~26) The right thing to do~

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La vista era offuscata da tutto quel bianco e quel grigio che divoravano il corridoio e nascondevano le porte incastrate nelle pareti. Ormai conoscevo quella strada a memoria a furia di viaggiare tra quelle lunghe mura. Un silenzio perentorio accompagnava i miei passi, nuvole di echi che rimbalzavano tra il pavimento e il soffitto dissolvendosi nell'aria. Camminavo lentamente, sorretto da due Hero mascherati che mi scortavano indifferibili, non una sola parola scappata alle loro labbra da quando mi avevano prelevato dalla mia cella. Non riuscivo a capire come dopo tutti gli interrogatori, le accuse mosse a mio carico, i paroloni scritti a macchina, gli isolamenti precauzionari, mi avessero lasciato soffrire nella solitudine di una stanza accerchiata da sbarre e non legato e imprigionato in una teca di vetro come i più temuti villain mai catturati. Non sapevo se essere grato di quella accordanza o punto nell'orgoglio da quell'ignoranza; dopo tutto ero stato un membro dell'unione dei villain, avevo assistito alla nascita di Tomura Shigaraki, preso parte ai piani contrabbandieristici di Overhoul e distrutto quartieri con un quirk che non sapevo di avere. Dovevo pur essere degno di un po' di rispetto, no?
Con una leggera spinta venni indirizzato verso la porta a vetri del confessionale che mi avevano riservato e vi entrai a testa bassa. In quei pochi mesi di permanenza al riformatorio erano venuti a farmi visita poliziotti, responsabili militari, vigilanti di alto calibro, insomma pezzi grossi che mi adocchiavano da tempo e volevano riportare le mie azioni ad occhi più esperti. Uscivo sempre più rimbambito da quelle sessioni, che a volte duravano ore infinite, con la testa pesante per tutte le domande e i monologhi che mi gettavano ai piedi. Sempre più mesto rispondevo a monosillabi, a volte faticavo ad aprire bocca con la gola raschiata da rammarico e delusione. Non dormivo, tormentato da una voce diabolica che martellava la testa con violenza inaudita e mi puntava costantemente un dito contro.
É colpa tua
Hai rovinato tutto
Non ti salverà nessuno
Loro verranno a cercarti
Infossati in occhiaie scure, quei pensieri, quelle parole taglienti, mi facevano pentire delle mie azioni. Forse avevo sbagliato a consegnarmi agli Hero, ma cercare di scappare mi avrebbe condotto lo stesso da loro. Con il cuore pesante avevo abbandonato Uraraka ed Eri in un edificio freddo e maleodorante per fare quella che credevo fosse la cosa giusta.
Da allora non avevo più visto nessuno.
Non sapevo in che città mi trovassi, in quale penitenziario fossi stato recluso, quale destino mi aspettasse. Non sapevo che ne fosse stato di Eri e Uraraka, ma ero fermamente convinto che la bruna avesse riportato tutte e due alla Yuuei, consegnando la piccola Eri a persone che avrebbero saputo proteggerla.
Alla fine andava bene così.
Non avrei più rivisto Eri e Uraraka non avrebbe rischiato di farsi scoprire venendo a trovare un villain con cui non avrebbe dovuto avere alcun tipo di conoscenza.

Per questo, quando mi sedetti al tavolo e gli Hero mi ammanettarono i polsi ai cardini intagliati sul piano, rimasi sorpreso nel vedere chi fosse venuto a farmi visita: All Might e mia madre mi osservavano dal lato opposto del tavolo, nessun muro di vetro a dividerci. Non capivo. Con occhi spalancati vagavo tra il volto corruggiato di mia madre, che tratteneva malamente le lacrime, e la faccia spigolosa di All Might, incapace ormai di riprendere le sembianze del vecchio simbolo della pace. Domande silenziose mi portarono a schiudere le labbra, il bianco delle pareti della stanza offuscava i miei pensieri e faceva ronzare le orecchie.
Che ci facevano loro lì?

<<Ciao, Izuku>>.
A rompere il silenzio era stata la voce di mia madre, quella voce dolce e soffice che mi ero quasi scordato di conoscere. Il tono fermo e materno tradiva un singulto per la posizione che aveva adottato: sembrava sul punto di scoppiare a piangere, ma la melodia di quelle parole dimostrava una sicurezza sconvolgente. Credetti di cedere davanti a quella donna che tanto mi aveva amato e che avevo ringraziato scappando e scomparendo dalla sua vita. Mi imposi di non farlo, di non tradire debolezze davanti alla figura sciupata di All Might e alle orecchie dei supervisori che, lo sapevo, ci stavano guardando dall'altra parte del muro.
Serrai così le labbra venendo a patti con una deludente constatazione: mia madre non era venuta per rivedere il figlio che credeva scomparso, ma fungeva da chiave per indurmi a parlare. Se speravano che avrei rivurgitato discorsi lunghissimi o dichiarazioni pungenti in preda alle lacrime, si sbagliavano di grosso. Non ricambiai il saluto di mia madre, mi limitai a puntare gli occhi negli spilli neri dell'eroe che l'accompagnava. Doveva per forza esserci lui dietro a tutto quel casino che fasciava la mia mente. Lo accusai con uno sguardo stanco, iridi verdi offuscate dalla fatica, dal dolore, dal risentimento. Non venni frenato dall'esile esistenza a cui si era ridotto l'ex simbolo della pace, non provavo pena per lui. In quel momento mi resi conto di quanto il mio odio nei suoi confronti fosse grande. Aveva trascinato mia madre in un piano ideato da schifosi Hero. La vergogna era ciò che meritava di provare.
Lo vidi deglutire, visibilmente provato da quella situazione, e se non fosse stato per il mal di testa che mi morsicava le tempie da qualche giorno a quella parte, me ne sarei beato sfoggiando il più ampio dei sorrisi.

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