ANASTASYA
19 anni
«Mamma, papà… ci siete?»
La mia voce rimbalza nel silenzio del salone, un eco che si dissolve nel nulla. Le chiavi scivolano dalle mie dita e atterrano sulla mensola con un tintinnio sordo.
Nessuna risposta.
Chiudo la porta con un calcio, senza preoccuparmi delle scarpe che lascio sul tappeto d’ingresso.
La casa è immersa nella penombra, nonostante sia ancora giorno. C’è sempre qualcosa di opprimente qui dentro, un’ombra che si insinua tra le pareti e le persiane socchiuse, un’energia che mi stringe la gola ogni volta che metto piede in questo posto.
Un passo dopo l’altro salgo le scale di legno, ogni gradino che scricchiola sotto il mio peso sembra un avvertimento.
Non sei al sicuro.
I quadri lungo il corridoio mi osservano mentre avanzo. Volti felici, sorrisi stampati su carta patinata, la farsa perfetta di una famiglia californiana da cartolina, ma io non appartengo a questa storia, e non appartengo a loro.
Ogni volta che vedo quelle foto sento un vuoto nello stomaco, un’inquietudine sottile che mi scava dentro. Quella ragazzina che sorride con finzione accanto a loro, a quattordici anni, non sono io.
Non ho mai amato questa casa, con il suo lusso ostentato, gli armadi straripanti di vestiti costosi, i bicchieri di cristallo che scintillano dietro vetrine intoccabili, i tappeti persiani che soffocano il pavimento come se potessero nascondere la realtà sotto la loro trama intricata.
Miro e sua moglie hanno sempre cercato di darmi tutto, ma non hanno mai capito che io non volevo niente di tutto questo.
Volevo la verità.
Volevo mia sorella.
Volevo sapere chi sono.
Raggiungo la mia stanza, ormai persa nei miei pensieri. Mi spoglio in modo meccanico, facendo cadere i vestiti alla rinfusa, e mi lascio sprofondare nel letto, ma quando chiudo gli occhi, il buio mi inghiotte.
Trixy, dove sei?
Vieni qua, ragazzina, pagherai per i peccati del tuo passato.
Chi sono? Dove sono? Ridatemi mia sorella.
Tu non hai una sorella. Tu non hai nessuno.
Trixy, dove sei? Mi manchi.
Promettimi che ti occuperai sempre della tua sorellina.
Sì mamma, te lo prometto.
Trixy, dove sei?
Dove sei?
Un singhiozzo mi risale in gola, graffiante, doloroso, incontenibile. Mi sollevo di scatto con le mani sul petto nel tentativo disperato di calmare i battiti impazziti del cuore, troppo veloci al punto che sento l’aria fuggirmi dai polmoni.
Afferro il cassetto del comodino con mani tremanti e rovisto alla cieca fino a trovare il flacone. Lo apro, faccio cadere una pillola nel palmo e la ingoio senza pensarci.
Le medicine non calmano l’ansia, non spengono il dolore, non cancellano il rumore assordante che ho in testa ogni fottuto giorno. Mi stordiscono soltanto, mi rendono confusa, mi spingono ancora più giù nel vuoto.
Il mio Padrone diceva che mi avrebbero fatta sentire meglio, che avrebbero spento il fuoco che mi consuma da dentro. Lo diceva mentre mi accarezzava i capelli, mentre mi spezzava e ricostruiva a suo piacimento. Lo diceva prima di sparire nel nulla, lasciandomi a bruciare da sola.
E ogni volta che mio padre mi porta un nuovo flacone, diventa sempre peggio.
Forse non dovrei fidarmi di lui e dovrei smettere di prenderle, e il pensiero che mi stia nascondendo qualcosa mi gela il sangue.
Mi rannicchio nell’angolo del letto con il respiro ancora irregolare, e aspetto.
Aspetto che lui torni, che venga a prendermi, che mi trascini via da questa casa che non ho mai sentito mia.
Ma so che non lo farà, non tornerà mai.
L’uomo che mi ha salvata e distrutta, che mi ha posseduta e poi abbandonata, non verrà, e io non so se voglio odiarlo o supplicarlo di riportarmi indietro con sé.
Non voglio affrontare questa realtà, ma poi sento una voce.
«Sto facendo il possibile, cazzo! Ma non posso commettere passi falsi, quell’uomo mi ucciderà.»
Qualcosa dentro di me si tende come una corda troppo tirata, pronta a spezzarsi.
Mio padre.
Abbasso lo sguardo verso la finestra rendendomi conto che si è fatto buio.
Da quanto tempo dormivo?
Scendo dal letto e mi avvicino alla porta, il cuore che riprende a martellare nel petto. Le parole di Miro rimbalzano sulle pareti, taglienti, colme di tensione.
Sta parlando di me?
«Sì, le ho sostituite. Sta prendendo quelle che mi hai dato tu.»
Il mio sguardo scatta sul comodino e sulle pillole.
Mi porto una mano alla bocca, un brivido mi risale la schiena.
Miro Handerson si è sempre comportato come un vero padre.
Non può essere, non può avermi mentito. Nell’ultimo anno però c’è stato un brusco cambiamento in lui, e la sua freddezza nei miei riguardi è stata intensa.
Ma la sua voce continua, e ogni parola è un chiodo che si pianta nella mia mente.
«Ti ho già detto di sì, ma devi aspettare. Quel diavolo mi sta con il fiato sul collo e non la lascerà libera.»
Quel diavolo.
Il mio respiro si mozza quando capisco che sta parlando di lui, del mio Padrone.
Stringo i pugni, le unghie che affondano nei palmi dalla rabbia che mi acceca. Mi cerca, eppure non si fa vedere, ma se non verrà da me, allora sarò io ad andare da lui.
Scoprirò chi si è nascosto dietro quella maschera, e se non posso riavere il mio passato, allora combatterò per il mio futuro.
E al diavolo tutto.
Al diavolo Miro e i suoi segreti. Al diavolo chi dice che la mia ossessione è sbagliata, che non dovrei pensare a quell’uomo.
Quella notte mi ha fatto sentire viva, mi ha marchiata, mi ha resa sua, e io lo rivoglio.
Il mio cuore è una bestia impazzita.
Ogni battito è un pugno contro le costole, ogni respiro è un coltello piantato nei polmoni. Non dovrei essere qui in questa casa a origliare.
Dovrei voltarmi, tornare nella mia stanza, fingere di non aver sentito niente e che tutto sia normale.
Ma non ci riesco.
Resto immobile con il corpo teso, le dita che affondano nel legno della porta mentre spio Miro dall’ombra del corridoio.
Continua a camminare avanti e indietro nel salone, il telefono incastrato tra la spalla e l’orecchio, le mani che si agitano nell’aria come se potessero cancellare il peso delle parole che sta pronunciando.
«Ci siamo visti oggi e l’ho voluto mettere alla prova per capire se si fosse tirato indietro.» La sua voce è tesa, quasi frenetica. C’è paura nei suoi toni. «Sono vivo per miracolo.»
Mi mordo il labbro fino a sentire il sangue.
Mi stringo le braccia attorno al petto, il respiro che diventa affilato, le parole di Miro che rimbombano nella mia testa come tamburi di guerra, fin quando la porta di casa si apre facendomi tornare alla realtà.
Mia madre è tornata e Miro scatta come se gli avessero puntato un’arma alla tempia.
La sua postura cambia all’istante. L’uomo teso, nervoso, terrorizzato che pochi secondi fa sussurrava minacce e paure a qualcuno dall’altro capo della linea, svanisce.
Si affretta a chiudere la chiamata, a infilare il telefono in tasca come se nulla fosse, a cancellare ogni traccia della sua conversazione.
Il suo volto, ancora segnato dal sudore, si distende in un’espressione che dovrebbe essere familiare, rassicurante, ma che ora mi appare come una maschera.
Lei entra, il corpo avvolto nella giacca, le mani che stringono una borsa della spesa.
Lo guarda con il viso rilassato dalla stanchezza della giornata.
Vedo il modo in cui Miro le va incontro, il modo in cui le prende il volto tra le mani e preme un bacio sulla sua fronte con un affetto che ora mi sembra costruito, innaturale.
Un uomo che, fino a pochi secondi fa, stava tramando qualcosa alle mie spalle.
Per un attimo penso che sia tutto nella mia testa, che le pillole abbiano amplificato il mio senso di paranoia, e che io stia vedendo cose che non esistono.
Resto nell’ombra ancora per qualche secondo, la mente che corre più veloce del cuore, il respiro trattenuto.
Poi decido di agire.
Se c’è il mio Padrone dietro a mio padre, lo troverò.
Ingoio il magone che sento e faccio finta di niente, visto che mi serve per arrivare a lui.
«Mamma» li interrompo e scendo le scale. Lei mi abbraccia, è la prima volta che sento un leggero fastidio scorrere nelle mie vene.
«Piccola, da quanto sei in casa?» Miro allunga un braccio sulle mie spalle, mi sposto di poco come se mi stessi scontando e noto un cipiglio di stupore sul suo viso. Forse ho esagerato, mi è venuto spontaneo.
«Dormivo, mi sono svegliata con la voce di mamma.»
Le sue spalle si rilassano ma il tono con cui mi rivolge le parole dopo, è quello di un ordine. «Voglio che tu riprenda gli studi.»
Scuoto la testa «Ne abbiamo già parlato, papà»
«Tesoro, tuo padre ha ragione. C’è il tuo futuro in ballo.»
Il mio futuro non è qui, dovrei rispondere. Ma non lo faccio per paura di offendere l’unica donna che ha provato davvero a essere una madre per me.
Come faccio a spiegargli che io una madre ce l’ho già, e che la sua voce rimbomba nei miei sogni ogni giorno? Anche se non ricordo il suo volto, la sento dentro di me.
«Preferisco lavorare, metterò i soldi da parte e prenderò una casa in affitto. Avete fatto anche troppo per me» il suo viso si incupisce mentre le faccio una carezza.
«Questa è la tua casa» mi dice «e non hai bisogno di lavorare, hai tutto ciò che ti occorre qui» mi dispiace per lei, perché davvero ci mette il cuore «è per via di quell’uomo? Quello dal quale sei ossessionata?»
«Mamma…» la ammonisco. Conoscono la verità. Quella notte dormivano profondamente, forse perché lui prima di piombare nella mia camera li ha resi innocui. Ma lei ha visto il sangue, le catene e i segni sul mio corpo. Quella mattina non potevo far finta di niente e comportarmi come un fantasma, ero talmente stordita e ancora carica di adrenalina che tutto quello che avrei voluto in quel momento, era il desiderio di rivederlo di nuovo.
«Te lo avevo detto che dovevamo portarla da uno psicologo» sbraita mio padre «quell’uomo ti ha manipolato il cervello, non ti lascerò farti influenzare da lui» il suo tono è severo, non ammette repliche. E se solo non avessi ascoltato la conversazione che ha avuto al telefono poco fa con quel tizio, crederei alla sua messa in scena.
«Smettetela, sono maggiorenne. Posso fare le mie scelte» mi stacco da loro e me ne vado. Ho bisogno di aria.
Salgo in camera, prendo il telefono e scrivo un messaggio.
Io: Ci vediamo in spiaggia tra mezz’ora.
Giulia: Arrivo.
Mi vesto di corsa ed esco, nessuno mi fermerà.
*
Giulia non mi guarda.
Resta con la testa china, le mani strette al petto come se volesse trattenere qualcosa che altrimenti scivolerebbe via.
Ce ne stiamo sedute sulla riva, davanti all’oceano. La luna le illumina il profilo, gli occhiali dalla montatura sottile riflettono il bagliore argenteo dei suoi occhi.
«Ana, abbiamo due famiglie di merda.» La sua voce è un sussurro, un’ammissione pesante che si dissolve nel vento salmastro. «Ma tu, almeno, puoi ritenerti fortunata. I tuoi genitori sono adottivi.»
Mi volto verso di lei, le sopracciglia leggermente aggrottate. Il dolore le incide il volto come una cicatrice invisibile.
«Giù… mi dispiace.» Le stringo la mano senza pensarci. «Sono qui ad ammorbarti con i miei problemi, quando tu ne hai già abbastanza dei tuoi.»
Sbuffa e intreccia le sue dita alle mie.
«Mi piace ascoltarti.» Le sue labbra si incurvano in un sorriso spento. «Così non penso alla mia di famiglia.»
C’è qualcosa nel suo tono che mi fa male, un peso che non posso sollevare per lei. «Ma tu mi fai incazzare.» Il suo sguardo si fa più duro, più serio. «Sei attratta dalle persone sbagliate. E mi dispiace.»
La sua presa sulle mie dita si stringe, quasi a voler ancorarmi alla realtà.
«Non voglio giustificare Kovalenko,» mormoro, abbassando lo sguardo sulle nostre mani intrecciate, «ma hai fatto arrestare suo figlio per una cosa disgustosa, di certo non potevi aspettarti che sarebbe rimasto a guardare.»
Non voglio ferirla, ma il solo pensiero di quello che è successo mi fa rivoltare lo stomaco, perché conosco il significato della parola stupro.
È inciso sul mio corpo, centimetro dopo centimetro.
L’oceano ruggisce davanti a noi, le onde si infrangono sugli scogli con la forza di una furia primordiale.
«Sono stata costretta.» La sua voce si spezza, carica di dolore. «Non ho avuto scelta.»
«Abbiamo sempre una scelta.» Sussurro le parole contro la sua spalla, lasciando che il mio viso si nasconda nell’incavo del suo collo. Cerco di darle conforto. O forse lo sto cercando io.
Lei scuote la testa.
«Non conosci la mia famiglia.» La sua voce è una lama sottile che mi sfiora la pelle. «Con loro non si ha mai una scelta.»
Resto in silenzio mentre le sue mani continuano a stringere le mie come se fossero l’unico appiglio nel vuoto.
«Lui ti piaceva, vero?»
Il suo respiro cambia e la sento irrigidirsi, il battito accelerato sotto la pelle.
Annuisce.
«È stata la mia prima volta.» Le sue parole si dissolvono nell’aria, leggere come cenere. «Avevo quattordici anni.»
Il suo singhiozzo è soffocato, facendomi rendere conto che ha amato quel ragazzo, e forse lo ama ancora.
E ora è sola, condannata a portare addosso il peso di una scelta che le hanno imposto.
Mi manca il respiro. La sua storia e la mia storia si intrecciano in una spirale di dolore senza fine.
«Puoi ospitarmi da te per qualche giorno?» Azzardo, senza sapere nemmeno io perché lo sto chiedendo.
Dovrei restare a casa con il fiato sul collo di Miro, scoprire se davvero sa dove si trova il mio Padrone. Ma sento di avere perso il controllo su tutto, e non so nemmeno più cosa sia giusto.
Giulia esita.
«Ana… Sai che ti voglio bene e farei qualsiasi cosa per te.» Il suo sguardo si oscura di una paura primitiva che le brucia negli occhi. «Ma quell’uomo ti ha preso di mira, e ho paura che possa riconoscermi se ti segue.»
Le sue dita tremano, e io non so come fermare il suo tremore.
Come posso aiutarla, quando nemmeno riesco ad aiutare me stessa?
«Tranquilla.» Forzo un sorriso. «Non fa niente.»
La sua paura è anche la mia, ma ormai ho smesso di combatterla, quindi prendo Giulia per mano e la invito a sollevarsi.
Lei mi guarda, mi capisce al volo, e quando lascia la mia mano, iniziamo una corsa sfrenata.
Corro, respiro a fondo, sento l’aria salmastra riempirmi i polmoni mentre l’acqua dell’oceano mi schiaffeggia le caviglie, la sabbia si insinua nelle scarpe, la risata spezzata di Giulia si mescola al suono delle onde e per un istante, solo per un istante, riesco a credere che esista qualcosa oltre il tormento e il dolore, oltre le ombre che mi inseguono da sempre.
Poi mi fermo, le mani sulle ginocchia, il fiato che mi sfugge in sbuffi lenti, chiudo gli occhi per un secondo, e quando li riapro sento il cuore fermarsi e il corpo andare in collisione con qualcosa di solido, qualcosa di caldo, qualcosa di vivo.
Un muro fatto di muscoli: Sascia Kovalenko.
La mia pelle si accende di brividi mentre mi aggrappo istintivamente al tessuto della sua camicia, morbido sotto le dita, la stoffa costosa che profuma di tabacco e qualcosa di più oscuro, qualcosa che sa di potere, di peccato, di controllo. Lui se ne sta immobile come se mi stesse aspettando da un pezzo.
Le sue dita si chiudono sulle mie spalle con una presa sicura e forte, non troppo stretta ma abbastanza da farmi sentire intrappolata e farmi capire che non ho via d’uscita.
Alzo lo sguardo e mi perdo in quei dannati occhi.
Due pezzi di ghiaccio purissimo che mi osservano senza pietà, senza lasciarmi scampo, due laghi congelati che nascondono l’inferno sotto la superficie e che mi trascinano giù, mi risucchiano, mi condannano senza che io possa neanche oppormi.
Il battito del mio cuore è un tamburo impazzito nelle orecchie, il respiro che si accorcia mentre resto lì, bloccata in quella tempesta gelida e infuocata al tempo stesso, con la sua presa che si fa più salda, più pericolosa.
«Fai attenzione, ragazzina.» La sua voce è un sussurro basso, una carezza velenosa che mi scivola sulla pelle come una frusta di seta. «Di notte girano molti diavoli.»
Un brivido mi attraversa la schiena, qualcosa di caldo e freddo al tempo stesso mi si annoda nello stomaco, una sensazione che non so se sia paura o eccitazione o forse entrambe, un miscuglio di desiderio e terrore che mi toglie il respiro, che mi costringe a mordermi il labbro per non permettergli di sapere quanto mi sta distruggendo con un solo tocco.
Ma lui lo sa già.
Lo vedo dal modo in cui mi guarda, dall’ombra di un sorriso che gli sfiora le labbra perfette, dalla pressione impercettibile delle sue dita sulla mia pelle.
E allora sollevo il mento, affondo lo sguardo nel suo senza paura e senza arretrare.
«E tu saresti uno di loro?» La mia voce è bassa, una sfida lanciata nel buio.
Le sue dita si muovono appena, un pollice scivola lentamente contro la mia clavicola, una carezza lieve che sembra casuale ma che di casuale non ha nulla, un tocco studiato, calcolato, una scintilla che incendia la pelle e manda in cortocircuito il cervello.
«No.» Ride piano, il suono affilato come il bordo di una lama. «I diavoli si tengono alla larga da me.»
Le sue mani scivolano ancora più giù, sfiorano il bordo della mia maglia, le sue dita tracciano un percorso proibito lungo le scapole nude con un tocco leggero, quasi inesistente, ma abbastanza per farmi sentire nuda e farmi tremare.
Stringo i denti, combatto contro il calore che mi si diffonde sottopelle, contro l’istinto di chiudere gli occhi e abbandonarmi a quella sensazione, contro la consapevolezza che sto giocando con il fuoco e che non esiste nessuna possibilità di non bruciarmi.
«E tu saresti uno dei buoni?» inclino appena il capo con la consapevolezza di provocarlo.
Lui si avvicina, il suo petto che sfiora il mio, il suo odore che mi avvolge come una maledizione.
«Non credo che tu voglia saperlo» Il suo sussurro mi accarezza il lobo dell’orecchio, un avvertimento che sa più di tentazione che di minaccia.
Il mio corpo risponde prima della mia mente, le mani che si chiudono contro il suo petto per mantenere un minimo di controllo, il battito che accelera così forte che ho paura possa sentirlo.
Poi, all’improvviso, la sua attenzione si sposta, il suo sguardo va dietro di me e qualcosa nei suoi occhi cambia, si fa più freddo, più letale.
«Vero, Giulia Colombo?»
Mi giro di scatto e mi metto tra loro con le spalle dritte. «Lasciala stare.»
Lui non mi guarda più, il suo interesse per me è svanito in un battito di ciglia, ora è concentrato solo su di lei, sulla mia amica che trema come una foglia sotto il suo sguardo impassibile.
Ma poi i suoi occhi tornano su di me, con un lampo di qualcosa di oscuro, di viscerale, di famelico e allunga la mano.
Le sue dita strofinano il mio labbro inferiore lentamente, con un gesto intimo e proibito.
«Allora accetterai il mio invito a uscire.»
La sua voce è bassa, e io mi sento incatenata.
Sento il suo dominio insinuarsi sotto pelle e la mia volontà sgretolarsi sotto il peso dei suoi occhi.
Ma lui non è il mio Padrone.
Il marchio sulla mia pelle mi brucia, mi richiama, mi ricorda chi sono.
«I-io non posso.» Il mio sussurro è fragile, spezzato da un filo di voce che si perde nel rumore dell’oceano. «C’è già qualcuno nella mia vita.»
Lui sfoggia un sorriso diabolico.
«L’inferno intero si inchinerebbe al tuo cospetto.» Me lo dice con le labbra appiccicate al mio orecchio, come se quella frase fosse solo nostra.
E poi se ne va, lasciandomi con le gambe molli, il respiro spezzato, l’anima che brucia e il peccato inciso sulla mia pelle.
Che ne pensate di questo fuoco che non cessa di ardere?
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𝖂𝖊 𝕬𝖗𝖊 𝕮𝖍𝖆𝖔𝖘 - 𝕾𝖆𝖘𝖍𝖆 - 𝖛𝖔𝖑. 3
RomanceMolti pensano che io sia il diavolo in persona, per questo in tribunale mi faccio chiamare Michail come il demone di un famoso poema romantico della letteratura russa. Non sanno che mi faccio chiamare così perché, proprio come quel demone, penso di...
