6 - La guerra

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«Zan, Zendegi, Azadi! Zan, Zendegi, Azadi! Zan, Zendegi, Azadi!» era un coro di mille voci che, però, arrivavano alla mente e al cuore di Karima come una sola.

Lei camminava per le vie della città a passo svelto, con espressione seria e risoluta.

Sapeva cosa doveva fare.

Sapeva per cosa doveva lottare.

La sua missione era una sola... toccava a lei adempiere al suo compito.

Più camminava più si avvicinava al momento fatidico.

Sapeva cosa fare.

«Zan, Zendegi, Azadi!» urlavano tutti, quelle tre parole erano le uniche cose che riusciva a sentire, ma non perché fossero le uniche dette, ma perché il suo motto, ormai, era quello.

Donna, vita, libertà.

Ovunque si voltasse c'era tanto dolore quanto energia. Erano, come lei, tutti stanchi, ma viste dal vivo, le rivolte erano ancora più strazianti che viste da una finestra attraverso uno spiffero.

Vedeva donne che venivano picchiate, le forze dell'ordine stavano solo causando disordine, cercavano di accerchiare i protestatori, ma senza troppo successo. Erano veramente tanti. E come fare, dunque, per riportare l'ordine? Sparavano. Sparavano proiettili e colpivano innocenti: non era il popolo che doveva essere fermato, ma era il governo.

«Karima...» era una voce flebile a chiamarla, una donna logora, si era appena strappata i capelli per protesta, aveva i vestiti sporchi e numerose ferite sul volto e sul cranio.

Non conosceva quella donna, ma, non appena ella pronunciò il suo nome, molte altre giovani si voltarono: la riconobbero, lei era In Prima Persona. La notizia del suo arresto a causa degli aeroplani di carta e della sua liberazione, nonostante la chiusura di ogni via di comunicazione, aveva fatto il giro dell'Iran. Il governo aveva affermato che la donna era stata liberata senza problemi, che le forze armate, in realtà, non uccidevano i prigionieri né li maltrattavano... era solo un'immagine che volevano dare, solo un modo per mettere a freno le accuse che ronzavano intorno ai loro capi. L'assenza di ulteriori aeroplani, però, venne vista dalla popolazione come un segno di morte: credere davvero a un ideale, porta a perseguirlo anche a costo della vita. Fu a quel punto che Karima comprese lo sbaglio.

Perché mi sono ritirata se volevo un cambiamento?

Quella donna misteriosa le sorrise e, non senza una lacrima di gioia, la abbracciò spiazzandola.

Solidarietà.

Tutte quelle persone contavano su di lei, contavano sulla sua forza e sulla sua determinazione, credevano nei suoi ideali e la vedevano come una paladina della giustizia scesa in terra dal cielo per salvarli e aiutarli.

Lo sarebbe stato.

Nessuno merita di morire per un proprio diritto.

«Ne usciremo mai?» le chiese Karima con sguardo preoccupato e non più sicuro.

«Per uscirne dobbiamo lottare» rispose allora la donna prendendo il suo hijab da una tasta e arrotolandolo su se stesso.

«Nessuno dovrebbe lottare o morire per questo. È un diritto che ci spetta»

«No, non lo è. Non è nella natura umana selvaggia vivere secondo dei diritti. Cosa fa un animale quando si trova vicino a un altro animale della stessa specie? Cerca di sovrastarlo, di ucciderlo per affermarsi o allearsi momentaneamente con lui per formare una stirpe, di certo non lo rispetta. E cos'è l'uomo se non un animale? Ci siamo evoluti e abbiamo imparato a vivere in società, abbiamo imparato a convivere civilmente... l'unica cosa che ci sta succedendo adesso è che stiamo degenerando. Dobbiamo lottare per vincere»

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