Le tre domande

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Doveva esserci almeno qualcuno per cui sperare. Me lo auguravo. Ci speravo. Dovevo comunque provarci. Ma come scindere in maniera rapida ma attendibile bapu da potenziali uomini? Perduti da salvabili? “ Pensa stolto, pensa…”  rintanato nel mio incavo ovattato consumavo le piante dei piedi in un andirivieni snervante. Mi ero assegnato un compito per niente facile, e io non sono Dio. Un miserabile, forse un sognatore. Oppure un ingenuo che si aspetta troppo dal niente. Sta il fatto che a furia di rovellarmi a pensare mi si sarebbero staccati i ricci uno per volta se solo li avessi avuti ancora in testa. “ Rifletti, ragiona, ci sarà un modo…”,  il sudore colava dalla mia fronte come cascate del niagara. Ma nessuna, nessun idea alternativa mi parve all’altezza di sostituire la più semplice tra tutte. Forse era stata proprio la prima ad attraversarmi il cervello rapida come il fascio di un laser. Stavolta bloccai la sua luce pulsante in mezzo alle tempie, non potevo farmela sfuggire. Portai l’attenzione su una delle innumerevoli radici intrecciate, e con un sasso tagliente misi fine alla crisi inventiva. Sviscerai quell’idea sull’improvvisata lavagna legnosa. Ed incisi in preda all’euforia tutto lo sfogo. Tre le domande intaccate:

1. Perché siamo nello Jouthermen?
2. Cosa faresti una volta su Violet?
3. Tu cosa sei?

Erano quelle l’unica soluzione.
Spillai in mente i miei dubbi al breve test e vestii i sedicenti panni di un improbabile detective.
In qualsiasi momento della giornata, nei punti più consueti dello Jouthermen sottoponevo gli aberranti compaesani all’esame coscienzioso. Lanciavo quelle domande d’improvviso, per caso, incastrandole nei più svariati discorsi. La forma cambiava, ma la sostanza ne restava immutata.

«Ma ti chiedi mai perché Dike ci abbia rinchiusi nello Jouthermen?» chiesi a Meveris durante il nostro turno al pollaio.
«Perché Dike è una donna e in quanto tale è perfida, spietata…» considerò continuando a raccogliere le uova, parlava senza mai sollevare la schiena, piegato a terra, girava solo il busto dal nido al cesto, «voleva vederci in ginocchio, come tutte quelle altre troie… e come vedi ci è riuscita» chiuse evidenziando la sua posizione supina.
«Solo perché io non ero ancora nato…» ribattette affannato Salomone rincorrendo una gallina, «perché se io ci fossi stato…» afferrò la pennuta, «se c’ero io quando Dike scese sulla Terra… l’avrei rispedita su Venere a calci in culo!» esclamò sarcastico attenuando il fiatone, e tirò il collo alla gallina.

«La leggenda narra che la dea Dike tornò sulla Terra invocata da una preghiera e che, in soccorso delle donne, uccise gli uomini in un’apocalisse inenarrabile… ma perché non tutti, altri uomini invece vennero risparmiati ed esiliati nelle cavità del mondo… secondo te perché lo ha fatto, perché siamo nello Jouthermen?» interrogai un altro bapu durante una partita a scacchi.
«Semplice, perché Dike e le inviolate non avevano le palle di spedirci tutti all’Inferno» sintetizzò l’avversario, e con una mossa mi fece scacco matto.

«C’è un punto che non mi torna nella storia tramandata dagli avi… se Dike ci riteneva tutti fautori del male del mondo perché non ha sterminato anche l’ultimo degli uomini?» chiesi insaponandomi sotto una delle docce.
«Perché Dike sapeva bene che prima o poi le donne avrebbero avuto bisogno di noi…», «e di questo!» sghignazzò l’altro insaponato esasperando l’allusivo e volgare movimento di bacino che sappiamo. 
Tutti risero. Pure a me scappò da ridere, ma intanto la delusione accresceva. Il tempo scorreva funesto e io, io cercavo disperato i miei commilitoni.

 
Seduto al tavolo, in mezzo a tutti i commensali proseguii con l’esame.
«Avete sentito, si dice in giro che Fenrir ha trovato il modo per condurci tutti su Violet, se fosse vero… se finalmente lasciassimo questo buco per sempre… cosa fareste su Violet? Come sarebbe la nostra vita lì?», mi portai il pezzo di pane alla bocca e continuai il pasto lasciando che i mormorii tra loro facessero il resto. Pregavo che a parte Tyr, e pochi esemplari, potesse esserci ancora qualche altra anima buona da poter arruolare nel mio plotone di mezzi bapu.
Pochi minuti di silenzio, poi arrivarono le prime risposte:
«Ahhh…io già mi vedo proprietario di un albergo mozzafiato con vista sull’oceano», Claris il rettiliano chiuse gli occhi e continuò il racconto del suo sogno immaginario «giacca e papillon… starei bene col papillon, la segretaria tutta curve che mi serve il caffè… il viavai di gente che mi gonfia il portafogli… e poi la stanza, quella mia personale… la più bella tra tutte, dove sul materasso a quattro piazze faccio firmare contratti»
«Tu deliri!» sogghignò qualcuno infondo alla sala «Stai proprio delirando». Era stato il più giovane tra i presenti a riportare Claris alla realtà.
«Non delirio, pretendo. Mi approprierei semplicemente di tutto ciò di cui sono stato privato» 
«È il cervello quello che ti manca» sintetizzò il giovane bapu, e tracannò il boccale di birra.
«Io mi farei il guardaroba nuovo, chissà quanti tipi di pellicce riuscirei a realizzare là su Violet…» aggiunse uno al suo stesso tavolo arruffandosi tra le dita il vaporoso smanicato.
«Io starei comodamente spaparanzato al trono del mio impero… sai, forse lì le cose cambierebbero, e magari… chissà potrebbe esserci qualcun altro a comandare» proseguì un terzo tranciando tra le zanne la bistecca.
«Già, e perché tu?» controbattette in malo modo quello che gli stava seduto affianco, «Io sarei un sovrano eccezionale» considerò straripante di presunzione.
«Ha ha ha!» sbottò un altro a qualche tavolo di distanza, «Sentite un po chi parla, ma se lo sanno tutti che tu non sai decidere manco per il tuo culo!» ironizzò in una risata sguaiata.
«Che vuoi dire!?», scattò dalla seduta.
«Che non sei buono a niente, io invece ergerei un regno potente, potentissimo!»
«Vieni qui e fammi vedere dov’è che arriva questa tua potenza, se hai coraggio!» 
«Calma, calma, su Violet ci sarà sicuramente spazio per più di un re. Decideremo, litigheremo al momento opportuno» intervenne un altro smorzando la tensione, «e adesso brindiamo!», afferrò la bottiglia di spumante dal tavolo e l’innalzò «all’Era dei forti! All’Era dei bapu!» gridò. Lasciò colare la bottiglia già stappata, dall’alto nelle sue fauci spalancate, rivoli alcolici gli scivolavano dal mento al collo.
«Jahut! Jahut!» esclamarono in coro. Brocche gocciolanti, bicchieri mezzi pieni, bottiglie quasi vuote…ognuno sollevò il suo calice e tutti si unirono al brindisi.

Un’ultima domanda a mia disposizione. Un’unica chance per disseppellire tra i defunti d’anima, quelli ancora incastrati nel limbo. Può apparirti la più banale, anche stupida se vogliamo, eppur tutt’oggi è lo stesso quesito per cui tremo d’incertezza… e ogni parola mi si annoda alla gola. “Cosa sei tu?”, In tre, quattro giorni inchiodai a tale interrogativo quanti più potessi, tutti quelli che mi passavano a tiro, e di risposte , caro mio, ne ebbi a centinaia. Qualcuna scontata, qualcun’altra spiazzante, e certe… certe da gelarti il sangue.

«Cosa sei tu?»
«Non lo vedi tu che puoi?! Sono un bapu».

«Cosa sei tu?»
«Una creatura sotterranea».

«Cosa sei tu?»
«Maximus, bapu rettiliano»
«Tu?»
«Io invece sono un talpide come te»
«E tu, là dietro… tu cosa sei?»
«Il tuo assassino, se non la smetti di rompere con queste domande!!!» mi zittì con tono minaccioso.

«Cosa sei tu?»
«Un promettente cacciatore, diventerò il migliore!».

«Cosa sei tu?»
«Un uomo che costretto all’esistenza in queste catacombe è mutato in quel che vedi»
«Io sono un mostro, un’orribile creatura… seviziato nel corpo e nella mente dal macabro desiderio di quelle bastarde! E la pagheranno per questo. Eccome se la pagheranno!»

«Cosa sei tu?»
«Sono il nemico di chi decido. Sono il padrone di ciò che voglio».

Un’estenuante ricerca che ad ogni risposta leniva pesantemente le buone aspettative.
Non c’è peggior male che quello del cuore. Non c’è cura o soluzione per un disabile d’amore. Appare conforme alla massa, la sua malattia non è visibile a occhio nudo, né percepibile facilmente. È l’infezione che non ha vaccino. Chi ne è affetto è perfido, meschino. Non ti lascia scampo. Ti mostra il sorriso ma in mente sua ti ha già divorato.
Quelli erano tutti carcerati incoscienti. Detenuti che scontano la loro pena segnando tacche alle pareti nell’intrepida pazienza che la cella si riapra per ripetere gli stessi reati e magari, perché no, ampliare il curriculum infernale nel peggiore dei modi. Per questi qui lo Jouthermen non era una punizione e una valvola di redenzione. Era l’incubatrice del male, il forno che fa lievitare la nera crudeltà.
Il capo calato nella fredda delusione.  Nessuno, non c’è più nessuno per cui sperare.  Scoraggiato. Depresso. Un gambero che cammina verso il mare consapevole che quella che sta calpestando contromano non è spiaggia, ma deserto. 
E poi parole diverse riecheggiarono nell’aria. Parole si susseguirono una all’altra soffiando nel mio cuore la brezza che aspettavo. Opinioni, idee, semplici pensieri divennero l’arcobaleno nel cielo sporco di tempesta.
«Cosa sei tu?»
«Cosa? Forse vuoi dire “chi”, chi sono io?»
«Già» ripresi con gli occhi luccicanti d’emozione, «chi sei tu?»
«Io sono un uomo perduto da bapu vestito. Una creatura che non sa più che strada fare».

 
«Chi sei tu?» domandai ad un altro entusiasta.
«Sono ciò che voglio essere e chi voglio che io sia».

«E tu chi sei?» chiesi sempre più emozionato.
«Il prigioniero dei miei stessi mali».

«Chi sei tu?»
«Un numero. Siamo tutti un numero tra i bapu, è l’essenza delle nostre azioni che farà di ognuno l’unico».
Allora capii, compresi che non era stato tutto vano. La mia ricerca aveva dato i suoi frutti. 

UPSIDE DOWN Vol 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora