capitolo 12

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SASCIA

29 anni


Sono passati cinque mesi da quando stiamo provando a disintossicare Lilith.
Cinque mesi in cui il tempo sembra essersi fermato in questa casa che ormai odora di incubi e sudore freddo, in cui ogni respiro di lei si mescola alla mia inquietudine, dove ogni suo urlo soffocato dalla febbre si incastra tra le mura, lasciando graffi invisibili nella mia mente.
Il più delle volte abbiamo dovuto legarla, proprio come mi aveva avvertito Raynold, e nonostante io sapessi che sarebbe stato necessario, ogni volta che la vedo così, il petto mi si stringe come se un cappio invisibile mi soffocasse. Perché è questo che succede quando ti accorgi che l’unica persona che hai sempre voluto proteggere è stata spezzata da mani luride.
Faccio fatica a concentrarmi sul lavoro, sulle scartoffie, sui fottuti giudici con le loro facce da cazzo che credono di avere il controllo del mondo. Negli ultimi mesi mi sono assentato troppo, ho lasciato che fosse Marisol a occuparsi di Lilith, ma da sola non ce la fa. E io non riesco a fidarmi di nessun altro.
Finché non trovo suo padre, il vero bastardo che la sta cercando, e chiunque altro abbia intenzione di farle del male, non abbasserò la guardia.
La mia casa è una fortezza, sorvegliata giorno e notte, ma nulla è davvero inattaccabile. E il solo pensiero che qualcuno possa portarmela via mi fa tremare le mani.
Alliscio la giacca Armani, stringo il nodo della cravatta con più forza del necessario e sistemo i gemelli ai polsi. Osservo il mio riflesso nello specchio della camera degli ospiti e vedo un uomo che ha perso il controllo.
Un uomo che non riesce a stare lontano da lei.
Ho bisogno del suo respiro sul mio petto, che il più delle volte sento quando la cullo per calmarla, quando il suo corpo febbricitante si stringe al mio in cerca di sollievo e la mia unica dannata certezza è che non voglio lasciarla andare.
Ho bisogno che capisca qual è il suo posto prima che il mio cervello esploda per l’impazienza.
Perché è al mio fianco che deve addormentarsi. È il mio calore che deve cercare, le mie mani che devono sfiorarla quando il buio la terrorizza. Non in un’altra cazzo di stanza, non lontana da me.
Avevo sottovalutato quanto sarebbe stato difficile averla qui, ogni giorno, sapendo che non posso toccarla come vorrei.
Dormire a pochi metri da lei, sentire la sua presenza ovunque senza poterla reclamare, è una tortura che nemmeno l’inferno saprebbe infliggermi.

Meglio allontanare il pensiero e uscire prima che dia di matto.
Scendo le scale con passo pesante, il legno scricchiola sotto il mio peso mentre il profumo della colazione mi avvolge.
Nella cucina, Rick è appoggiato alla penisola con un toast tra le mani, e lo sguardo basso, perso in qualche angolo buio della sua mente.
«Vado in tribunale, ci pensi tu?» chiedo, la sua espressione è priva di emozioni, come se fosse stanco anche solo di parlare.
So perché sta così.
E so anche che non ha dormito, che ha passato la notte davanti alla porta della stanza di Lilith, come fa sempre quando io mi costringo ad allontanarmi da lei per qualche ora.
«Vai tranquillo, ci penso io a lei.» Risponde, ma la sua espressione resta cupa.
«Alza la testa.» Il mio tono è duro, abbastanza per farlo trasalire.
Non gli ho insegnato a essere un uomo sottomesso.
Lentamente solleva gli occhi e porta il bicchiere di succo alle labbra.
I suoi lineamenti sono tesi, gli occhi più blu del solito e le sopracciglia aggrottate.
«Da domani torniamo nelle catacombe per qualche giorno» annuncio, senza dargli possibilità di replica. «Non ho intenzione di vedere mio figlio cadere in depressione. Ho già due fratelli idioti che si stanno crogiolando nelle loro pene d’amore, non permetterò che accada anche a te.»

Rick si blocca.
Posa il bicchiere sul bancone, incrocia le braccia al petto e il suo sguardo diventa ancora più freddo.
«E come facciamo con la tua Lilith?» La domanda mi attraversa come un coltello affilato.
«Non chiamarla così, Rick.» La mia voce è più ruvida di quanto vorrei, il mio autocontrollo vacilla mentre stringo i denti.
Non posso chiamarla in quel modo, non ancora.
Quando l’ho portata qui, quella parola mi è scivolata dalle labbra come un vizio mai davvero abbandonato, ma per fortuna lei era troppo confusa, troppo stordita per ricordarselo.
Rick mi fissa.
«Ti odierà se non le dici chi sei. Non essere l’ennesimo uomo della sua vita che vuole portarle via il suo passato. Non è una bella sensazione.»
Il suo tono è privo di ogni emozione che possa sembrare fragile.
Ma io lo conosco troppo bene, non sta parlando solo di Lilith.
Mi fisso su di lui, osservo i suoi lineamenti divenuti più duri negli ultimi anni, il modo in cui tiene le spalle rigide, come se portasse un peso che non riesce a scrollarsi di dosso.
«Beh, che c’è?» Alza un sopracciglio.
Mi avvicino e gli stringo un braccio intorno alla testa, attirandolo a me.
«Sei un uomo, ecco cosa c’è.» Gli arruffo i capelli, un gesto che facevo spesso anni fa, quando ancora si lasciava toccare senza irrigidirsi. «E sono così orgoglioso di te che nemmeno immagini.»
Rick emette un piccolo sbuffo di disappunto.
«Così orgoglioso che mi porti di nuovo nelle catacombe» borbotta, arricciando un labbro.
«Ci servirà a entrambi.»
Il telefono vibra nella mia tasca.
Lo estraggo con un movimento lento e lo sguardo mi si indurisce non appena leggo il messaggio sul display.

Kovalenko S.: Ci vediamo tra un’ora nel tuo ufficio.

Tribunale, giudici del cazzo e Kovalenko Senior.
Il fastidio mi scivola sotto pelle come un veleno lento.
«Vedi?» allungo il telefono verso Rick permettendogli di leggere il messaggio. «È per questo che dobbiamo andarci, devo sfogarmi.»
Mi studia per un secondo, poi sorride appena e mi dà una pacca sulla spalla.
«Vai» dice con una sicurezza che non mi piace, come se volesse convincermi che tutto è sotto controllo. «Ci penso io qui. Si rimetterà.»
Lilith è ancora un caos che non posso gestire, e il pensiero di lasciarla, anche solo per qualche ora, mi brucia nel petto come una condanna.

Non appena salgo sul Cayenne, un riflesso argentato mi cattura la vista. Un piccolo luccichio, quasi impercettibile, ma che riesce comunque a distrarmi dai pensieri che mi tormentano. Scendo con lo sguardo e lo vedo lì, incastrato tra il sedile e il tappetino. Una libellula d’argento.
Mi chino e la raccolgo con due dita, rigirandomela tra i polpastrelli come se potesse trasmettermi la sua energia. Deve averla persa Lilith la notte in cui l’ho salvata.
Non essere l’ennesimo uomo della sua vita che vuole portarle via il suo passato
La voce di Rick rimbomba nella mia testa come un colpo di pistola mentre stringo il ciondolo tra le dita, quasi a volermelo imprimere nella carne.
No, non le porterò via niente, anzi sarò l’unico uomo a restituirle il passato e a regalarle un futuro.
Accendo il motore con ancora quel piccolo oggetto tra le dita e mi avvio verso il tribunale.
La mattinata scivola via tra carte, firme, e scartoffie, mentre il mio umore oscilla tra il gelo e il fuoco, e quando entro nel mio ufficio, lo trovo già lì.
Alto, imponente, la sagoma proiettata contro la grande vetrata che domina San Diego, con le mani dietro la schiena, il profilo rigido e il mento leggermente sollevato in un’espressione di assoluta superiorità.
Kovalenko Senior.
«Sei in ritardo.» La sua voce taglia l’aria.
Socchiudo gli occhi, inspirando a fondo per non affondargli un pugno in faccia.
«Mi hai dato un ordine?» inclino il capo, osservandolo con disgusto. «Io non prendo ordini da nessuno. Tantomeno da te.»
Attraverso la stanza con calma apparente, facendo scorrere un dito sul ripiano di mogano della scrivania. Poi lo sollevo, scrutando la polvere invisibile sulla pelle.
Dovrò licenziare l’ennesima impresa di pulizie.
Segno l’appunto nella mente mentre mi lascio cadere sulla poltrona in pelle, dietro la scrivania, e inizio a mandare delle mail.
«Dovrai abituarti agli ordini,» ribatte, senza nemmeno girarsi. «Una volta che entrerai nel consiglio della Bratva, non potrai permetterti di ignorarli.»
Inarco un sopracciglio.
«Me ne ricorderò.»
Non mi importa un cazzo della Bratva, non prima di avere abbattuto l’Associazione.
Mio padre si volta e mi osserva. I suoi occhi, dello stesso identico blu dei miei, mi scrutano con riluttanza, come se fosse costretto a guardare qualcosa di indegno.
Non mi piace questa sensazione.
«Cosa ti serve?» chiedo, chiudendo il laptop con un colpo secco.
«Dovrei per forza volere qualcosa? Non posso venire a trovare il mio figlio prediletto?»
Scoppio in una risata amara.
«Se fossi stato il tuo figlio prediletto, non mi avresti spedito dall’altra parte del mondo a tre anni.»
Kovalenko Senior stira le labbra in una smorfia.
«Sei rancoroso. Questo non ti farà bene.»
No, padre, non sono rancoroso, sono fatto della stessa oscurità che hai riversato nella mia vita.
«Ciò che provo nella mia fottuta vita sono cazzi miei,» sibilo, inclinandomi in avanti. «Ora dimmi che cazzo vuoi e levati dai coglioni.»
Si sistema la giacca e dopo qualche secondo si decide a parlare.
«Nel weekend terrò un evento nella villa.»
Sbuffo. «E quindi?»
«Parteciperanno i maggiori esponenti della Bratva e alcune famiglie italiane.» Resto in silenzio, aspettando la parte che so già mi farà incazzare. «Troverò un marito per Alys.»
In un lampo, salto sulla scrivania, sfilo la berretta dalla cintura e gliela infilo dritta in bocca.
«Ti ho già detto di starle lontano.» La mia voce è una promessa di morte che gli vibra tra i denti. «Tocca mia sorella ancora una volta, sfiora un solo cazzo di capello della sua testa, e giuro sul tuo Dio che ti darò in pasto a Sergey.»
Gli occhi di mio padre si spalancano. So cosa sta pensando, che non posso ucciderlo senza il permesso del consiglio, ma sa anche che posso distruggerlo in qualunque altro modo. «Tutto chiaro?»
Annuisce, mormorando qualcosa contro il metallo della pistola.
Lo lascio andare, pulendo la berretta sulla sua cazzo di giacca costosa lasciando una scia di saliva lungo il tessuto nero.
«Sei un fottuto psicopatico,» ringhia, strofinandosi la bocca. «Alys ha bisogno di un marito che…»
Gli afferro il colletto e lo tiro verso di me, i denti digrignati, il sangue che mi pulsa nelle tempie.
«Non ti è bastato quello che le hai fatto?» la mia voce è veleno puro. «Le cintate. La scuola. Il dolore. E adesso vuoi venderla di nuovo come merce di scambio?»
Kovalenko Senior scuote la testa, alza le mani. «Io non sapevo, non sapevo cosa accedeva in quella scuola.»
«Ma hai comunque provato a venderla a quei fottuti mafiosi italiani per i tuoi sporchi interessi, ho dovuto faticare per togliermeli dai coglioni.»
«Vittorio era un ottimo partito, tu non capisci.»
Lo zittisco con uno strattone.
«Sarà Alys a decidere chi sposare, se e quando avrà voglia di farlo. E sarà qualcuno che amerà con tutta sé stessa. Nessuno di meno» un sentenza che non ammette repliche «se sei arrivato fin qui per dirmi questo, puoi andartene» lo lascio andare e mi allontano guadagnandomi alcune parole di disprezzo mentre barcolla all’indietro.
«Allora portala via,» sputa fuori, «non la voglio tra i piedi se non può servirmi.»
Sento il grilletto della pistola premere sotto il dito mentre l’indice vibra implorandomi di sparargli un colpo secco in mezzo alla fronte.
Lo fisso dritto negli occhi, poi spingo la canna contro la sua fronte.
«Sei vivo solo grazie a lei.» Spingo più forte. «Dovresti inginocchiarti ai suoi piedi ogni giorno.»
«Farò come dici» promette rassegnato, con voce debole.
Le sue mani tremano e potrei giurare di sentire una puzza di piscio provenire dal cavallo dei suoi pantaloni «ti ricordi che cosa ti ho fatto quando ho scoperto delle tue cintate sulla sua schiena?» annuisce «a te piace prendertela con chi non può difendersi, ma ci sono io dietro di lei, per cui attento a come ti muovi, papà.» La mia minaccia è una sentenza di morte che non può ignorare.
«Lasciami stare, Sascia. Ho capito» la sua voce vibra, così come il suo corpo scosso dal terrore.
«Lo spero per te. Ora vattene e non mettere più piede qui dentro.»
Kovalenko Senior esce barcollando, chiudendosi la porta alle spalle.
Resta solo il silenzio, e il puzzo della sua anima marcia.

Mi rimetto seduto e i miei occhi saettano sul calendario plastificato appeso alla parete.
Oggi è Giovedì Santo e fra tre giorni sarà Pasqua.
Giovedì Santo.
Il cammino di penitenza, il giorno in cui i fedeli si liberano dai peccati, si preparano alla resurrezione e si purificano.

Ma qui non c’è redenzione, e nemmeno assoluzione. Qui non c’è resurrezione, solo il peso del passato che ritorna sempre, che mi avvolge la gola come un cappio stretto fino a soffocarmi.

La presenza di Lilith mi aveva fatto dimenticare per un breve istante l’incombenza di questo giorno, ma niente e nessuno può cancellarlo.
L’odore dell’incenso torna a riempirmi le narici, lo sento nel palato, mi brucia la gola.
Prendo la bottiglia di vodka e ne mando giù un sorso. Poi un altro. E un altro ancora, come se potessi lavarmi via la memoria, come se il liquido trasparente potesse sciogliere il ricordo di ciò che è stato, ma non arriva mai quel sollievo, mai quel calore che anestetizza il dolore, perché oggi è Giovedì Santo e tutto ritorna.
Allento la cravatta, il fiato mi si mozza nei polmoni, il sapore metallico dell’odio e del sangue torna a impregnarmi la bocca, il sapore di tutto ciò che è rimasto in sospeso.
La mia mano si infila nella tasca dei pantaloni e si chiude attorno al piccolo ciondolo d’argento, la libellula.
Lo stringo forte fino a sentire la pelle delle dita bruciare.

Non essere l’ennesimo uomo della sua vita che vuole portarle via il suo passato.

La voce di Rick mi rimbomba nella testa, mi sferza il cervello come una frustata.
Il telefono vibra sul tavolo, ignoro la chiamata la prima volta, la seconda, la terza. Alla decima rispondo con un ringhio soffocato di rabbia.
«Non sono dell’umore, Daniel.»
La sua voce è un’eco del mio stesso tormento.
«Lo so, amico mio. Ho visto il calendario e avevo bisogno di sentirti.»

Giovedì Santo.

«Ci vediamo alle catacombe.»
Attacco la chiamata, non serve altro. Daniel sa, perché anche lui, come me, ha visto, ha vissuto, è stato spezzato nello stesso modo in cui lo sono stato io.
Me ne vado e attraverso la sede dell’azienda ignorando la segretaria che mi chiama con voce stridula. Non ho tempo per le sue lamentele, non ho tempo per niente se non per il richiamo del passato che mi sta afferrando per la gola.
Il mio uomo mi sta già aspettando con il motore acceso.
«Alle catacombe.» Sprofondo sul sedile mentre l’auto sfreccia lungo la strada sterrata, addentrandosi infine nel bosco di querce. Il fruscio dei rami contro il parabrezza è un suono che mi graffia il cervello, ogni foglia spezzata è un frammento di memoria che ritorna a tormentarmi.

Giovedì Santo.
Giovedì Santo.

Quando scendo dall’auto, Daniel è già lì, immobile, con il volto teso e le mani serrate a pugno. Non ci scambiamo parole, non servono. Ci incamminiamo lungo il sentiero che ci conduce nell’oscurità.
Le catacombe si spalancano davanti a noi come la bocca di un mostro in attesa di divorarci.
Il primo ambiente è un’ampia cavità scavata nella roccia, le torce fissate alle pareti tremolano nel buio, la luce vacilla creando ombre contorte che si allungano fino all’altare di pietra, posizionato al centro della sala.
Due crocifissi rovesciati torreggiano ai lati dell’altare, le loro ombre nere si proiettano sulle pareti come presenze maledette, testimoni silenziosi di ciò che è avvenuto in questo luogo.
La pietra è ancora fredda sotto le dita, gelida come il ricordo.
Il respiro mi si inceppa nei polmoni mentre fisso il blocco di marmo e il mio stesso sangue si congela nelle vene.
Mi libero degli abiti con movimenti lenti, misurati, come se ogni gesto fosse un rituale.
Piego la camicia con cura e la sistemo accanto ai pantaloni sull’altare.
Daniel fa lo stesso, ma rimane in disparte, attende.
Appoggio i palmi sulla pietra e chiudo gli occhi.

Il passato ritorna.
Il passato ritorna sempre.

Mi giro e mi incammino verso il muro laterale, allungo la mano e spingo il grande masso che cela l’ingresso della seconda camera.
Il passaggio segreto si apre rivelando  una fessura nell’oscurità e un varco verso l’inferno con un altro altare, e delle lunghe catene.
Le maglie di ferro attaccate ai lati sono spesse, rigide, nere di ruggine e peccato, ancora intatte come se il tempo non fosse mai passato.
Le parole incise nel marmo, consumate dagli anni, sussurrano il loro messaggio in latino, ripetendolo come un canto funebre.
Omnia munda mundis. Per chi è puro, tutto è puro.
Mi avvicino, il cuore mi batte contro le costole con una violenza sorda.
Non dovevo tornare qui.

La mia mano si posa sulla pietra fredda e segue i contorni dell’altare, le dita scivolano lungo i segni incisi, tracciano il perimetro, e il passato mi esplode dentro come un proiettile che squarcia la carne.
La mia mente è un vortice di immagini, alcuni ricordi sfocati e altri fin troppo nitidi che si intrecciano fino a soffocarmi.
Le catene risuonano nella memoria, il tintinnio metallico è un’eco di dolore.
Respiro.
Uno.
Due.
Tre.
Ma il buio mi avvolge e io precipito.




Passato
12 anni


«La tua voce è cambiata, Sascia. Vuol dire che sei un uomo e sei pronto per il Giovedì Santo. Il giorno in cui i fedeli verranno assolti dai loro peccati. Ma tu sei il prescelto e il tuo compito è quello di dare inizio a una nuova generazione.»
La voce di don Vadim è fredda e calcolata.
Sono anni che mi fa assistere ad atti di purificazione di ragazzini dicendo che a me non serve, perché sono il prescelto di nostro Signore, ma devo osservare.
Ho dodici anni, e oggi è Giovedì Santo.
Con molta probabilità è arrivato il mio giorno, ma ancora non capisco cosa dobbiamo fare in questa caverna.
È freddo, umido, e la mia pelle è appiccicosa.
L’altare si erige al centro della stanza illuminata da torce infuocate appese alle pareti rocciose, e io non mi sono mai sentito così vulnerabile come adesso.
Una paura innata mi striscia dietro la nuca.
Indosso solo una tonaca bianca, sono scalzo e i miei piedi si stanno arricciando per il dolore.
«Sdraiati» indica l'altare con gli occhi.
Mi fa male la pancia e mi viene da vomitare.
So cosa succede durante le purificazioni ma, se a me non serve, perché devo sdraiarmi qui sopra?
«Avanti» mi incita.
Stringo i pugni lungo i fianchi con la voglia matta di strillare e ribellarmi, ma sono ancora troppo debole.
I duri allenamenti delle giornate che passo alle catacombe, non bastano ancora per distruggere questa gente e questo maledetto luogo di torture.
Lo chiamano “culto religioso”.
Hanno la mente deviata, lo capisco persino io che sono un ragazzino.
Eseguo l’ordine e mi sdraio sulla pietra gelida mentre lo zio mi incatena polsi e  caviglie.
Cazzo, non voglio.
«Vedrai ti piacerà il tuo dono» sogghigna e io vorrei sputargli in faccia.
Aspetto mezz’ora in solitudine e in penombra.
Conto l’eco dei passi che sta per raggiungermi e trattengo il respiro.
La paura si intensifica fino a ostruirmi la gola, poi arriva il mio dono.
Scuoto la testa impossibilitato a fuggire e serro gli occhi.
Delle mani fredde accarezzano la mia pelle che viene graffiata con affilate unghie. Schiudo le palpebre, le vedo.
Sono nere come l’oscurità.
Labbra carnose rosso fuoco invadono la mia bocca con prepotenza.
Sposto la testa di lato, ma non riesco a contrastare la sua forza che mi trattiene il viso.
Mi fa schifo.
Poi quelle mani viscide iniziano a vagare sotto la tunica.
«Sei così duro per me. Lo senti?»
No, no, no. Vattene.

Presente

I ricordi sono come un veleno che si insinua sotto pelle, scivolano dentro di me come un fiume torbido e denso che corrode ogni strato della mia coscienza, avvelenandomi lentamente, senza scampo. È come se ogni singolo istante di quel passato maledetto fosse intrappolato nelle ossa, nei muscoli, nel respiro. Non importa quanto cerchi di sotterrarli, tornano sempre a galla, strappandomi la pelle dall’interno, riportandomi a quel dolore che non posso, e forse non voglio, dimenticare.

Mi giro di scatto, il cuore martella forte, troppo forte, come se volesse sfondarmi il petto per liberarsi di tutto ciò che porto dentro. Il buio avvolge le pareti scrostate della caverna, il respiro mi si mozza in gola, la torcia trema tra le mie dita per un istante prima che io la spenga con un movimento brusco. L’oscurità mi inghiotte, ma è una vecchia compagna, una presenza che conosco fin troppo bene.

Faccio qualche passo indietro e torno fuori, la pietra gelida sotto i piedi scalzi mi riporta alla realtà, ma non basta. Nulla basta mai. Mi porto una mano al viso, il palmo caldo sfiora una goccia d’acqua salata che cerca di scivolarmi lungo la guancia, ma la cancello prima che possa tradirmi.

Daniel è fermo, immobile come una statua nel suo angolo di penombra con il viso contratto in un’espressione che non so se sia rispetto o paura. La sua voce, quando parla, è solo un soffio nell’aria umida e pesante.

«Tutto bene?»

Le sue parole mi arrivano lontane, ovattate, come se stessero attraversando una barriera invisibile tra me e il resto del mondo. Lo fisso per un lungo istante, il fiato ancora irregolare, il petto che si alza e si abbassa sotto il peso di un’ira che non ha mai trovato pace.

«No.» La mia voce è un sussurro basso, raschiato dalla furia trattenuta a stento. «Ma tra poco andrà meglio.» Segue un attimo di silenzio, poi raccolgo le forze per impartire un comando. «Prendi la frusta.»

Un altro ricordo doloroso per il nostro Sascia.

𝖂𝖊 𝕬𝖗𝖊 𝕮𝖍𝖆𝖔𝖘 - 𝕾𝖆𝖘𝖍𝖆 - 𝖛𝖔𝖑. 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora