25. Rinascere.

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Quando il cuore era a pezzi, era come se nulla fosse al suo posto. Era quasi come se sulla pelle ci fosse una ferita che difficilmente sarebbe andata via, lasciando spazio ad una cicatrice che porta con sé il ricordo. Il ricordo del cuore diviso in due, il ricordo della sofferenza provata, che destabilizzò chiunque.

Al mondo, esistono persone che vivono con la fortuna a portata di mano, quando, in base ai loro comportamenti, meriterebbero tutt'altro, e persone che invece, lottano e combattono per sopravvivere. Per respirare con cautela, per rialzarsi e camminare come se non fosse successo nulla. Per vivere come se nulla fosse cambiato. E queste persone meritavano di vivere con la fortuna a portata di mano.

Gianni e Mia erano quel tipo di gente: avevano sofferto molto e nonostante ciò, non provavano odio, ne disprezzo. Ma sarebbero stati capaci di osservare chiunque non avesse appoggiato le loro decisioni con uno sguardo che avrebbe messo loro paura. Sarebbero stati capaci di lottare mano nella mano, ma senza riuscire a sistemare il loro cuore.

In quel momento, in quella stanza completamente bianca, c'erano due ragazzi in attesa della speranza e della loro rinascita. Mia a malapena riusciva a reggersi e a capire dove si trovasse, ma era abbastanza attiva per capire quello che stava succedendo. Mentre Gianni aveva a malapena l'ossigeno sufficente per respirare, e battiti per sopravvivere.

Ma tutto quello venne rinsavito non appena i due sentirono il primo vagitto del loro piccolo bambino: l'avevano rianimato.

I due avevano le lacrime agli occhi, entrambi nello stesso momento avevano respirato profondamente, quasi come se si fossero appena ripresi da una malattia senza via d'uscita. Quasi come se si fossero disintossicati da una di quelle droghe potenti. Finalmente Mia ebbe il suo bambino fra le braccia e le parole del medico rassicurarono sia lei che Gianni.

«È stato questione di un attimo, non è la prima volta che capita. Siamo riusciti ad intervenire in fretta. Vostro figlio sta bene»

La felicità si poteva intravedere anche a miglia di distanza. Si poteva sentire anche rimanendo lontano dalla coppia. Si poteva percepire attraverso i loro sguardi che si dicevano tutto quello che a parole non riuscivano a dirsi.

«Kıvanç» sussurrò Gianni, baciando la guancia di Mia. La sua donna si girò verso di lui, sentendo la manina del piccolo giocare col mignolo. I suoi occhi si puntarono poi verso suo papà, che lo guardava come si guardano i doni più belli.

Subito dopo chiuse gli occhi, ma i genitori non lo persero di vista. Era talmente bello da fare paura.

«Kıvanç? È il suo nome?»

«Si, Kıvanç vuol dire orgoglio. È un nome turco, e l'ho sentito spesso quando siamo passati dalla Turchia. Significa orgoglio, e lui è il nostro orgoglio, Mia, la nostra rinascita. È stato forte, quante volte abbiamo rischiato di perderlo? Quante volte quel distacco di placenta ci aveva messo paura? Quante volte le voci del quartiere o le parole dei tuoi genitori ci avevano ferito così come avevano ferito lui? Kıvanç è qualcosa di magico, ed è nostro figlio Mia. Il frutto del nostro amore, l'unico che non oserà mai farci pentire di un solo momento passato insieme a lui»

Mia annuì letteralmente con occhi gonfi dal pianto. Quella giornata, nonostante cominciata in maniera del tutto sbagliata, procedeva in maniera diversa. Profonda.

L'avrebbero ricordata per tutta la vita. Kıvanç era la copia esatta del suo papà. Mia si perdeva nel suo sguardo, in quel profumo da neonato riconosceva l'essenza di quella fragranza che aveva unito lui e Mia. In quella bocca così piccola riconosceva le labbra del suo futuro marito.

