Mi ha detto che altrimenti avrei dovuto accettare le conseguenze e ora sta lì, a divertirsi con questi giochetti sadici..."

Lui mi guardò con quell'espressione che ormai avevo imparato a riconoscere, quel misto di pietà e delusione.

"No, no no no no no... questi non sono giochetti sadici, come li chiami tu." Scosse la testa e si alzò in piedi. "Avevo detto che avresti dovuto accettare le conseguenze della tua scelta, non ho mai detto che l'altra non ne avesse. Vedi? Tu hai scelto il lavoro rispetto ai tuoi principi. Di fatto non è né sbagliato né giusto: è una scelta e le sue conseguenze sono queste."

Si diresse verso la porta, le mani congiunte dietro la schiena e aggiunse: "Le mie storie non sono giochi sadici, hanno uno scopo didattico" e se ne andò.

Quel giorno spaccai tutto in casa. Ogni oggetto che poteva lasciare la sua posizione si ritrovò a volare per l'appartamento per poi atterrare sulla parete opposta.

A un certo punto sentii suonare il campanello e mi ritrovai davanti la mia vicina, una donnina piccola e fragile, allarmata dal casino che stavo facendo.

Dopo essermi scusato mi sentii distrutto. La rabbia che mi aveva ribollito dentro in quelle ultime due settimane aveva raggiunto il punto di evaporazione e aveva dato fondo alle mie energie.

Mi appoggiai con la schiena al mobile dell'ingresso e mi lasciai scivolare a terra, la testa tra le ginocchia.

Cosa diavolo stavo facendo? Perché non riuscivo a mandarlo al diavolo? Perché non potevo andare avanti?

Lo sapevo benissimo il perché: avevo passato la vita con il desiderio di diventare un veterinario e dopo vent'anni di studi ce l'avevo fatta. Non volevo che tutto andasse perduto per una cazzata che non avevo nemmeno fatto. Il cambiamento e l'idea di ricominciare mi terrorizzavano.

Rimasi lì, incapace di muovermi, in una perfetta imitazione della mia vita, quando sentii un fruscio alla mia sinistra.

Allungai la mano e tirai fuori dai cocci dei soprammobili distrutti un foglietto di carta, il biglietto da visita di Lupo.

Continuo a chiamarlo "biglietto da visita" perché non saprei come altro definirlo. Era un rettangolo di cartoncino bianco, da una parte vuoto e sull'altra un'unica riga, scritta a mano.

L'avevo letto e riletto, come se dietro a quelle tre parole e quei quattro numeri ci potesse essere la risposta a ogni domanda che mi stava tormentando.

"Villa Milton – 18.30"

Cosa avevo da perdere? Anche se, come pensavo, fosse stato un altro dei giochetti di Yong, al massimo mi sarei fatto ridere dietro e sarei tornato alla mia quotidianità con solo un paio di cicatrici in più.

Guardai il biglietto e guardai l'orologio sul muro: avevo ancora tempo, ma dovevo prendere una decisione in quel momento.

Strinsi istintivamente il foglio in mano e sentii una piccola fitta di dolore: la carta mi aveva tagliato il pollice e piccole gocce di sangue avevano macchiato il cartoncino.

Era un segno del destino, un messaggio chiarissimo: prendi questa via e vedrai molto sangue sulla tua strada.

Ma io non credevo al destino. Era troppo allettante non prendersi la responsabilità delle proprie azioni, dando la colpa alla malasorte e avevo imparato che ognuno deve accettare le conseguenze per le proprie azioni.

Mi alzai e presi la giacca.

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