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"Chi lotta contro i mostri, deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. Se guarderai a lungo dentro un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te" – Friedrich Nietzsche
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Mi tirai a sedere a fatica nella stanza in penombra

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Mi tirai a sedere a fatica nella stanza in penombra. La vecchia televisione era ancora accesa, benché priva del volume, e gettava una luce spettrale sulle pareti. Distinsi la sagoma di Emily rannicchiata sulla poltrona in pelle; accanto a lei, sul pavimento, con la testa appoggiata al bracciolo, c'era Reid. Sentii il russare sommesso di Derek attraverso la stanza socchiusa; immaginai che da qualche parte, più silenziosi, ci fossero anche Rossi, JJ, Penelope. Mi tolsi le flebo dal braccio e appoggiai i piedi sul pavimento, sentendo un acuto fastidio nel percepire le mattonelle gelide.

Non provavo alcun dolore, visto l'effetto dei potenti antidolorifici che mi avevano dato, ma ero consapevole delle mie pessime condizioni. Non per questo mi costrinsi a rimanere a letto; con le piante nude a percorrere le mattonelle, mi avviai con lentezza inaudita fuori dalla stanza. Avevo in mente una destinazione molto precisa, nonostante avessi sentito quel numero solo indistintamente, nel caos, nei miei vagheggiamenti, nelle grida della mia famiglia, nei pianti. Camminai, ringraziando l'ora tarda e la scarsità di personale, fino a poche stanze più in là della mia. La porta era socchiusa, e anche qui una sagoma, più grande di quella di Emily, riposava sulla poltrona adiacente al letto.

Guardai i capelli scuri riversi sul cuscino, il ripiano mobile pieno di medicine, fiori, bende, persino un disegno fatto a mano. Guardai la figura esile coperta fino al collo, incosciente più che dormiente, e sentii una fitta all'altezza dello stomaco che mi costrinse ad appoggiarmi allo stipite della porta per non traballare.

Che cosa ci era successo?

[...]

Il giorno prima 

Ero accomodata a gambe incrociate sulla solita sedia dello studio di Hotch. Il cielo stava rischiarando, poco alla volta, sfumandosi di rosa e arancio, con screziature di giallo che andavano ad accendere il blu scuro della notte. L'alba era sempre stata il mio momento preferito della giornata, un angolo di pace e tranquillità che avvolgeva tutto nel suo silenzio. Mi resi conto di star fissando fuori dalla finestra, completamente rapita dal gioco di colori oltre il vetro, solo quando sentii dei passi leggeri alle mie spalle.

Un sorriso nacque sul mio viso, ma non mi voltai, aspettando finché non fu esattamente dietro di me. Si allungò oltre la mia testa per posarmi di fronte una tazza di tè, con un tocco di latte che rendeva cremosa la bevanda e una spruzzata di cannella, proprio come mi aveva abituata. La spezia era un tocco che amava sul suo porridge, eredità a sua volta della propria madre, e da quando mi aveva fatto provare il tè in quel modo, farlo senza non era più la stessa cosa.

«Non è bellissimo?» domandai sottovoce, come a non disturbare il cielo all'opera, senza distogliere gli occhi. Era settembre, quindi a Washington facevano circa ventidue gradi, e la nebbia si stava man mano diradando dai folti prati curati di Quantico.

505 || aaron hotchnerDove le storie prendono vita. Scoprilo ora