L'unico dettaglio che aveva simile alla sua mamma era il suo nasino, minuscolo ma incredibilmente uguale a quello di Mia. Gianninon perse tempo a posare la bocca su di esso e rimanerci su. Kıvanç, nato prematuro, doveva rimanere per poco tempo in incubatrice, affinché potesse riprendersi del tutto. Doveva pesare regolarmente, ma anche se non rispettava il giusto, era come se fosse perfettamente in salute. Ma l'apparenza non poteva mai essere come sembrava realmente.

Passarono due settimane da quel momento: sia Mia che Gianni non fecero altro che passare in ospedale nottate su nottate, nonostante avessero bisogno di riposo. Soprattutto Mia, rimasta in ospedale per tre giorni e rilasciata dopo poco. Ma ogni tre ore poteva raggiungere il suo piccolo Kıvanç per poterlo guardare o anche solo allattare.

Il bambino si riprese alla grande: finalmente poteva mettere piede fuori da quell'ospedale, per la felicità dei suoi genitori e della sua. Mia e Gianni avvisarono Gaia e Federico, Carlo e Roberta, dell'arrivo di Kıvanç, e spiegarono loro il significato di quel nome, per nulla diffuso a New York.

Ciò che la coppia non si aspettò però, fu che un giorno in particolare, dopo una settimana dal rilascio del piccolo, si trovarono fuori alla loro porta la famiglia di Mia. La prima cosa che lei si chiese era come fosse possibile che i suoi genitori fossero venuti a conoscenza della nascita, ma poi una sola risposta era quella più scontata.

«Gaia e Federico» disse Gianni all'orecchio di Mia, capendo alla lettera quello che la sua donna stesse pensando. I due minacciarono con lo sguardo i loro fratelli che prontamente si scusarono.

«Mia, Gianni, non abbiamo potuto fare altro che affrontare con loro l'argomento. Insomma, si tratta dei nonni materni. Nonostante quello che è successo, loro vogliono conoscere il loro bellissimo nipote, così come lo vogliamo io e Federico» Seguì un attimo di silenzio, poi fu Sanem a prendere la parola.

«Considerando che per i miei genitori io sia una delusione, lo è anche mio figlio. Quindi per me, loro possono benissimo tornare da dove sono venuti»

«Ma Mia...»

«No mamma! No, non ti azzardare a pronunciare nemmeno una parola. Otto mesi di gravidanza passati nella sofferenza, distacchi di placenta che mi hanno portato, anzi, che ci hanno portato, a pensare al peggio. E al posto di avere i miei genitori al mio fianco indovinate chi ho avuto? Nessuno, ad eccezione di Gianni. Nel periodo che doveva essere il più bello della mia esistenza, avrei dovuto avere un minimo consenso da parte vostra. Un piccolo cenno di felicità, non avrei mai voluto e dovuto sentirvi dire che sono la delusione della famiglia per delle piccole chiacchere che non hanno senso! Una volta messo piede fuori dal quartiere mi sarei aspettata una vostra chiamata, un vostro "come stai?" e invece nulla. Zero assoluto. Al tempo non potevo agitarmi, non potevo urlare perché la vita di mio figlio veniva prima di ogni altra cosa al mondo. Ma ora che ho partorito, non c'è più nessuno che può fermarmi ed io voglio dirvi quello che dovevo dirvi un tempo. Non avete nessun diritto di presentarvi qui, come se niente fosse. Non siete nessuno per conoscere mio figlio, e per me potete tornare a New York»

Finalmente Mia aveva buttato fuori che da troppo tempo aveva dentro. Quel peso sulle spalle che portava non l'alleggeriva per nulla. Ma in quel momento riprese a respirare e a sentirsi meglio. Lasciò ognuno di loro sulla soglia della porta, mentre lei raggiunse suo figlio che era scoppiato a piangere, probabilmente dopo aver sentito la sua mamma urlare.

𝐼𝑙 𝑀𝑖𝑜 𝑅𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑁𝑒𝑖 𝑇𝑢𝑜𝑖 𝑂𝑐𝑐ℎ𝑖.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora