34. Anime gentili

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Un suono assordante rimbombò nella mia testa. Durava pochi secondi, seguito da una piccola interruzione e puoi il suono ricominciava. Così all'infinito. Non dandomi mai la pace di cui avevo bisogno.

Aprii gli occhi lentamente, ma li richiusi rapidamente non sopportando la luce che entrava dalle grandi vetrate. Cercai di riaprirli questa volta cercando di riabituarmi alla luce del sole. Luce che non vedevo da oltre venti giorni.

Il mio respiro aumentò per l'emozione e così aumentò anche il rumore prodotto dal macchinario posto di fianco a me.
Provai a muovere un dito, poi un altro e un altro ancora, fino a muovere tutta la mano.

Mi sentivo debole e tremendamente indolenzita. Rimasi immobile per quelli che parevano minuti eterni, in attesa di qualcuno che venisse a farmi visita.

Puntai lo sguardo verso la porta vedendo la maniglia abbassarsi. Sulla soglia c'era mia madre, rimase pietrificata nel vedermi sveglia.
Cercai di sorriderle e in risposta i suoi occhi si fecero lucidi dall'emozione.

Avevo ascoltato tante volte le parole di mamma, non le avrei mai dimenticate. Liz era una vera forza della natura. Amavo la mia mamma e tutto l'amore che riusciva a trasmettermi.

Corse ad abbracciarmi e io inspirai il profumo dei suoi capelli.

«Tesoro finalmente, mi sei mancata così tanto!» esclamò accarezzandomi il viso con entrambe le mani.
«Anche tu mi sei mancata...» sussurrai a fatica sentendo il respiro pesante.

«Non parlare, non affaticarti troppo, prima abbiamo bisogno che il dottore ti visiti» mi disse non lasciando mai la mia mano. Doveva essere stato difficile per lei vedermi in quelle condizioni.

«Ora rimani qui, non muoverti vado a chiamare il dottore» cose via farfugliando frasi senza senso. Liz, io di qui non mi muovevo mica!

Una volta sola potei finalmente esaminare la mia stanza di ospedale. La cosa che mi stupì era la quantità di fiori presenti, ecco perché ne sentivo perennemente l'odore. Sicuramente erano stati mandati dalla signora Margherita e dalla nipote.

Non mi sarei mica stupita, erano due anime gentili.

Attesi il ritorno di mamma con il medico e con mio stupore ci fu anche papà. Non appena mi vide John ebbe più o meno la stessa reazione di mamma, forse un po' più contenuta perché davanti a lui c'era il medico.

Mamma e papà lasciarono la stanza e io attesi che il dottore mi visitasse. Mi aveva prescritto numerosi farmaci da prendere nell'arco della giornata, tre ore di riabilitazione giornaliera per riattivare i muscoli e infine tanto riposo.
Sarei dovuta stare per altre due settimane in ospedale sotto osservazione.

Cosa che mi scocciava non poco. Volevo uscire, respirare l'aria fresca, sapere come stavano i miei amici dopo che...

Non riuscivo nemmeno a pensarlo. Volevo eliminare dalla mia mente gli ultimi ricordi che avevo. Chiudevo gli occhi e ricordavo i suoi occhi iniettati di sangue, le sue pupille dilatate e il suo sorriso sadico.

Ricordavo le sue ultime parole prima di scappare via. Speravo con tutto il mio cuore che gli agenti della polizia l'avessero catturato. Altrimenti Erik avrebbe fatto di tutto per vedermi morta.

Cercai di rimanere calma, ma sapevo già che avrei dovuto iniziare un percorso psicologico per stare meglio. Il trauma che avevo vissuto era presente ancora nella mia mente.

A fine giornata tutti in città sapevano del mio risveglio, a quanto pare i miei genitori erano così contenti che avevano deciso di far spargere la voce.

Come ero venuta a scoprirlo? Grazie a Charlie ovviamente.

Erano le cinque passate di pomeriggio quando il mio telefono iniziò a squillare imperterrito.
«Pronto?» domandai ancora con la voce rauca.
Dall'altro campo del telefono sentii un'urlo talmente tanto acuto da dover allontanate il telefono dall'orecchio.

«Sono stata così in pensiero per te, tu brutta stronza ce ne hai messo di tempo per svegliarti!» mi rimproverò Charlie.

«Che dolce che sei anche io sono contenta per il mio risveglio e mi auguro una buona guarigione!» esclamai ironicamente prendendola in giro.

«Eddai Amelia sai che io ti voglio bene, queste cose sono sottintese per me» ribattè.
«Certo certo...» continuai io.
«Smettila o butto giù» mi minacciò la rossa in tono scherzoso.

«Non lo faresti mai, sono tre settimane che non parliamo. Bisogna che mi aggiorni su ogni cosa» parlai io sinceramente interessata alle novità della città. Chiacchierare con Charlie mi aiutava a non pensare a Erik, alla mia convalescenza e a tutto il dolore che aveva seguito.

Trascorsi a chiacchierare con la mia migliore amica per circa quaranta minuti, poi malvolentieri dovetti buttare giù perché l'infermiera aveva messo piede nella mia stanza con la cena e due pastiglie da prendere a stomaco pieno.

«Vieni a trovarmi appena puoi!» la salutai e mi fiondai a mangiare tutta la mia cena senza lasciare nemmeno un po' di avanzo.
Ero affamata da morire.

Qualcuno bussò di nuovo alla mia porta. «Avanti!» esclamai pensando che fosse di nuovo l'infermiera pronta per raccattare il piatto e le posate.

A varcare la soglia però non era stata l'infermiera. A varcare la soglia era stato Pedro.

Whiskey eyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora