Il perdono

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  3 ANNI DOPO... 

 
  Apri –tum-chiudi; apri–tum-chiudi; apri-tum-chiudi. Decimi di secondo. Apri-tum-chiudi; apri-tum-chiudi. Le cinque dita si spalancano-la sfera azzurra cade, tocca il suolo-torna.  Il palmo l’accoglie nuovamente e nuovamente la lascia andare. La mia attenzione completamente assorta dai muscoli che si contraggono, le vene, i nervi che compaiono e scompaiono in una semplice presa. Apri-tum-chiudi. Diventa un gesto automatico, ad un certo punto sembra quasi che non sia più tu a controllare la tua mano. Che essa abbia una vita propria. Nessuna cuffia nelle orecchie, né gomma da masticare spostata tra i denti, il mio scacciapensieri è da sempre una palla che rimbalza.  Oggi e ieri.  Quando non c’erano amici a farmi compagnia  nei lunghi tragitti, dividevo il mio cammino con la sfera rimbalzante. Apri-tum-chiudi. Apri-tum-chiudi, e con la palla, poggiato ad una radice del nostro covo, anche la mente rimbalzò indietro nei ricordi:  Apri-tum… uno sdrucciolo sulla via ne deviò la traiettoria. Schizzata giù dal marciapiede. Nel prato. La cerco.  Miagolii addolciscono il silenzio. Sembra il pianto di un neonato. La palla è lì, accanto una cucciolata di gattini. Sei. Memphy, Tigro, Silvestro, Milly, Joy e Luna.  Avranno avuto sì o no quaranta giorni quando li trovai. Soli, la mamma s’era allontanata, non c’era, forse era proprio quella sul ciglio della strada rimasta investita da qualche auto in corsa. Così indifesi. Erano diventati  la mia indiscussa fermata prima di andare da qualsiasi parte e prima di rientrare a casa. Tutti i giorni.  Deriso dai ragazzi del quartiere, inscalfito superavo le insensate beffe e tornavo ad essere la balia di quei gatti. Preparati in polvere della farmacia, bottigliette per ognuno di loro. Mi sbavavano latte su scarpe e vestiti in una gioia che non ha descrizioni. Quegli occhietti così vispi… le loro zampette vellutate timbri di dolcezza sulla pelle.    
Stavo tornando dai sei batuffoli, quando  con le loro bici mi tagliarono la via.  
  “Matt ma non si comporta così una brava mammina… non lascia incustoditi i suoi marmocchi”, due, tre battiti di mani e una nuvola di polvere s’alzò nell’aria. Spinsero i piedi sui pedali e mi lasciarono nello sgomento. Capii subito cos’era successo. Corsi al giardino. Ciuffi d’erba sparsi qua e là, prato secco per il resto. Due alberi e cespugli impagliati. Il prato era vasto. Troppo grande per trovare sei gattini. 
«Skìnrir! Skìnrir!», Milo mi  riportò dalla lesiva memoria , «Ti stavo chiamando, non mi hai sentito?»
Fermai la sfera blu nella mano.
  « Li hanno uccisi. Li uccisero tutti »
«Chi? Ma di cosa stai parlando?»
«Un tempo avevo dei gatti, non lo so se tu ne abbia mai visto uno»
«No, qua ci stanno i  l amis», m’indicò col capo un topo  a strisce  col pelo arruffato che arricciava i baffi agli angoli del covo.
«Beh, forse sono un po più carini… io ne avevo sei,  abbandonati al loro destino decisi di prendermene cura,  ci ero molto affezionato. C’erano ragazzi che mi sfottevano per questo. Burle e ghigni ogni qual volta dedicavo attenzione a quegli esserini.  E poi un pomeriggio non avevano nient’altro di meglio da fare... di peggio da fare... e così si divertirono a far loro del male. E non li odio neppure sai. Per quanto mi sia sforzato ad odiarli non ci sono riuscito. Non è  stata  colpa loro. È per come sono stati  cresciuti , per come la famiglia e la comunità li ha  educati … se sono  divenuti  privi di  morale »
«Non dire così. Non è cosi!» scattò Milo in una reazione imprevista.
  
«E allora io? Io sono figlio di un reo padre, fratello di sfacciati maligni.» continuò acceso in volto «Sono stato svezzato a sangue e vendetta. Il principio che vige in questo immorale edificio è:  fai male e starai bene.  Eppure io sono ancora io.  Nessuna frusta d’indifferenza ha scalfito i miei ideali, e mai nessuno lo farà. No, Skìnrir. È colpa loro. Di ognuno di loro. Al di là dei maestri e dei dizionari inumani, di chi ti cresce e dove cresci, ci siamo noi. C’è quello che sei !
« Già »

«No già, è così Skìnrir!», le migliori lezioni di vita vengono da chi meno te lo aspetti. 
« Ma non  immaginavo,  non credevo possibile  che sarebbero stati capaci di tanto. Li sotterrarono vivi. Vivi.  Capisci?!  Così, senza un perché.  Volevo salvarli. Scavai, scavai con tutte le forze. Li volevo trovare. Non ci sono riuscito.  Non  ce l’ho fatta …  Non li ho trovati!»
«Hai trovato noi Skìnrir. Hai trovato noi!»
« Non vi ho ancora portati in salvo, però ». «Perché mi  stavi cercando ?»
« Ah, sì. Stanno arrivando anche gli altri, Plaus ci vuole tutti qui.  È  un’emergenza dice » 
« È più di un’emergenza »,  mi voltai ed era Plaus appena tornato d alla  perlustrazione, «È successo!» esclamò trasudando  p aura.
Alle spalle giunsero gli altri componenti de Lo Scudo.
  « È  successo cosa?»
«Il peggio!».

Ci congelammo tutti in gesti e parole.  S eguimmo  Plaus  senza manco respirare, fiatare alimentava l’ansia. Ogni nostro passo un rintocco di lancetta che cronometrava l’inizio della fine.
Era successo. La prigione non era più una prigione. Al centro dello Jouthermen, dalla cupola terrosa nostro cielo, fino al suolo: un fascio di luce. Un raggio poco ampio, ma intenso. Forte. Puntini di polvere si libravano attraverso brillando nella penombra come glitter d’argento. Chi si copriva gli occhi abbagliato. Chi si avvicinava perplesso.
Fenrir infilò una mano sotto quel getto di luce bloccandone il raggio in mezzo al palmo.
«Ne sento il calore,» esclamò il re oscuro «è sole. È sole!» «Lo ha fatto per davvero… la troia mi ha perdonato!», esplose nella sua risata demoniaca. 
E poi, come se quella colonna di calore fosse una doccia, ci si gettò sotto. Spalancò le sue fauci e lasciò che il raggio di sole gli attraversasse il corpo. Inghiottì la luce. Maledetto! Che sia maledetto fino al suo ultimo respiro! Il buio che mangia la luce, poi sputerà fuoco. Brucerà dentro dalla terra di Adamo fino all’inferno.
Ormai non potevamo far più niente. Niente. Assistemmo impotenti allo Jouthermen che si nutriva di inviolate. In balzi predatori ogni bapu sbucò su Violet trascinando una donna sotto il mondo. Un boccone dopo l’altro.

«La crosta di sangue secco non cadrà mai se ogni volta ci infili le unghie sotto e la strappi via. Le donne si illudono che basti un po' di zucchero mescolato alle lacrime per cicatrizzare ogni ferita, ma non è che fervida immaginazione. Il perdono è solo mezzo limone spremuto su un taglio profondo, ti disinfetta l’anima ma brucia, ti brucia fin dove la fiducia è stata sotterrata»
«E con questo che vuoi dire?»
«Niente… tanto oramai adesso non ha più importanza».

UPSIDE DOWN Vol 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora