Il torneo Supertrash

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  «Ho così fame che divorerei te in un sol boccone,» ironizzò Tyr camminando a passo svelto, «tu non c’hai fame?» domandò d'avanti al mio silenzio.
«Sì, sì». Certo sarebbe stato più semplice rallegrare l’appetito sapendo di star andando da “Pizza e sfizi da Pasquale”, ma non sapevo proprio con cos’è che avrei saziato lo stomaco. 
In una simil grotta di terriccio e radici annodate, io, Tyr e un esercito di abitanti sotterranei accomodati su sedili fatti di massicce radici tranciate, seduti intorno a grossi massi lisci in superficie che fungevano da tavoli. Ciotole di legno per tutti i commensali. D’un tratto ognuno prese la sua ciotolina, e in massa affluirono verso il fondo del primitivo ristorante.
«Coraggio, altrimenti resterai a pancia vuota!» con due spintoni Tyr mi incastrò in mezzo al branco di bapu. 
Tutti ammassati come per un buffet. Il problema sorse quando, facendomi largo tra loro, mi accorsi che non era proprio un buffet. Non c’era nessun lungo tavolo imbandito con bevande e leccornie varie. I primi della folla erano inginocchiati al suolo e ficcavano delle grosse canne di bambù nel terreno, e, come se queste fossero cannucce, vi tiravano con la bocca tutta l’aria. Si iniziò a sentire sotto il suolo tonfi che tuonavano nelle orecchie come stappi di bottiglie di spumante. E poi un tubo dopo l’altro straripò schiuma nera fatta di insetti e minuscoli invertebrati. Ed ogni bapu lì pronto a riempirsi la sua bella portata. Mi allontanai disgustato. Fu Skìnrir a servirmi il pasto tornando al tavolo anche con la mia ciotola di esserini brulicanti. In mezzo alla tavola invece di olio d’oliva e parmigiano reggiano, tranci di corteccia da cui, se agitate nel verso giusto, gocciolava un denso liquido giallastro. Condimento a cui nessuno degli affamati pareva rinunciarvi. Li imitai lasciando che un pezzo di corteccia facesse scorrere anche nel mio piatto prelibato il denso composto. Vermi, cocciniglie, invertebrati vari affaticarono i vivi movimenti incollandosi in quell’appiccicume. Un banchetto vomitevole ma che aimè non riuscii ad evitare. Sarà stato per l’appetito o forse perché oltre all’aspetto mi erano mutate anche le papille gustative, ma trangugiai la mia portata con piacere inaspettato. Morbidi tessuti e gusci croccanti, il retrogusto piccante delle formiche mixato a quello fresco come foglie dei coleotteri, il tutto condito dalla dolciastra crema. Mi guardi schifato, ma ti assicuro che non fu per niente male.
Ed è proprio mentre mangiavamo che vedemmo passare sanguinanti e mal ridotti Kiry Jones e tutti i grants, scortati a suon di frustate e bastonate in una marcia obbligata. Il loro passaggio suscitò vari commenti dell’animalesca plebaglia.
«Re Fenrir ha emanato per lui e tutti i mezzi busti l’esilio immediato dal regno» sogghignò soddisfatto uno in piedi sull’uscio dell’inesistente porta.
«È sempre stato una testa calda quel mini bapu!» considerò uno degli insettesi seduti al nostro tavolo.
«Meritava di perire dissanguato tra le fauci del nostro re!» proseguì un altro.
«Io li avrei fatti stritolare da Jormungandr mentre i suoi denti aguzzi li avvelenava uno ad uno!» commentò un altro furioso.
«Dopo le stronzate che ha detto dovrebbe baciare i piedi di Fenrir e ringraziarlo in ginocchio per avergli risparmiato la vita» aggiunse ancora il primo bapu.
«Non li ha uccisi solo perché Fenrir è troppo astuto,» questa volta era stato Tyr a parlare. Plasmò il suo pensiero usando aggettivi più consoni «cioè è troppo intelligente il nostro sovrano e sa bene che prima o poi le abilità creative dei grants potrebbero tornargli utili, infondo ogni cosa che ha senso in questo posto è opera loro, persino il suo stesso trono!»
«Ha ragione!» esclamò un bapu rospo a bocca piena «oggi non potremmo più vivere senza le loro creazioni» aggiunse mentre continuava lo yo-yo della sua lingua nel piatto e afferrava un boccone di insetto dopo l’altro.
«No, Plaus. Voi due vi sbagliate. Fenrir non li ha uccisi perché è troppo permissivo. Io li avrei schiacciati come formiche!» ribattette un ennesimo bapu. 
«Comunque a me non mancheranno tutte quelle facce sempre sorridenti, anche perché per mia fortuna non li ho mai visti!» ironizzò uno dei seguaci di Fenrir suscitando l’ilarità del popolo sotterraneo. 
Tutti ridevano malamente divertiti. Tranne me e qualcuno. Risate crudeli. Disarmanti. Sotto l’eco di quei ridolii un brivido freddo mi accapponava la pelle, come se gocce di ghiaccio scivolassero lungo la schiena calda di sole. Ridevano... Ridevano compiaciuti. Mi passavo le mani sulle orecchie per provare a smozzarne il suono fastidioso. Non era il modo con cui ridevano a darmi fastidio. Era il motivo, era il senso che non riuscivo a spiegarmi.  Forse dovrei unificarmi a loro e farmi pure io una grossa risata , ma non ne fui capace.
Non è stare sotto lo stesso tetto che ti fa sentire parte integrante di una famiglia, di un popolo, di una nazione. Sono i principi. Solo quelli uniscono davvero. 
Ci sarà sempre qualcuno che tenterà di imprimerti il suo modo di fare e di vedere le cose, e arriverà qualcun altro che cercherà di importi le sue idee. A volte ti assaliranno dubbi e incertezze. Non importa. Tu osserva e ascolta sempre. Impara a correggerti quando sei in errore, e prova a correggere gli altri quando te ne sarà data l’occasione. Ma i tuoi pensieri, quando sono puri, degni e rispettosi, legali l’un l’altro dalla testa al cuore e vedrai che quel nodo sarà intangibile da ogni attacco. A quel che sei non ci devi rinunciare mai. Io sono e sarò quel che sarei voluto essere da sempre. E forse è proprio per questo che invece della morte, mi è stata donata un’occasione di rivalsa: Lo Jouthermen. Compresi che non era tanto il luogo dove mi trovavo da temere, ma bensì con chi lo avrei condiviso.
Come pensi che passassi le mie giornate? Come immagini impiegassero il loro tempo un branco di stralci d’uomo? In modo diverso, eppure sempre uguale.
Ciascun giorno il sinonimo dell’altro. Potevi leggerlo con soggetto, predicato e complemento differenti. Il senso ne restava invariato. Una costante ricerca spasmodica al fine di affermare continuamente la propria superiorità. 
Uno dei tanti modi con cui la si poteva confermare era con il Supertrasch. Un gioco basato su tecnica e velocità che scoprii molto presto.

«Skìnrir hai preparato il tuo  Habent ?»
«Il mio che?»
«Oggi c’è il torneo di Supertrasch, non te lo sei scordato vero?», Tyr entrò avvicinandosi diretto al mio letto di terra e corteccia, infilò la sua mano nel terriccio polveroso e ne tirò fuori qualcosa, «Eccoti il tuo  habent !» esclamò porgendomi l’oggetto. 
Una lancia. Una lunga e affilata lancia di legno d’ulivo, tre frecce sulla punta, il manico di ossa. Le lame di pietra lavorata. Sulla prima lama, incise due iniziali puntate: F. K (Fenrir King).
Quando mi ritrovai nello Jouthermen, c’era poco più di niente. Non mi riferisco alla televisione, il videogame, l’ipad, una buona birra fresca di freezer, o una pizza appena sfornata. Anche. Ma io parlo proprio di cose a cui non penseresti mai di dovervi rinunciare. Cose che usavo quotidianamente nella vita terrestre in gesti tanto consueti al punto di non fare più caso alla loro importanza.
A parte il fuoco e qualche utensile creato con elevata maestria dai grants, nello Jouthermen non c’era un cazzo. Niente! Carta igienica. Ridi?! Prova tu per mesi a pulirti il culo con fogli di legno compensato. Mancava il sapone. Le docce, fredda acqua di condensa che scorreva giù dall’umidità delle radici. Spazzolino, dentifricio, asciugamani, posate. E la lista è ancora lunga. Mancava di tutto. E i bapu cosa avevano pensato di costruirsi? Armi.
Indossai a fascia la feretra col mio habent dietro la schiena, lì dove volevo che rimanesse, e seguii Tyr. 
Entrammo in uno squarcio. Buio. Stretto. Arido. Solo pochi punti di luce sparsi qua e là illuminavano sforzatamente l’ambiente. La via tumultuosa, e le pareti curve tutte tappezzate da lisce radici che parevano seguissero il nostro stesso percorso. Camminavamo piegati su gambe e braccia. A quattro zampe, come topi. Un odore intenso alleviò lo sforzo di quei movimenti costretti. Un profumo buono che ricordava un po quello della frutta secca. Di castagne, di noci, di pigne. Come quelle che raccoglievamo in autunno, io e mio padre. Ero solo un bambino ma i ricordi iniziano presto a scavarti la mente. Soprattutto i brutti. Soprattutto i belli. Ogni domenica di ottobre ci svegliavamo di buon’ora. Con il sole, con la pioggia. Era indifferente. Tanto il cielo dell’alba non è mai lo stesso che ti aspetta tutta la giornata. Come la vita, no?! Il primo a buttarsi giù dal letto ero sempre io. Sbadigliando, barcollando ancora assonnato, ma elettrizzato per quella piccola avventura. Tutto il necessario pronto in auto dalla sera prima. Al mattino solo espresso per papà, tazza di latte e orzo per me, ed eravamo pronti alla nostra giornata tra uomini.
L’emozione mi batteva nel petto fin dalla partenza. Lo stereo dell’auto sempre spento. “È sensazionale il silenzio che si assapora quando il mondo ancora dorme” mi ripeteva spesso mio padre. Ed io in quel silenzio, lasciavo scorrere i miei occhi lungo tutta la via. Una strada dolce, delicata. Disegnata in mezzo ad un paesaggio dipinto di blu, di verde e di giallo, che cambiava tonalità man mano dello schiarir del cielo. Un paio d’ore di viaggio. E poi, eccola lì la nostra montagna. Ne sentivi subito l’essenza. Fatta di ossigeno fresco, di orizzonti spettacolari, di campane suonanti dei greggi al pascolo, e degli zoccoli dei cavalli selvaggi. Avevamo scovato uno spezzone di terreno speciale. Spianato, ricco di alberi rigorosi. Il sole filtrava appena tra le foglie lanciando i suoi raggi come miracoli. Divenne il nostro punto di sempre. Scelto l’albero, papà saliva sullo scaletto, e io giù a fissarlo. Con due guantoni, vestendo similmente i panni di un giocatore di baseboll, mi tenevo lì pronto ad afferrare ogni frutto e a centrarlo nel cestino. Una volta a casa, prima di farne biscotti, dolci, o gustarci il loro sapore al più naturale possibile, dovevamo impegnarci in un duro lavoro di pulizia. Liberare le noci dall’epicarpo, i pinoli dalle pigne, e le castagne dal riccio. Era un divertimento anche quest’operazione. Ricordi indelebili, rovinati e sgualciti dalla cruda realtà che di lì a poco si rivelò. Anche il mio papà era l’involucro di qualcos’altro: di un egoista.
«L’ultimo torneo vinse Plaus,» riprese Tyr risvegliandomi dal salto indietro nel tempo, «è forte ma non invincibile» continuò camminando ancora «io mi sono allenato senza sosta. Ce la possiamo fare!», e poi d’un tratto si fermò.
Le radici che ricoprivano il cunicolo andavano a finire tutte in un ampio foro proprio a terra i nostri piedi. Tyr ci saltò dentro. Si aggrappò ad una delle liane penzolanti scivolando giù, fin quando non toccò con i piedi per terra.
«Su scendi!» mi intimò mentre lo guardavo perplesso affacciato in quella buca.
Cioè ma guarda un po, i coltelli sì e una scala manco per sogno!  Infastidito dalla situazione, e limitato da una certa goffaggine, replicai comunque i gesti di Tyr. E così mi calai verso quell’avventura inaspettata. 

UPSIDE DOWN Vol 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora