12.Lottare rende liberi

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Per chi avesse già letto la prima parte della storia, avviso che questo sarà il "fatidico capitolo" dove la narrazione inizierà a cambiare. Perciò state attenti alla sua lettura :)
 

🍭

Da piccola mi avevano sempre ripetuto di quanto fossi sfacciata e di quanto non avessi rispetto per nessun adulto.

Ma in verità ero solo una bambina insicura, che voleva amici. Essere buoni, assecondare gli altri non portava mai a nulla di buono, nulla che potesse appagare il proprio ego. Perciò, mi ero dipinta in viso quella maschera perenne di persona scontrosa e rude che non se ne fregava degli altri e dei loro pareri personali.

Stavo bene da sola, senza nessuno.
Avrei voluto dire. Eppure, era una bugia. E mentire a sé stessi, non serviva a nulla se non rinchiudere con più sbarre la nostra credibilità e i nostri valori in una torre di esclusioni sociali e falsità.

«Sky non ci pensare neppure! La scuola tu non la lasci è troppo importante, tu sei troppo intelligente per sprecare il tuo futuro. Ti ci vedo già a studiare in una prestigiosa università!» mi ammonì severo Drew.

Avevamo passato l'intero pomeriggio a discutere di quanto fosse stata assurda la mia idea, e di quanto lui fosse stato assolutamente contrario nell'assecondarmi e che andare a scuola fosse la scelta migliore. Ma io non volevo. Uno dei motivi per cui avevo desiderato trasferirmi con mio padre lì, era proprio perché sapevo avrei visto mio cugino. La mia spalla, il mio complice.

Pensare solo di dover passare le mie giornate, altri anni della mia vita, in un luogo così spento senza vivere e coesistere con la propria esistenza, mi struggeva. Lo avevo minacciato, gli avevo intimato che, se lui avesse mollato la scuola, l'avremmo fatto insieme o avrei fatto una pazzia. Odiavo dover ricorrere a quel mio lato manipolatore, lo odiavo. Ma quello era l'unico modo per ottenere ciò che volevo.

Lui era andato via arrabbiato, senza voltarsi indietro una volta. Ero rimasta impalata sul ciglio della strada desertica ad aspettare che ritornasse che si fermasse, ma non lo fece.

A mio padre di certo non sarebbe di certo importato perché non era mai a casa e quando c'era, era come se in realtà non ci fosse, nessuno dei due abbozzava una conversazione e rimanevamo sotto lo stesso tetto come due perfetti sconosciuti, di cui l'unica cosa che condividevamo era il sangue e il cognome.
Così come io recitavo la parte della figlia educata, lui eseguiva a pennello la parte del padre che si interessava alla mia istituzione. Quando era stato il primo a non chiedere mai come realmente andasse a scuola o se avessi degli amici.

Non ammisi mai a lettere chiare e a voce alta il mio timore verso quella nuova avventura, dato che dirlo non avrebbe fatto altro che scaturire in me un'ondata di panico. Drew non lo sapeva di certo che nel momento in cui era stato distratto dalla mia burrascosa affermazione, avevo letto un messaggio sullo schermo del suo telefono.

23.30 parchetto.

Non avevo fatto in tempo ad esaminare con maggiore attenzione l'esatto mittente, ma io sapevo in cuor mio chi fosse. Qualcosa me lo sussurrava lontanamente.

Le stradine isolate, i rumori impercettibili, tutto attorno a me stava prendendo una forma insolita.
Una forma a me sconosciuta. Era questo ciò che si chiamava sentirsi vivi? Il voler cogliere l'opportunità e non avere rimpianti?

Doveva essere così. Quel sentimento così trascendente mi percorse le arterie, le vene e i polmoni per poi scoppiarmi dritto al cuore come una serie intemperie gelide che non ti aspetti che ti colgono impreparato. Così senza un minimo di risolutezza, strinsi il pugno e guardai avanti.

𝟐𝟒 𝐜𝐚𝐫𝐚𝐭𝐢 ||Tom kaulitzDove le storie prendono vita. Scoprilo ora