L'intuito

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Me ne stavo lì in disparte come un nano da giardino, guardavo inerme margherite bianche sporcarsi di sangue. Imploravo, giorno dopo giorno, e giorno dopo giorno ancora che l’ininterrotto pianto delle fragili creature lavasse via quel rosso… immensamente bello se d’amore parla, eppur tanto crudele se è dal male che vien generato.
Un miracolo le ha risvegliate in quell’ambizioso desiderio. Finalmente vive. Depurate dal persistente dolore. Rinate sotto il sole di un tempo di bene che neppure nella più incantevole delle favole potresti mai ritrovare. Una preghiera sincera ha donato alle donne ciò che meritavano da sempre. L’Era di Violet. Un’Era di pace, un’Era Migliore, un’Era libera da ogni violenza e da tutti quelli come te. Un vano spreco di energie è quello a cui sto andando incontro, ma voglio provarci ugualmente. Chiamalo come vuoi: masochismo, compassione, illusione. Io la chiamo speranza.
Lo so come sei fatto… che ti credi, ci somigliamo almeno per tre quarti. Non sono perfetto. Non potrei mai abbinare alla mia persona l’aggettivo “perfetto”. Anche perché se lo facessi la realtà dei fatti mi sputerebbe in faccia. Notti brave in discoteca, sempre un’haineken di troppo, eccessi carnali, piaceri materiali e vaffanculo illimitati. Almeno sei dei sette vizi capitali li ho centrati anche tutti in una volta sola. No, non di certo. La perfezione è lontana da me come lo spazio dall’abisso. È l’intuizione, è quella che mi ha salvato.
Ad un certo punto della mia vita ho intuito che superare il limite non sempre è un traguardo a cui ambire. Ce ne sono certi che non devono essere superati. Se scavalchi quella linea inesistente sprofondi in un pozzo senza fine. Cancella i “ma”, e pure i “forse”. È quello che accadrà. Nero. Freddo. Elastico come il ventre di un serpente, il pozzo ti ingoierà. E insieme a te si nutrirà di tutto ciò che ti circonda: Persone, amori, ricordi, passioni. Colpevoli solo d’averti teso la mano per salvarti, o dannatamente sfortunati poiché inciampati al tuo passaggio. Quel buio orizzonte da non superare lo devi tracciare tu stesso. Lo so, non è facile. Anche per me è stato alquanto complicato. Ma se reprimi gli istinti cattivi, se ossigeni i sogni, e tappi la bocca all’egoistica avidità, ti si apriranno gli occhi dell’anima e vedrai che quelle linee sono già tratteggiate. Ti basterà solo calcarci sopra una bella retta ben marcata. Decisa. Senza intoppi. Scivola dritto e incidi quel cazzo di limite!
Io sono riuscito a tracciare quattro semplici linee. Sono poche. Però fondamentali. Non sbuffare e prendi appunti.


LIMITE NUMERO 1

Ero solo un liceale. Penultimo banco, quello che dava sul cortile. Me lo dividevo con Jack, un ragazzone arrivato da Palermo. S’era trasferito a casa della nonna subito dopo il divorzio dei suoi. “Resta con me, no vieni con me… io mi so scassato la minchia, mi so fatti i bagagli e che si scannino tra di loro!” mi rivelò alle prime confidenze.
Un piercing al naso e uno incastonato nella cartilagine dell’orecchio sinistro legati l’un l’altro da una catenina che di tanto in tanto gli oscillava sull’affossata guancia. Dieci anelli tribali, uno per ogni dito. Una spumeggiante zazzera ossigenata in mezzo alla testa rasata per il resto, faceva a pugni con l’olivastra carnagione. Dietro alla nuca un tattoo di capelli spinosi ritraeva una svastica, che seppur velata agli altri dalla candeggiata coda riversa, io non potevo non vederla. “ Questo è uno da starci alla larga!” pensai di primo acchitto  “Sarà sicuramente fuggito da un riformatorio criminale”.
Niente di più sbagliato. Avrei capito presto che assieme al banco verde consumato c’era ben altro a legarci. In lui avrei trovato un amico fidato e un alleato di vizi e di virtù.
Quel giorno cadeva di venerdì e ogni venerdì all’ultim’ora c’era la svagante lezione di educazione fisica. I tre idioti della 4C erano mesi che avevano preso di mira Sergio. Li avevamo visti tutti. Spallate in corridoio, ghigni crudeli. Sergio ormai si ritrovava piselli disegnati dappertutto: sul banco, sulla sedia, all’armadietto, sullo zaino. Che poi non ho mai capito il senso di delineare cazzi ovunque, ma ho una mia supposizione a riguardo:Gli improvvisati fallici artisti sono aimé privi di tale attributo e ne riproducono l’illusoria grandezza semplicemente per impararne la forma. Ho ragione, vero?! Mah! …il fatto sta che quel giorno la cosa degenerò. Diciamo che ogni cosa sbagliata che si genera finisce poi col degenerare.
Stavamo in palestra. Una partita a pallone. Noi della 2D contro la 4C. Sergio in difesa, io e Jack giocavamo d’attacco.
«Sergiuccio… guarda un po che bella palla ti tiro adesso!» sfottette il primo imbecille.
«Sergiuccia mia… sono meglio due di palle, giusto? Occhio che arriva la seconda!!!», l’altro idiota la sparò cattiva come una palla di cannone.
I richiami dell’insegnante li obbligarono al silenzio.
Servì a poco. Ripresero il vomitevole gioco negli spogliatoi.
Dieci docce a destra, dieci a sinistra. Chi si stava rivestendo, e chi lavava via il sudore.
«Sergiuccia mi è caduto il sapone, posso riprenderlo… o ci stai tu dietro?»
«Ha ha ha ha ha…»
«Ha ha ha ha ha…»
Solo i tre stronzi ridevano. Qualcuno li chiamerebbe bulli ma il termine stronzo lo vedo più adatto. Noi altri, più di venti ragazzi, tutti in silenzio. Non sapevamo che dire, o a mancarci era solo la spina dorsale.
«Sergiuccia… che dici, la vuoi un po di compagnia?» continuò lo stronzo più stronzo dei tre.
Manco il tempo di dare il tono interrogativo all’ennesima merdosa frecciatina, che Sergio se li ritrovò nella doccia. La mia cabina di fronte alla sua. Le mie gambe tremavano come foglie. E negli occhi non era il sapone quello che mi bruciava. Nella mia testa mille pensieri. Nei fatti, niente.
D’un tratto, come un leone affamato che scappa dalla gabbia, un’ombra si scaraventò sui tre. Li tirò via come si fa con vecchi stracci da un armadio. Era Jack.
Un destro. Una ginocchiata negli stinchi. Una testata in pieno volto. E forse qualche mossa in più, e li stese sulle fredde mattonelle schizzando acqua dolce dappertutto.
«Stai bene?» chiese subito dopo rivolto a Sergio.
«Sì… sì…» gli riuscì a sillabare. Raggomitolato sotto il getto caldo stringeva la sua testa tra le mani e ondeggiava il busto avanti e indietro come un tossico in crisi d’astinenza. Era la pace quella che gli mancava, solo quella.
Jack l’aiutò a rialzarsi.
«Finisci pure la tua doccia. Questi poveri imbecilli non ti disturberanno più!» lo rassicurò richiudendogli la porta della cabina.
«MA A TE CHE CAZZO IMPORTA???» gridò uno degli idioti asciugandosi il rivolo di sangue dal labbro.
«Tu e le tue bamboline provate un’altra volta a guardarlo solamente a Sergio, e ve lo faccio vedere io che minchia mi importa!!!» ruggì Jack minaccioso.
Qualche farfugliamento incomprensibile del branco di pecore e in poco si dileguarono.

UPSIDE DOWN Vol 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora