Capitolo 12

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Leanna

Arrivai a Londra, esattamente davanti al castello di Derrien. Non era come immaginavo, anzi era tutto così strano, decisamente diverso da dove avevo vissuto in quegli anni. Non era la mia casa e non lo sarebbe mai stata, ero fuori posto, ed ero obbligata a vivere in quella città. Mi sentivo in prigione e mi mancava l'aria.

Mi trovai in un giardino molto ampio e mi guardai attorno vedendo una fontana con all'interno una statua: una donna con sopra la spalla un corvo, in una mano una spada e nell'altra una borraccia. Era artistica, sicuramente molto antica e chiunque avesse scolpito quella donna aveva decisamente realizzato un incanto. Mi voltai verso il castello e l'osservai: era fatto di pietra massiccia di colore grigio scuro, le poche finestre erano ricoperte da tende nere, e il buio di quella notte rendeva le sei torri più oscure di quello che già mostravano. Agli angoli delle pareti dominavano rampicanti e piante selvatiche, donando l'impressione di una selva oscura.

Chiusi gli occhi e sospirai, sentendomi soffocare alla vista di quel posto così crudele, era decisamente la dimora degli schiavi dell'inferno. Mi feci forza e seguii gli schiavi continuando a camminare fino a che non mi bloccai intimorita davanti all'entrata. C'era un possente portone in acciaio, alto quasi tre metri e ricoperto di disegni e segni antichi di cui non ne capivo la provenienza. Lessi la scritta incisa su di essa e per quel poco che conoscevo il latino, riuscii a tradurla: Corvi e la spada del Diavolo.

Era inquietante!

Uno schiavo aprì il portone ed entrai, e una volta all'interno non mi guardai più attorno. Proseguii verso un lungo corridoio con la testa chinata e salii le scale sentendo dietro di me i passi di Derrien. Dopo quattro rampe di scale e quattro corridoi, percorsi in totale silenzio, Derrien parlò.

«Ferma». Ordinò.

Mi voltai verso di lui e lo vidi guardare intensamente la porta alla mia destra, facendomi segno con la testa di entrare. Aprii quella porta e rimasi impietrita: fredda e vuota. Era come se una gelida folata di vento mi avesse aggredita nel momento in cui varcai la soglia, impedendomi di respirare per qualche secondo. Notai che c'era solo un letto con delle lenzuola nere, un armadio vecchio dello stesso colore e una scrivania accanto alla grande finestra, coperta anch'essa con una tenda nera: quel colore era ovunque! A pochi metri dalla finestra c'era una porta finestra che portava a un terrazzo, la tenda era aperta e si poteva vedere l'immensità del cielo. Il pavimento era in parquet di colore grigio chiaro con venature più scure, estremamente pulito, addirittura maniacale. Sembrava che in quella stanza non ci fosse entrato mai nessuno.

«Qualcuno ha mai usato questa camera?» Parlai senza neanche rendermene conto, manifestando ad alta voce la mia curiosità.
«Uno schiavo dell'inferno, ma se ne è andato e da allora non è più entrato nessuno». Derrien osservò ogni angolo di quella stanza e si mise a sedere sul letto assorto nei suoi pensieri.
«Dov'è andato lo schiavo? E perché non è entrato più nessuno?» Lo guardai ancora più incuriosita.
Derrien si avvicinò lentamente a me e mi prese da dietro il collo osservando la ferita profonda.
«Farò venire qualcuno a medicarti», mi lasciò bruscamente e innervosito si voltò dandomi le spalle pronto per andarsene.

Mi dimenticai del taglio profondo che mi aveva causato lo schiavo, anche se sentivo pulsare il collo e la maglietta era completamente sporca di sangue, ma altre emozioni in quel momento avevano preso il sopravvento.

«Non mi hai risposto. Dov'è andato lo schiavo?» Gli bloccai la strada mettendomi davanti e lo fissai negli occhi intensamente, facendogli capire che pretendevo una risposta. Non seppi dire perché mi intestardii nel conoscere la storia di quella stanza e dello schiavo che ci viveva, ma era più forte di me. Qualcosa mi comandava di farlo.

Dentro l'infernoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora