FOLLIA E CRIMINE

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Molti fatti recenti stanno riportando l'attenzione su una domanda che la gente si pone, cioè: le persone che commettono crimini efferati, grandi delitti, sono diversi dalle persone normali oppure hanno qualche disturbo mentale?
Questa domanda viene riproposta all'attenzione sia degli specialisti sia della gente comune o di altre categorie come i politici.
Innanzitutto, bisogna stabilire che la violenza nel mondo purtroppo esiste: persone uccise, violentate, fuori o all'interno delle famiglie.
Colui che è affetto da una malattia mentale solitamente subisce violenza più che compierla. La tendenza a immaginare che siano solo le persone diverse, fuori dalla norma, a compiere gesti atroci, deriva da una paura che è insita in tutte le persone. Noi stessi potremmo essere dei possibili criminali e, inoltre, anche la paura che abbiamo che il nostro vicino di casa, le persone che stanno intorno a noi tutti i giorni, possono essere potenzialmente degli assassini. D'altra parte, la violenza interessa le persone: il fatto che tutti siano appassionati da serie televisive o da film, nei quali si inneggia la violenza o, addirittura, le persone violente diventano degli eroi e non dei cattivi,  diventano persone da imitare, suscitano maggior interesse negli spettatori. I ragazzi possono tendere ad assumere le sembianze, a farsi il taglio dei capelli come i protagonisti di questi film identificandosi con la persona cattiva. La violenza, in qualche modo, appartiene alle persone e non è costantemente associabile alla malattia mentale. Anzi, la patologia è solo responsabile di una piccola parte dei gesti di violenza. A compiere crimini e barbarie sono il 95% delle persone cosiddette normali, cioè gente che durante il processo viene giudicata capace di intendere e di volere. Il giudice si avvale di un perito, solitamente uno psichiatra al quale fa altre domande. La prima è se il soggetto al momento dei fatti si ritrovava in una condizione di psicopatologia tale da rendere incapace di intendere e di volere, ovvero se era incapace di discernere il gesto che stava attuando. Il secondo quesito è se questa persona può essere in grado di stare in giudizio. E il terzo, che è completamente indipendente dagli altri due, è se questo soggetto sia socialmente pericoloso. Se lo psichiatra non rileva alcun tipo di disturbo, non si esprimerà sulla pericolosità sociale, sarà una questione che verrà completamente delegata ai giudici. Lo stigma che viene associato alle persone affette da patologie mentali è una tendenza antica di mal interpretare alcune prospettive psicoanalitiche freudiane, nelle quali si riteneva che l'essere umano di fatto non è padrone in casa propria e che in qualche modo questo sottostìa al grosso serbatoio pulsionale dell'inconscio, della libido che potrebbe governare gli atti di una persona. Di conseguenza, si potrebbe derivare che chiunque crei gesti di violenza non sia padrone di sé stesso. Se filosoficamente in parte si può comprendere questa prospettiva, bisogna dire che da un punto di vista generale non possiamo escludere completamente la possibilità che una persona eserciti il proprio libero arbitrio e, quindi si renda conto di quello che sta facendo nel mentre che lo sta facendo.
Un'altra cosa su cui è importante fare una riflessione è quello che viene spesso definito "raptus", cioè il mistero ci spaventa e sottolineamo come l'emergere di un gesto atroce sia frutto di un'illuminazione improvvisa di cattiveria, durante la quale la persona perde lucidità. Il termine "raptus", usato soprattutto dai commentatori giornalisti, che cosa vuol dire?
Questa espressione viene utilizzata per descrivere un episodio acuto di comportamento violento che sembra uscire dal nulla o, quantomeno, non sia giustificato dalle condizioni presenti nel momento in cui accade. In realtà le cose non sono mai così. Esistono si, diverse condizioni psichiatriche che possono stare alla base di una perdita improvvisa della lucidità che corrisponde alla messa in atto di un comportamento impulsivo e deviante. Una delle cause più comuni di raptus è senza dubbio la schizofrenia, che è un disturbo mentale che può causare allucinazioni, deliri e comportamenti bizzarri. Alcuni pazienti affetti possono avere un'improvvisa perdita di controllo in risposta alla loro capacità di distinguere la realtà dalle allucinazioni, specialmente uditive, che può comportare un'elevata irritabilità e agitazione. Inoltre, possono essere presenti le "voci imperative", ovvero allucinazioni uditive che comportano ordini da eseguire, spesso violenti. Anche il disturbo Bipolare è un'altra causa comune di raptus, specialmente durante un episodio maniacale. Oppure il disturbo borderline (DBP) è una causa comune di raptus, soprattutto quelli passionali come aggressioni o omicidi che avvengono durante l'allontanamento di una delle due parti di una coppia amorosa.
Ma, se analizziamo attentamente i gesti, ci rendiamo conto che la violenza segue sempre un filo narrativo ben preciso: c'è qualcosa che ha anticipato l'azione.
Come è enunciato nel terzo principio della dinamica newtoniana: "ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria".
Se una persona decide di capire bene com'è andato un avvenimento, si rende conto che qualche cosa comprensibile c'è dietro ad ogni gesto. Quindi, non sono solo le persone folli a commettere gesti di aggressività, le persone normali sono dotate della funzione di essere aggressivi, ma soprattutto, sono gli eventi intorno a noi che possono far acuire questo genere di predisposizioni fino a trasformare una persona in un assassino.
Chiunque di noi ha una quota più o meno alta di aggressività, chiunque di noi presenta quote narcisistiche, sociopatiche o di intolleranza. Chiunque di noi possiede una frustrazione che può essere esposta attraverso la violenza.
Non dimentichiamo, inoltre, il problema enorme delle sostanze psicotrope, quali le droghe e l'alcool. In Italia, la quota di persone che utilizzano sostanze di abuso è davvero molto alta.
Un esempio cinematografico è "Un borghese piccolo piccolo" di Alberto Sordi. Dietro ogni commedia si nasconde il dramma, e nel caso della commedia all’italiana si parla di drammi travestiti da sorrisetti amari e isterici. L’idea della risata come catarsi vorrebbe mantenere una forma di ottimismo, di speranza in una redenzione dell’uomo. Sordi è Giovanni Vivaldi, umile impiegato ministeriale prossimo alla pensione, che non ha mai fatto carriera, relegato nei bassi fondi di un archivio, ingenuamente fiero del suo lavoro trentennale presso il Ministero millantando amicizie inesistenti coi potenti. Un personaggio immortale, iconico, che prende forma dalle pagine del romanzo di Vincenzo Cerami, e diviene simbolo dell’italiano piccolo borghese. Vivaldi investe tutte le sue energie per assicurare un futuro nella pubblica amministrazione al figlio Mario (Vincenzo Crocitti), diplomato in ragioneria, ma decisamente poco acuto. Il padre mostra un orgoglio commovente nei confronti del figlio, ed è disposto a tutto per fargli superare il concorso d’ammissione, muovendosi nel grande teatro clientelare delle raccomandazioni, del servilismo verso i potenti. Succede che il giorno del concorso, preparati ad assistere al siparietto tragicomico dell’ennesimo cretinotto raccomandato che frega tutti sul lavoro, Mario viene ucciso nel corso di una rapina. Con questo evento, il regista Monicelli sembra abbandonare il binario della commedia e la pellicola sprofonda in una dimensione di cupezza che prima disarma, poi stordisce, poi sconvolge, accelerando il corso delle cose in maniera roboante, col viso di Sordi che muta, lombrosianamente, in una maschera di lucida follia, con lo sguardo paralizzato in una morsa di ferocia vendicativa. Si perde ogni speranza, ogni colore diviene fosco, la città si tinge di grigio e una pioggia costante accompagna gli eventi. Significativa la sequenza dell’inseguimento dell’assassino da parte di Vivaldi, che dapprima, dinanzi alla polizia, finge di non riconoscerlo, per poter attuare in seguito la sua personale vendetta: in questa sequenza compare un piano medio del volto di Sordi dietro il parabrezza, con la pioggia scosciante, mentre osserva l’assassino. Inquieta fino a terrorizzare. In quello sguardo si frantuma la rete di perbenismo su cui faticosamente il piccolo borghese ha mantenuto un decoro sociale e appreso le buone maniere per sopravvivere. Lo Stato indifferente e una società egoista hanno slegato l’animale tenuto quiescente, l’hanno costretto a rinnegare la legge e godere del soddisfacimento degli impulsi. Più che un caso isolato, Vivaldi sembra essere la manifestazione della malattia dell’intera Nazione. Vivaldi, lucidissimo, accudisce la moglie catatonica dopo il trauma per la morte del figlio, poi prende un crick e colpisce alla testa l’assassino, lo rapisce, lo colpisce ancora, lo lega mani, piedi e collo in una baracca sperduta che usava come rifugio quando andava a pesca col figlio. La macchina da presa è fissa per diversi secondi, lunghi un’eternità, in un’inquadratura spietata che mette in scena il ragazzo legato che ansima ad un’estremità, e Vivaldi che mangia con calma alle sue spalle, assaporando la vendetta. La crudeltà di Vivaldi riporta la riflessione di Monicelli ad un piano antropologico, in quanto esito dell’ostilità dell’ambiente che estrapola la bestialità dall’uomo. La regia e il missaggio sonoro lavorano per ricostruire, su un piano allegorico, una ferocia che rievoca l’antico legame tra uomo e Natura: in questo panorama, in cui si riafferma l’emergenza della crudeltà della Natura, non c’è spazio per la religione, che già subiva l’onda dispregiativa dell’anticlericalismo di Monicelli, e le uniche sequenze in cui v’è parvenza di Dio sono autoritarie, distaccate, algide.

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