capitolo 7

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SASCIA

29 anni



Il mio piccolo demone della tempesta se n’è andato di casa.
La casa che avevo scelto per lei, il rifugio che credevo sicuro, è diventato solo un altro inganno. Pensavo di averle dato una famiglia e di aver scelto persone degne di lei, mi sbagliavo.
Miro Handerson non è un uomo qualunque, e io non sono stato abbastanza attento. Non avevo visto gli artigli nascosti sotto le mani tese in segno di benvenuto, perché in quel momento Lilith aveva bisogno di stabilità, di nuovi ricordi. Le avevo promesso che sarei tornato a riprenderla quando sarebbe stata maggiorenne, ma nel frattempo, l’Associazione le aveva strappato tutto.
Le pastiglie. La scuola cattolica. Il vuoto.
L’avevano spogliata di ogni cosa, ridotta a una marionetta senza memoria, senza coscienza di sé.
Alys mi aveva raccontato tutto di lei. Mi aveva dato un nome, un volto e una storia. Ma non mi aveva detto che quella ragazzina mi avrebbe disarmato con uno sguardo.
Un paio di occhi che non avrebbero mai dovuto conoscere l’orrore di un inferno come quello, e io dovevo salvarla.

Era una notte di fine maggio quando entrai all’inferno.
L’asta dell’Associazione si teneva in un hotel di lusso a Los Angeles. Un cinque stelle fatto di tappeti di velluto, lampadari di cristallo e una lista di ospiti da fare invidia a Hollywood, con attori, presentatori e uomini di potere. Un evento cinematografico aveva riempito ogni suite, garantendo all’Associazione la copertura perfetta.
Nessuno avrebbe mai immaginato che, proprio quella sera, tra i calici di champagne e i flash dei paparazzi, nel ventre di quell’hotel si sarebbe consumato qualcosa di orribile.
Ma il mondo funziona così, basta una maschera per essere chiunque, e anche io per quell’occasione ne indossavo una. Ero diventato un uomo ricco del Mississippi, venuto in California per comprare carne fresca.
La Maserati nera si fermò davanti all’ingresso, i documenti falsi passarono tra le mani della sicurezza e il cancello si aprì come le fauci di un leone.
Un vecchio cliente, un uomo che mi doveva più di un favore, mi stava già aspettando.
Così, dopo esserci salutati, mi guidò attraverso corridoi ovattati e porte chiuse su segreti inconfessabili, e infine entrammo in un salone sontuoso.
Il soffitto era alto, decorato con affreschi dorati e un’enorme scalinata al centro si apriva come una cascata di marmo. Eravamo finiti in un’ala dell’hotel mai aperta al pubblico. Il tappeto sotto i miei piedi era così morbido da soffocare ogni suono, come se il pavimento stesso volesse inghiottire il peccato che veniva consumato in quella stanza.
Le poltrone di velluto erano disposte in file ordinate davanti al palco, pronte ad accogliere il pubblico dell’orrore. Perché loro erano già lì con le maschere eleganti e i completi su misura. Uomini ben educati con anime marce, gli stessi che avrei dovuto battere sul tempo.
Mi sistemai in terza fila, la mia maschera argentata ben salda sul viso. Un demone senza corna, con la bocca scoperta e lo sguardo nascosto.
Mi guardai attorno, e ovunque c’era odore di morte.
Volevo strapparmi quella maschera, e strapparle a tutti i presenti. Rivelare i loro volti e vederli per quello che erano, non uomini, ma bestie.
Ma non ero lì per loro, non ancora.
Ero lì per lei.
L’asta iniziò quasi subito, niente perdite di tempo, e uno dopo l’altro, i corpi venivano esposti sul palco come merce da macello. Ragazze con occhi spenti e labbra strette in linee sottili tremavano dalla paura mentre ondeggiavano i fianchi.
Ogni battito del martelletto del banditore era un chiodo piantato nel mio cranio, ogni ragazza che usciva fuori era per me una sconfitta.
Dopo la sesta ragazza, iniziavo a pensare che non sarebbe mai arrivata e che forse l’avevano venduta altrove. Ma non poteva essere, le mie spie non potevano essersi sbagliate.
Dov’era?
Non potevo fermarmi, non potevo fallire.
Ogni ragazza che passava sotto i riflettori era un’altra anima che avrei dovuto ritrovare. Avrei preso i loro volti e li avrei cercati ovunque, ma in quel momento, contava solo una cosa.
Trovare lei.

«Signori e signori, ecco a voi la punta di diamante della serata.»
L’uomo al microfono sorrise con una voce viscida come olio bruciato.
«Chiunque di voi si accaparrerà questo bocconcino, avrà a disposizione mezz’ora con lei per constatare l’autenticità della sua purezza.»

Mi si rivoltò lo stomaco alle sue parole, che cazzo di porcata era mai quella?

Avevo visto l’orrore. L’avevo vissuto. L’avevo respirato. Ma non ero mai stato così vicino all’abisso.
Il pubblico sembrò animarsi, le mani si mossero e gli occhi brillavano dietro le maschere.
Avrei voluto ucciderli tutti, ma proprio in quel momento la vidi.

Sul palco, con lo sguardo perso e il corpo rigido come una statua, c’era lei: l’amica di Alys che corrispondeva esattamente alla sua descrizione, e quella notte, sarebbe tornata con me a qualunque costo.

«Partiamo da mille dollari. Chi offre di più?»
Il primo numero risuonò come un colpo di pistola.
«Diecimila.»
Le mani si alzarono.
«Ventimila.»
L’aria si fece più pesante.
«Cinquanta.»
Il sangue mi pulsava nelle orecchie.
«Centomila.»
Non avrei permesso che accadesse, non a lei.
Allungai la mano, la mia voce uscì ferma, tagliente, gelida.
«Duecentomila.»
Qualcuno rispose subito.
«Trecentomila.»
Le teste si voltarono a destra e sinistra per capirci qualcosa e un mormorio serpeggiò tra il pubblico, ma il loro squittire era insignificante, e il loro denaro, inutile. Quindi decisi di fare la mossa che avrebbe messo la parola fine a quello schifo.
«Cinque milioni di dollari.» Le parole mi uscirono di bocca come una cannonata, e il silenzio che seguì fu la dolce sinfonia della mia vittoria. Il banditore rimase per un attimo immobile, forse incredulo, o forse disgustato dalla facilità con cui avevo liquidato la competizione. Poi riprese il suo teatrino di falsità.
«Cinque milioni e uno, cinque milioni e due… aggiudicato!»
Un applauso si levò dalla platea come se avessi appena comprato la Gioconda.
Ma quella ragazza valeva più di ogni dipinto esistente, aveva un valore inestimabile.
Allentai la cravatta che mi opprimeva il respiro, non mi era mai mancata l’aria così.
Il palco si svuotò e la mia conquista venne trascinata nel retro, ed io con lei. Mi bastò un cenno e un assegno sporco del loro stesso fottuto sistema per ottenere il mio premio.

Il sangue mi ribolliva sotto pelle, e non era affatto per l’eccitazione, ma per l’inizio di una guerra.
Entrai nella stanza in penombra e l’odore della moquette bagnata mi pizzicò le narici. Un divano di velluto era posizionato davanti a un letto matrimoniale.
Sul bordo del materasso, con la testa china e le mani che torturavano le unghie, c’era la ragazza che avevo appena comprato a un’asta umana.

Rimasi in silenzio, e lei non alzò lo sguardo. Passarono minuti interminabili, poi lentamente, con la delicatezza di un battito d’ali, i suoi occhi si sollevarono e mi colpirono come una dannata fucilata.
Era di una bellezza devastante, ed era esattamente come Alys me l’aveva descritta. Eppure, niente avrebbe potuto prepararmi a lei.
Mi si contrassero le viscere a quel pensiero che non avrei dovuto avere, perché era troppo giovane, eppure mi stava distruggendo.
Ogni cellula del mio corpo reagì alla sua presenza in un modo che mi fece incazzare. Eccitato. Rabbioso. Ammaliato.

Lei si mise in piedi.
I capelli castani ondulati scivolarono sulle sue spalle esili, e il vestito corto di paillettes azzurre tentava di coprirla senza riuscirci. Non doveva indossarlo.
La mia mente mi urlava di guardare altrove, ma il mio corpo no.
«Sei tu il mio padrone?»
La sua voce era un veleno lento, un richiamo che mi legava con catene invisibili.
Padrone.
Quella parola mi avvolse come un morso di cui volevo abusare e di cui volevo godere.

Mi leccai le labbra con la lingua asciutta.
«Sono chiunque tu voglia che io sia.»
Non era un bugia, per lei sarei diventato chiunque.

I suoi occhi verdi mi scrutarono, sbatteva le palpebre e dentro di lei vedevo il riflesso dell’abisso.
Era bellissima, e allo stesso tempo era veleno puro.
Si avvicinò.
La sua mano si sollevò con grazia e si posò sul mio collo, sfiorando l’inchiostro nero del mio tatuaggio rivelando il disegno del lupo che ululava alla luna piena.
La mia mascella si serrò.
Cazzo.
Un’ondata bollente mi esplose nelle viscere spezzandomi il respiro.
Non mi ero nemmeno reso conto di essermi sbottonato la camicia e chiunque avrebbe potuto riconoscermi con facilità.
Un errore imperdonabile.

«E puoi fare uno di questi anche a me?»
La sua voce mi trascinò in un vortice. Era curiosità, era innocenza, era desiderio travestito da ingenuità.
Annuii piano.
«Che cosa vorresti fare?»
«Una libellula.»
Le mie dita si contrassero sul bracciolo del divano. Una libellula.
«E perché proprio una libellula?»
«Credo che mi ricordi mia sorella.»
Un brivido mi attraversò la spina dorsale al pensiero che non tutto era andato perduto per lei.
Era rimasto qualcosa.
«D’accordo.» Risposi, ma non ero pronto per quello che accadde dopo, quando la sua mano si spostò sulle mie labbra.
Sfiorò la carne con una carezza leggera, tratteggiandola, memorizzandola e adorandola.
Voleva baciarmi, e voleva essere divorata.
Ma la sua finta innocenta e la sua disinvoltura erano state costruite. Avevano provato a plasmarla, a spezzarla, a renderla un oggetto, e come tale si stava comportando.
«D-devo farti quella c-cosa?» Stava per inginocchiarsi.
No.
La fermai, le dita che le serravano le braccia con troppa forza, e un lampo di consapevolezza mi esplose nel cervello.
La ragazzina era vergine, ma con molta probabilità era stata abusata e addestrata per fare tutto il resto.
Un’ondata di nausea mi riempì la gola. Avrei ammazzato tutti quei pezzi di merda.
Le presi il viso tra le mani. «Non sono come gli uomini che hanno abusato di te, Lilith.»
Il suo nome mi uscì dalle labbra come una sentenza. Lilith, come il demone della tempesta.
Il nome che era destinata a portare, e un nome che mi avrebbe dannato.
Lei mi scrutò e un sorriso ombroso le sfiorò le labbra.
«Credo di chiamarmi Ana, ma Lilith mi piace.» Non aveva idea di quanto piacesse anche a me. «Dove mi porterai?»
«Lontano da qui. Avrai una casa, studierai e avrai una nuova vita normale, con dei genitori che ti vorranno bene e si prenderanno cura di te.»
Lei scosse la testa.
«Voglio stare con te.»
Le sue parole mi colpirono più forte di qualsiasi pugno, come se già avesse intuito che io non avrei fatto parte di quel quadretto.
«Attenta a quello che dici, Lilith. Io non sono la persona gentile che pensi.»
«Tu non sei come loro, lo vedo.»

Mi alzai e la sovrastai assicurandomi che sentisse il peso della mia oscurità.
«Sono peggio, molto peggio, piccolo demone della tempesta. E non credo tu voglia scoprirlo.»
Abbassò lo sguardo. Il suo respiro era lento, controllato, il petto si sollevava appena sotto il vestito troppo stretto, troppo piccolo e indecente per un corpo così fragile. Non distolsi gli occhi da lei neanche quando la vidi allungare una mano verso la sua caviglia, incurvare le dita attorno alla scarpa e sfilarla con una grazia quasi ipnotica, come se ogni suo movimento fosse studiato per avere uno scopo preciso, come se stesse seguendo un copione invisibile che solo lei conosceva, un rituale oscuro scritto nel sangue e nel peccato.
Quando il tacco si spezzò con un suono netto, qualcosa dentro di me si frantumò con esso.
La osservai trattenere il frammento affilato nel palmo della mano con una sicurezza che non avrebbe dovuto appartenere a una ragazza della sua età, con una calma inquietante e la risolutezza di chi ha già deciso il proprio destino, e non aspetta altro che il momento giusto per eseguirlo. La pelle del suo braccio si tese sotto la pressione della punta del tacco e un secondo dopo si aprì come un fiore maledetto che sbocciava solo per me.
Il sangue sgorgò lento, come un giuramento sussurrato tra le fiamme dell’inferno.
Il mio petto si strinse, i polmoni si chiusero su se stessi, la gola si seccò in un modo che non avevo mai provato prima.
Quel sangue non era solo sangue, ma un pegno, una resa e un voto eterno.
Lei non stava solo ferendosi, mi stava scegliendo e mi stava offrendo la sua anima, la sua esistenza intera.

Ogni goccia che scivolava lungo il suo braccio era un sigillo invisibile che la legava a me per sempre, una promessa che non poteva essere infranta, un legame che nessuno avrebbe mai potuto spezzare, neanche io se avessi voluto.
E non volevo, cazzo, non lo volevo affatto.
Quando sollevò il braccio e posò la ferita sulle mie labbra, fu la fine.
Il calore vischioso della sua essenza mi strisciò sulla lingua come un veleno sacro e proibito, come un sacrilegio che sapevo di non poter commettere e che allo stesso tempo desideravo con ogni fibra del mio essere.
La mia mente si svuotò.
Avrei dovuto fermarla, avrei dovuto spingerla via, avrei dovuto urlarle contro che non sapeva quello che stava facendo, che non aveva idea di cosa significasse legarsi a me in quel modo, che non c’era ritorno, che una volta offerto quel sangue non sarebbe più stata libera, che il mio marchio sarebbe rimasto su di lei per sempre, e che sarebbe diventata mia per l’eternità.
Ma non lo feci.
Le mie labbra si socchiusero, il respiro si fece pesante, le palpebre si abbassarono per un istante troppo lungo e pericoloso.
Mi leccai le labbra.
Lo feci lentamente, lasciando che il suo sapore mi invadesse e che la consapevolezza di ciò che aveva appena fatto mi penetrasse le ossa, e la mia volontà si sgretolasse sotto il peso dell’ossessione che mi stava consumando.
Ormai era mia, e lo sarebbe stata per sempre.
«Voglio essere chiaro con te, Lilith. Se ti azzardi a farti toccare da un altro cazzo di uomo che non sia io, scoprirai la mia vera natura» mi leccai di nuovo le labbra imprimendo il suo sapore più a lungo possibile.
Lei annuì debolmente senza fiatare.
«E preparati» continuai ringhiandole sul viso «perché al compimento del tuo diciottesimo anno di età verrò a farti mia e farò in modo di restare dentro di te per molto, molto tempo. Intesi?»
«Va bene» rispose, un sorriso si affacciò su quelle labbra rosa a cuore «ti aspetterò.»
I suoi occhi non la smettevano di tormentarmi.
Il mio respiro era ancora incatenato al suo quando la vidi avvicinarsi di nuovo, e il modo in cui mi guardava, come se avesse appena trovato la sua unica certezza in mezzo a un mondo di bugie.
E poi tutto accadde in una frazione di secondo.
Le sue labbra sfiorarono le mie con un tocco leggero, esitante, quasi timido, ma al tempo stesso audace, sfrontato, spietato nella sua semplicità.
Il mondo intero si fermò.
Era la cosa più innocente e più pericolosa, e la cosa più spaventosa che mi fosse mai successa.
Il gelo si diffuse lungo la mia spina dorsale, un’ondata di terrore puro mi esplose nel petto, perché quel bacio non era come gli altri, non era come le labbra che avevo sempre evitato, che avevo sempre rifiutato, che avevo sempre disprezzato.
Io non baciavo.
Mai.
Non c’era niente di più intimo di un bacio, niente di più viscerale, niente di più devastante.
Un bacio significava ricordi che volevo dimenticare, ma per la prima volta in tutta la mia vita, qualcosa dentro di me si spezzò.
Sentii un impulso feroce, incontrollabile, una fitta rovente nello stomaco, un desiderio che non avevo mai conosciuto e che mi fece più paura di qualsiasi mostro avessi mai affrontato.
Avrei potuto divorarla e farla mia in quell’istante, ma lo spavento fu più forte, e così la respinsi bruscamente, con forza e determinazione.
Lei sussultò confusa, ma non abbassò lo sguardo. Mi fissò come se stesse cercando di leggermi dentro, di capire perché l’avessi respinta, di comprendere cosa avesse scatenato dentro di me.
Non doveva scoprirlo e soprattutto non doveva sapere che era riuscita a distruggermi.
La mia voce uscì ruvida, spezzata, più un ringhio che una frase compiuta.
«Non provarci mai più, niente più baci.» Era un avvertimento e una supplica allo stesso tempo.
E mentre la guardavo, mentre il sapore del suo sangue era ancora sulle mie labbra e il calore del suo respiro era ancora imprigionato sulla mia pelle, capii che avevo appena detto la più grande bugia della mia vita.
Perché lei un giorno ci avrebbe riprovato, e io l’avrei lasciata fare, oppure lo avrei fatto io.

𝖂𝖊 𝕬𝖗𝖊 𝕮𝖍𝖆𝖔𝖘 - 𝕾𝖆𝖘𝖍𝖆 - 𝖛𝖔𝖑. 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora