Capitolo Ventotto

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Cristiano

Non sono abituato a tutto questo via vai di gente dentro casa mia. Di solito ci siamo solo io ed Emma, ogni tanto qualche ragazza che resta a dormire – e in quel caso mia figlia si trova categoricamente a casa della nonna - quest'ultima che a volte si intrufola per riempirmi il frigorifero o mettersi a pulire, qualche amico che viene a trovarmi. Attualmente ci sono circa dieci persone nel mio salotto, a partire dalla mia bambina, che gioca con le sue Lego seduta sul tappeto di fronte al camino spento, mia madre e mia sorella che parlottano fitto fitto in cucina, impegnate a preparare da mangiare per tutti, Barbara, che è arrivata da poco per darmi sostegno morale e che chissà perché si è portata dietro anche Castaldo e D'Alberti. Magari non sono dieci persone, ma sono comunque troppe per i miei gusti. Inoltre, appostati fuori la porta di casa, c'è un numero indefinito di giornalisti. Sono sul punto di scoppiare.

«Chi era al telefono? Di nuovo il Questore?»

Evito di guardare Barbara. Mi infilo il cellulare in tasca e fingo di non aver ascoltato la domanda. Avrei preferito fosse stata la Bianchi, sarebbe stato molto meglio. Me ne sarebbe importato molto meno e sarei stato molto meno incazzato. Non riesco a credere che sia successo veramente. Non riesco a credere di essermi fatto fregare così da una ragazzina.

«Allora?» mi incalza di nuovo la mia collega. Questa volta sono costretto a voltarmi verso di lei.

«No, non era il Questore», cerco di liquidarla, ma dallo sguardo mi rivolge è palese che ha capito chi era. Non ho voglia di parlare di quella conversazione. Non ho voglia di parlare di nulla che riguardi quello che è successo.

«Siete riusciti a cacciare questi maledetti?» domando bruscamente a Castaldo e D'Alberti, che però sembrano molto più interessati alla torta che Celeste gli ha appena servito.

«Dottore, ma che possiamo fare, sono per strada, su una proprietà pubblica», commenta D'Alberti a bocca piena, che quando dimostra di sapere qualcosa di diritto mi stupisce sempre. «Lei lo sa meglio di me, è laureato!»

Decido di non rispondere. Mi mordo il labbro e mi volto di nuovo verso Barbara.

«Per quale motivo te li sei portati dietro?»

«Perché volevano sapere come stavi e volevano parlarti dell'indagine sulla rapina all'Unicredit di Via Nazionale. Forse dovremmo discutere proprio di questo.»

«Non ho la testa per star dietro a un'indagine, adesso.»

Barbara non risponde. La guardo ancora per qualche secondo, poi poso gli occhi su Emma. Nonostante tutto, sta continuando a giocare con le sue Lego, come se fosse la cosa più importante del mondo. Mi avvicino a lei, sperando di non disturbarla.

«Va tutto bene?» La piccola testa mora annuisce con vigore.

«Ho saltato la scuola e sono stata tutto il giorno qui con te, certo che va tutto bene!»

Sorrido. Le do un bacio tra i capelli e decido di non disturbarla più. Mi muovo verso la cucina, ho bisogno di un bicchiere d'acqua. Ci trovo, oltre a mia madre e a mia sorella, anche Barbara, con un giornale aperto sul tavolo. Quel giornale.

«Credo che dovremmo parlarne, Cristiano.»

Mia madre si chiama Tiziana. Ha cinquantotto anni, è rimasta vedova a quaranta e ha sempre fatto l'insegnante di italiano presso la stessa scuola media, quella vicino casa nostra, al Quartiere Monti, che anche io e Celeste abbiamo frequentato. Mia mamma è una donna molto riservata, a cui piace farsi gli affari propri, che ama occuparsi della sua famiglia e cucinare per tutti, ma che non è mai mancata un giorno a scuola. Non le è mai piaciuto mettersi in mostra ed è molto orgogliosa dei suoi figli, ma non se ne è mai vantata con nessuno. Questa mattina, non appena ha letto la notizia, ha telefonato a scuola per prendersi un giorno di ferie per la prima volta in vita sua ed è uscita insieme a sua figlia per riportare la piccola Emma a casa di suo padre, dov'era giusto che si trovasse.

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