I fiori

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Avevo bisogno di un punto immune. Di un buco dello Jouthermen dove ricavare un’oasi vaccinata dalle più gravi infezioni dell’anima. Dove poter sbatterci dentro i miei tormenti. 
Dove poter pensare ad un modo per fermare Fenrir. Non è semplice ricavare il tuo spazio in un luogo ostile, un ambiente inospitale e in mezzo ad individui che sul tuo spazio ci pisciano sopra. Tu cerca. Cerca con ostinazione. Immergiti in una minuziosa esplorazione. E il tuo guscio, la tua tana, il punto perfetto dove poter stare con te e dar adito ad ogni tua profonda emozione lo troverai sempre. Che sia sdraiato alla foce di un fiume, che sia immerso tra alberi e fiori, o che sia accovacciato in un armadio chiuso, tu scova il tuo punte incolume al resto. 
Il mio lo trovai. Ci volle un po' di tempo ma ci riuscii. Le zampe palmate, la schiena ricurva, l’olfatto sviluppato… non erano solo caratteristiche chi mi imbruttivano. A qualcosa dovevano pur servire. E nello Jouthermen si rivelarono fondamentali. Nei percorsi già realizzati che collegavano la piazza alle tane di ciascuno, che collegavano le tane alla città rudimentale, la città alle prigioni e altro ancora, io ci camminavo ogni giorno in mezzo agli altri bapu ricercando in segreto il punto migliore.
Annusando. Toccando. Allontanandomi furtivo a scavare cunicoli e strette gallerie. Fin quando la ricerca terminò. Un angolo di terra dall’odore fresco, fertile, soffice al tatto. Proprio sopra il centro dello Jouthermen. Da lì avrei tenuto sotto osservazione ogni movimento. Era il punto giusto. Perfetto. Dovevo solo realizzare le mia opera. E una pala di terra dopo l’altra, con queste grosse mani mi ricavai la mia boccia di vetro nel mare di squali.
Se l’aria la senti pesante, angosciosa, troppo riluttante per continuare a librarti indifferente, comprendi che è arrivato il momento di svuotare i polmoni e di ricaricarli con ossigeno diverso. Non puoi dissetare un fiore con aceto, non puoi far guizzare un pesce nel petrolio, allo stesso modo non puoi colmare i vuoti di un uomo con il piombo. Senti un macigno sullo stomaco che rallenta anche i tuoi passi. Io di piombo ne inghiottivo a straforo. Troppo. Quando sei al limite pure la pelle attaccata alle ossa ha il peso di un’ingombrante pelliccia. Te la strapperesti via a pezzi. Tra l’angoscia e l’oblio, un sottile orizzonte che imparai a riconoscere presto. Appena sentivo d’essere ad un passo da un’irreversibile pazzia dovevo sfuggire allo Jouthermen. Subito. Andavo a rifugiarmi nel mio covo protetto. La mia topaia curatrice. Una volta lì, vomitavo fuori tutta la pesantezza. Tornavo ad essere me. Almeno nella coscienza, per qualche ora tornavo ad essere Matt Violet. 
Ma anche nella mia conchiglia chiusa mi sentivo inanime. Svuotato di ogni più bella emozione. Non era il sole a mancarmi, né il vento sul viso, né il profumo dei fiori e la brezza del mare. Era l’assenza di qualcosa di molto più importante a rendermi insignificante: L’amore. L’amore di una madre che ti culla e ti vizia. L’amore di una sorella che ti stringe e ti rimprovera. L’amore di tutte le donne, quello che ne traspara da ogni carezza, quello che ne esce dalle labbra, quello di cui sono fatte.
E poi una notte, mentre tutti dormivamo, i miei occhi si spalancarono in una coscienza improvvisa. Sapevo dov’erano. Sapevo come trovarle.  Lo sapevo e non so come.
Percorsi quella strada come se l’avessi disegnata io. Scavando e scalando, affannato e sudato, ma per niente stanco.
Oltrepassai le membra dello Jouthermen, facendomi largo tra le claustrofobiche viscere del ventre interrato, con le braccia, con le ginocchia, con forza, con coraggio. Il terreno secco e polveroso mi entrava nella bocca, nelle orecchie, dappertutto. Spinta dopo spinta, avanzavo esausto ma caparbio.  Ce la devo fare.  Anche le tenebre si possono illuminare, sii tu stesso la tua torcia come io fui la mia. Mi spinsi verso l’alto concentrando tutte le energie, scavando via il terriccio di quel tratto umido e appiccicoso. Lo scorticavo lontano dal mio muso con le unghie incastrate tra i nervi dello Jouthermen come artigli bramosi di uccidere. Ma non era morte che cercavo, vita volevo. E l’agonniato momento arrivò. Venni alla luce. Il buco nero mi aveva partorito. L’entroterra mi sputò fuori come una mollica di pane indigesta. Le mie braccia spalancate al mondo. Finalmente ossigeno. Obbligai le narici ad un lungo e sospirato respiro, di quelli che fai dopo aver raggiunto il traguardo rincorso da tempo. I miei occhi fissi al cielo, già il cielo, da quanto non mi sentivo così piccolo nella sua infinità. Un immenso, profondo e romantico cielo sfumato di rosa e graffiato di blu, da cui cadevano luccicanti gocce di pioggia, sottili, leggiadre come corde di un’arpa. Credimi, non puoi capire neppure mettendoci tutta la buona volontà cosa significa sentire nuovamente vita scorrerti addosso e dentro. È un brivido emozionale che ti rimette in moto la circolazione. In quel momento sentii il sangue nelle vene riprendere il giusto percorso, e ridevo, ridevo col sorriso largamente soddisfatto, meravigliato ed entusiasta come un bimbo felice che assiste per la prima volta a quella magia naturalmente straordinaria. La pioggia di Violet mi dissetò, mi lavò il viso, mi battezzò. Ma era solo l’inizio. Le ultime stelle scomparvero alla luce del sole. Dovevo cercare le donne. 

UPSIDE DOWN Vol 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora