capitolo 8

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ANASTASYA

19 anni





«Non ci torno a casa.»
La mia voce taglia l’aria della stanza, una lama sottile e affilata che si conficca nello spazio tra me e Miro, ma lui non si ferma e non smette di perseguitarmi da una settimana, come un’ombra nera che mi soffoca anche quando ho gli occhi chiusi.

Se scopro che è stato lui a entrare nel mio nuovo appartamento e a lasciarmi quelle cazzo di rose nere, giuro che lo uccido con le mie mani. Gli strappo il cuore dal petto e lo calpesto fino a ridurlo in poltiglia.

Non mi fido più. Da quando ho sentito quella telefonata e la sua voce si è fatta troppo carica di segreti, il mio istinto ha iniziato a urlarmi di scappare e di stare lontana da lui.

Miro si avvicina. Il suo odore mi invade le narici di Whiskey, fumo e sudore.
I suoi occhi sono due fessure scure, due pozzi di veleno in cui non voglio cadere.
«Ragazzina, attenta.» La sua voce è un avvertimento che mi gela il sangue. «Sto per perdere la pazienza.»
Si china verso di me, il fiato caldo mi sfiora la pelle. «O torni a casa da sola, oppure ti ci porto con la forza.»
Mi giro di spalle senza dargli alcuna soddisfazione, prendo il borsone dal letto e inizio a sistemare i vestiti nell’armadio in gesti meccanici, come se riordinare la mia roba potesse riordinare anche il casino che ho nella testa.

Non voglio tornare indietro.
Mia madre la pensa come lui, ma almeno ha deciso di aiutarmi, e ha accettato di trasportare tutte le mie cose nel mio nuovo appartamento senza fare troppe domande. L’ho abbracciata prima che andasse via, le ho detto che sto bene, che può stare tranquilla.
Ma nei suoi occhi ho visto la verità, ho visto il dolore e la resa.
Sa di avermi persa, e io non ho fatto niente per smentire la sua sensazione.
Perché non c’è nulla da smentire, non tornerò mai più.

«Ho diciannove anni, forse te lo sei dimenticato.»
Il mio tono è piatto, freddo, indifferente, ma dentro mi si sta scatenando l’inferno. Il solo sentirlo nella mia casa mi fa prudere la pelle, mi fa venire voglia di strapparmi via ogni strato di carne fino ad arrivare alle ossa e cancellare tutto, persino il mio padrone.
Il mio fottuto padrone che mi ha lasciata in questa famiglia di merda, ignaro – o forse perfettamente consapevole – del fatto che mi avesse affidato ad altri mostri.
Forse era quello che voleva, che aveva deciso per me anche quando mi ha presa.
Prima mi ha marchiata e poi è scomparso, abbandonandomi proprio come tutti gli altri.

Eppure, lo sento ovunque.
Sento il suo respiro sul collo, il suo sguardo sulla pelle, e le sue mani su di me anche quando sono sola.
Devo smetterla di pensare a lui e di desiderarlo.
Perché nessuno mi sta cercando?
Perché nessuno mi vuole?

La presa di Miro sul mio braccio è improvvisa e prepotente.
«Ti do tempo fino a stasera.» La sua voce è un’arma mentre le sue dita si stringono attorno al mio gomito con una forza che mi fa male.
Mi volto di scatto e lo guardo dritto negli occhi.

«Perché vuoi che torni a casa?» Stringo i denti, il cuore mi martella contro le costole, il respiro si incastra nella gola. «Perché lì puoi controllarmi meglio E rifilarmi quella merda che mi fa dormire?» La mia voce si alza, mi esplode fuori dal petto come una frustata.
Lui sbatte le palpebre, sorpreso. Ma solo per un istante.
«Cosa? No, bambina. Ma che dici?» Ma sono bugie che durano un attimo. «Di che diavolo parli?»
Lo spingo via con forza, il corpo che vibra di rabbia, le mani che tremano.
«Di quelle cazzo di medicine, papà! Quelle che mi dai per stordirmi!»

Lui resta immobile in un silenzio lungo, poi il suo sguardo cambia mentre il suo respiro si fa più pesante e le sue mani si muovono troppo in fretta.
Segue uno schiaffo, e poi un altro ancora fin quando non cado di schiena sul letto.
La pelle mi brucia, la vista mi si annebbia per un secondo mentre realizzo che Miro mi ha appena colpita senza esitazione.
Mi raddrizzo lentamente, la mia mano sfiora la guancia in fiamme. Lo guardo e capisco finalmente che non mi ha mai voluto bene.
La mia voce è un sibilo velenoso.
«Vattene.» Mi alzo di scatto, lo spingo indietro con tutta la forza che ho nel corpo. «Vattene subito da questa cazzo di casa.»
Lui mi fissa con uno sguardo severo.
«Stasera, Ana. Entro stasera ti voglio a casa.» Poi se ne va sbattendo la porta.

Mi accascio a terra con le lacrime che scendono da sole, calde, salate, rabbiose.
Non tornerò, non andrò più in quella casa, e se pensa di potermi riportare indietro con la forza, si sbaglia di grosso.

*

Il retro della tavola calda profuma di farina e vaniglia, un odore che dovrebbe darmi conforto, ma che oggi mi soffoca. Mi infilo il grembiule e inizio a preparare gli ingredienti per i dolci, anche se non è tra le mie mansioni. Non dovrei stare qui, ma ho bisogno di distrarmi e di sentirmi normale, almeno per qualche ora.
«Che ci fai qui?»
La voce di Roya mi riporta alla realtà.
È minuta, i capelli grigi raccolti in una crocchia disordinata, le mani sempre occupate a impastare, tagliare, creare. È stata lei a insegnarmi a cucinare, ed è l’unica a preoccuparsi per noi ragazze senza aspettarsi nulla in cambio.
Le sorrido e le poso un bacio sulla guancia.
«Ti aiuto, Roya. Non si vede?»
Lei mi guarda con un misto di affetto e rimprovero, poi il suo sguardo si fa più attento.
La sua mano si solleva, mi sfiora il viso e le dita premono leggere sulla mia guancia.
«Chi ti ha fatto questo?»
Non pensavo che Miro mi avesse lasciato il segno.
Porto le dita sulla pelle ancora dolente e abbozzo una smorfia.
«Nessuno, Roya. Una crema scaduta mi ha procurato un’allergia.»
Lei non dice nulla, ma il suo sguardo mi trafigge mentre scuote la testa, rassegnata.
Mi tolgo il grembiule con un sospiro e vado in sala, consapevole di aver detto una bugia, l’ennesima della mia vita, a una persona che non se lo merita.
Rio, il barman, mi lancia un’occhiata.
«Porta questi quattro gin tonic al tavolo venti.»
Annuisco, afferro il vassoio con le mani ferme, ignorando il nodo che mi stringe lo stomaco.
Attraverso la sala, il rumore delle risate e delle chiacchiere che si mescola al tintinnio dei bicchieri, un brusio di fondo che mi culla tenendomi ancorata al presente.
E poi sento quel dannato profumo che mi ricorda qualcosa di pericoloso e proibito.
Il mio corpo reagisce prima della mia mente e un calore improvviso mi si arrampica lungo la spina dorsale.
Mi volto troppo in fretta, senza guardare, e vado a sbattere contro un muro.
No, non un muro, ma un corpo: il suo, quello di Sascia.
Il vassoio oscilla nelle mie mani e le dita si stringono attorno al metallo per non lasciarlo cadere, ma sono io quella che sta per crollare.
La sua voce mi avvolge, profonda, vellutata, una carezza e una minaccia insieme.
«Attenta, ragazzina.» La sua presenza è un veleno dolce che mi intossica. «Oppure la prossima volta sarò costretto a farti causa.»
Lo guardo, troppo da vicino e troppo a lungo.
Il mondo si dissolve ai bordi della mia visione e in questo momento esistiamo solo io e lui.
La sua mano si solleva, mi sfiora il mento, lo alza con delicatezza, costringendomi a guardarlo mentre i suoi occhi si agganciano ai miei, mi spogliano e mi divorano.
Vedo il fuoco dentro di lui.
«Scusami.» Distolgo lo sguardo incapace di affrontarlo.
Ma lui non me lo permette e le sue dita mi sfiorano la guancia arrossata.
La pelle brucia sotto il suo tocco, diverso da quello che mi ha lasciato Miro, un bruciore che non voglio combattere.
Stringo le gambe, perché il desiderio mi avvolge, mi soffoca.
Voglio allontanarmi, ma anche che mi tocchi ancora.
«Dammi un nome.» La sua voce è una sentenza.
«Cosa?»
«Voglio il nome dello stronzo che ha osato toccarti.» Il suo tono è gelido e non è una domanda quella che mi ha appena fatto, ma un ordine.
Il mio cuore si ferma, poi riprende a battere, più forte, più veloce, più furioso.
Non posso dargli un nome, non a lui, perché non è lui la persona che dovrebbe aiutarmi e interessarsi a me.
Affondo le dita nel suo polso e lo allontano con uno schiaffo.
«Non sono affari tuoi.»
La mia voce è dura, ma dentro sto tremando, perché so di averlo provocato.
E Sascia Kovalenko non è un uomo che accetta di essere sfidato.
«Tutto quello che ti riguarda è affare mio.» I suoi occhi si fanno più scuri. «E prima lo capirai, meglio sarà per te.»
Il mio respiro si inceppa.
I miei occhi scivolano lungo il suo corpo, sui muscoli tesi sotto la camicia, sulle vene che pulsano sulle sue mani, sulla forza contenuta dentro di lui come un’onda pronta a travolgermi.
«Ti ho già detto che nella mia vita c’è qualcuno. E fossi in te lascerei perdere.»

La sua bocca si curva in una smorfia di disappunto, ma nei suoi occhi vedo qualcos’altro. Sfida.
«È la seconda volta che lo dici.» Si avvicina. «Eppure, non vedo mai nessuno vicino a te.»

Quando il suo pollice sfiora il mio labbro inferiore, la mia pelle prende fuoco.

Si china su di me, il calore del suo respiro sulle mie labbra, il suo profumo che mi avvolge come un veleno dolce e letale.
«Che fai, ora mi segui?» Sussurro.
«Sempre.»
Il mio stomaco si chiude.
Sascia Kovalenko mi sta addosso come un demone che aspetta solo di divorarmi e il problema è che voglio essere divorata.
Il mio cuore martella nel petto con una violenza che mi fa male alle costole, ogni battito un colpo che mi spinge a muovermi, a strapparmi via da quel posto, dalla sua voce, dal suo sguardo, dal veleno che mi sta iniettando nelle vene solo stando vicino a me.
Perché mi segue?
Perché mi osserva come se fossi già sua, come se il mondo intero fosse solo una pedina in un gioco che lui ha già vinto, come se ogni mio respiro gli appartenesse senza che io gli abbia mai dato il permesso di reclamarmi?
Le sue parole mi rimbombano nel cranio, un’eco che si ripete in un loop soffocante.

Che fai, ora mi segui?
Sempre.

Mi tolgo il grembiule con un gesto rabbioso, il tessuto mi scivola tra le dita come sabbia, il respiro corto. Devo andarmene.
Attraverso la porta sul retro con passi affrettati, il cuore che mi martella nelle orecchie come tamburi di guerra, Sascia che mi segue con gli occhi, ogni cazzo di secondo, ogni fottuto movimento.
E poi il ricordo delle parole di Rick esplode dentro la mia testa ed è una lama che riporta a galla la verità.

“Mio padre non si piega a nessuno. Sarai tu a piegarti a lui.”
“Non succederà mai.”
“È già successo, stronzetta.”

Mi manca l’aria, ma le parole si incastrano nei miei pensieri.
E se avesse ragione?
Se fosse già successo?
Se mi stessi già piegando, senza nemmeno accorgermene?

Il pensiero mi terrorizza più della sua voce, più del suo sguardo, più delle sue mani che mi hanno sfiorata per un solo, lunghissimo istante, abbastanza per farmi capire che voglio di più, che voglio perdermi in lui, che voglio sentirmi di nuovo posseduta.
No.
Mi spingo oltre la porta d’acciaio, il rumore che rimbomba nel vicolo dietro la tavola calda, l’aria della sera mi schiaffeggia il viso non basta a placare il fuoco che mi brucia sotto la pelle.
Scivolo sulla sella della Vespa, le mani che tremano mentre giro la chiave, il motore che ruggisce nella notte mentre scappo via, lontana da lui.
Sfreccio sulla statale, la strada un nastro scuro davanti a me, i fari che tagliano l’oscurità in fasci intermittenti, la città che si allontana alle mie spalle mentre il respiro resta bloccato a metà, come se il mio petto fosse troppo piccolo per contenerlo.
Il vento mi strappa i capelli dal viso e mi sferza le guance. Dovrebbe aiutarmi a calmarmi ma ogni muscolo del mio corpo è teso come una corda pronta a spezzarsi.
Perché non smette?
Perché non riesco a spegnere il suo sguardo nella mia mente?
Perché la sua voce mi segue anche ora, sussurrandomi all’orecchio, graffiandomi la pelle, torcendomi lo stomaco in un nodo di paura e desiderio?

Sempre.
Mi segue?
Sempre.

Dove cazzo è il mio Padrone?
Hai detto che sarei stata tua per sempre, e invece mi hai lasciata da sola.

Mi sento stringere la gola, la rabbia e il dolore si fondono in un’unica fiamma che mi consuma il petto.
Non voglio sentirmi così, non voglio sentire la sua mancanza e non voglio desiderare Sascia.

Arrivo davanti al mio appartamento, parcheggio in fretta con le mani sudate mentre infilo la chiave nella serratura.
La luce è spenta e c’è silenzio, ma appena i miei occhi si posano sul letto, il respiro si ferma.
Una rosa nera, ed è solo un’altra maledetta conferma che qualcuno è stato qui e continua a seguirmi.

Mi segui?
Sempre.

Dannazione, la verità dura mi colpisce dritta in faccia.
Mi avvicino lentamente, le dita tese mentre afferro il fiore con entrambe le mani.
Sascia, o chiunque tu sia, sparisci dalla mia vita.
Lo strappo, con violenza, i petali che volano via, scivolano attraverso la finestra aperta, si spargono sul cemento ancora caldo.
Ma il mio cuore continua a martellare, e non va per niente bene.
Mi spoglio in fretta e i vestiti che cadono a terra senza ordine.
Ho bisogno di acqua, di lavarmi via di dosso tutto questo.
Mi infilo sotto la doccia con il getto bollente che mi scorre sulla pelle, scivola lungo la schiena, mi accarezza la cicatrice sulla spalla.

È già successo, stronzetta.

Le parole di Rick mi perseguitano sovrapponendosi al pensiero di Sascia e del mio Padrone, i due demoni che combattono dentro di me, due presenze che non mi lasceranno mai andare.
Due ossessioni.
Stringo i pugni. No.
Non può essere lui.
Sascia non può essere il mio Padrone
Ma il dubbio mi si insinua nella carne come un veleno che si diffonde nel sangue, una paura che mi stritola il petto.
E mentre fioro la cicatrice, il suo marchio, accade il peggio.
I ricordi tornano in un’ondata che mi travolge senza pietà.
Gli altari in pietra.
Le vesti bianche.
Le mani che mi afferrano per i capelli, che mi stringono, che mi spezzano.
Il dolore che mi squarcia.
Le purificazioni.

Un singhiozzo mi sfugge dalle labbra in un suono soffocato dalla paura, dal terrore che si risveglia, dalla verità che sto provando a seppellire e che torna sempre a riprendermi.
Stringo le braccia attorno al petto, ma sono ancora lì, nel passato, nel maniero.
Nel posto da cui non sono mai fuggita davvero.



Passato

«Ragazzina vieni qui» la voce di don Vadim è ruvida «ti insegno a diventare una donna.»
«Non voglio farlo!» Grido, e un ceffone violento si schianta sul mio viso.
«Lo farai invece, come la brava bambina che ti ho insegnato a essere.»
Don Vadim mi fa inginocchiare tra le sue gambe. È seduto sulla poltrona rossa nello scantinato del maniero.
È lì che dormo, in un angolo buio, sopra un vecchio letto di ottone con un crocifisso appeso sulla parete, di fronte a me.
«T-ti prego, a me n-non piace fare questa cosa» i singhiozzi mi squarciano il petto, ma a lui non importa nulla.
Si alza la veste e si slaccia la cintura, poi mi prende la testa con forza e mi fa aprire la bocca.
«È così che devi servire il tuo uomo, un giorno. Vedrai, diventerai bravissima.»
Non voglio diventare brava, voglio solo andarmene da qui e chiudere gli occhi per sempre.
Quando Don Vadim si riveste, mi lascia nel mio angolo buio.
Mi fa male il viso, piango in silenzio.
Perché quel dio che ci fanno tanto pregare non serve a nulla, non mi aiuterà mai.
Un paio di ore dopo il parroco torna con una nuova bambina.
Mi stringo contro la parete con le ginocchia sul petto.
Una ragazzina dai capelli chiari come la luna piange. Deve essere più piccola di me.
Vorrei salvarla ma non ci riesco, non ho le forze per fare nulla.
Lei si dimena tra le braccia di Don Vadim ma lui la colpisce come ha fatto con me e la obbliga a inginocchiarsi.
Quando finisce anche con lei, se ne va lasciandola singhiozzare in una valle di lacrime.
«Non serve a niente piangere» le dico uscendo dall’ombra che mi avvolge come le tenebre.
Lei si accorge di me e mi fissa con due occhi blu come l’oceano.
E in quel momento mi accorgo di aver trovato un’anima rotta quanto la mia.



Presente


I ricordi si spezzano dentro la mia testa, schegge taglienti che mi perforano il cranio, che mi fanno ansimare, che mi soffocano. Vorrei strapparmeli via con le mani.
Vorrei cancellare tutto.
Vorrei che il dolore fosse solo un’eco lontano, una fitta sbiadita che non riesco più a sentire, ma il mio corpo non mi permette di dimenticare.
Mi appoggio al muro per non cadere, le piastrelle della doccia ancora fredde sotto le dita tremanti, le gambe che cedono, le viscere che si attorcigliano. Il bisogno mi scava dentro.
Le mie pillole, devo prenderne una subito, ma non posso.
Le ho lasciate a casa. Le ho lasciate perché mi fanno dormire, perché mi annegano in un oblio senza sogni, e ogni volta che mi sveglio il mio passato è più confuso, più distante, più sbiadito.
Esco dalla doccia, mi asciugo in fretta, cerco di non inciampare nel caos che regna nel mio appartamento. Non ho ancora avuto tempo di sistemare.
Non ho avuto tempo di niente, e poi il suono del campanello squarcia il silenzio. Il mio cuore si contrae in un battito doloroso, mentre chiudo gli occhi, ma un istante dopo la porta si spalanca e si richiude con violenza.

Miro.
Le sue mani mi afferrano prima ancora che io possa reagire, dita d’acciaio che si stringono attorno al mio braccio, che mi strattonano con la forza di chi sa di poter possedere.
Io non sono sua, ma cado lo stesso sul pavimento duro che sbatte sotto la mia schiena.

«Vattene!» la mia voce è un sibilo graffiato, un tentativo disperato di farlo sparire, di farlo dissolvere nel nulla. «Non tornerò mai in quella casa!»
Ma lui ride con un suono basso e sporco, poi il suo piede mi arriva dritto sugli stinchi.
Un dolore lancinante mi paralizza. Mi piego in due, il respiro che si spezza in un gemito strozzato e la stanza gira.
Tutto si muove. I mobili, il soffitto, le pareti che si piegano e si distorcono.
Cosa mi sta succedendo?
Miro mi sta colpendo con una forza brutale mentre lotto contro spasmi che mi fanno tremare le mani, che mi risucchiano le forze, che mi tolgono la capacità di reagire.
Ho bisogno di prendere le mie pillole.
L’accappatoio mi scivola di dosso, il tessuto umido che cade sulla pelle, lasciandomi scoperta, mentre l’ombra di Miro incombe su di me.

Il mio sguardo cade sulla cintura di spugna, la mia mente annebbiata cerca di aggrapparsi a un pensiero lucido. Se solo riuscissi a prenderla, se solo riuscissi a stringergliela attorno al collo, ma il mio corpo non risponde e le mani non si muovono.

Miro mi afferra di nuovo, mi scuote con violenza, le dita che si piantano nella carne con forza.
«Ti ho detto che vieni con me!»
Poi mi tira un pugno sul petto, ne segue un altro e un altro ancora.
La nausea mi assale, la bocca si riempie di saliva acida. Il dolore è ovunque, un’onda che mi travolge e mi spacca in due.
Poi di colpo sento un boato e la porta si spalanca di nuovo in un’esplosione di rabbia.
Miro si blocca con il pugno sospeso a mezz’aria pronto a darmelo sul viso, ma dietro le sue spalle c’è Sascia.
Il diavolo in carne e ossa con uno sguardo che sembra una lama affilata che trafigge la stanza, che trafigge l’uomo che mi ha appena colpita.
Mi manca l’aria. Mi manca tutto.
Sascia si muove troppo veloce perché io possa capire cosa sta succedendo, e con un solo gesto il polso di Miro si spezza con un suono secco.
Un urlo riempie l’aria con un rantolo di dolore e mio padre crolla in ginocchio.

«Hai osato toccare qualcosa di mio.»
La voce di Sascia è ghiaccio e veleno, un suono che mi scivola sotto la pelle.
Miro ringhia, il dolore lo fa contorcere ma la sua lingua è ancora affilata.
«È mia figlia e faccio ciò che voglio di lei.»
Un sorriso crudele si dipinge sulle labbra di Sascia.
«Vuoi sapere che fine ha fatto l’ultimo uomo che ha provato a minacciarmi e prendersi qualcosa di mio?»
Gli torce il braccio dietro la schiena, lo spinge a terra, il suo piede premuto con forza sulla gola.
Un dio che schiaccia un insetto.
Non ho mai visto niente di più terrificante.
Non ho mai visto niente di più giusto.
«Suo padre la sta cercando, verrà a riprendersela.»
Sascia si ferma per un istante, poi si china su di lui.
«Stai parlando dell’uomo con cui eri in combutta per farle ingerire quella merda?»
Mi manca l’aria, lui lo sa.
Sa tutto.

Sascia Kovalenko non mi lascerà mai più andare.
La suola della sua scarpa spinge più forte, il volto di Miro si gonfia, si contorce, poi si spegne, e io resto a guardare mentre il mio cuore rallenta e il dolore si fa più distante.
Sascia si accerta della morte di Miro con due dita premute sul suo collo e poi viene da me.
Le sue carezze sono morbide sul mio viso e sono anche le uniche mani che adesso riesco a tollerare.
«Stai bene?»
No, perché mi sembra di annegare e inizio a sentire freddo. Scuoto la testa.
«Voglio le mie pillole.»
Il mio sussurro è un lamento strozzato, un bisogno primordiale.
«Cazzo.» La sua voce è un’imprecazione soffocata. «Sei in astinenza.»
Mi solleva, il suo corpo solido contro il mio, un calore bruciante che mi avvolge, poi mi stringe e mi infila l’accappatoio per coprirmi.
«Lasciami!» urlo, mi dimeno, ma non mi lascia, nessun uomo può toccarmi.
Ma Sascia non è un uomo, è un inferno in cui voglio bruciare.
«Sistemerò tutto, nessuno oserà più torcerti un capello» il suono che esce dalla sua bocca è quasi un urlo assordante.
Mi viene da vomitare.
«Non ce la faccio!» grido con la gola in fiamme. La morte sta venendo a prendermi, ne sono certa.
«Certo che ce la fai, ci sono io adesso» Sascia mi stringe più forte, la sua mano nella mia «li ammazzo tutti, cazzo! Nessuno doveva toccarti!» Impreca più volte, le sue parole iniziano a diventare confuse.
Provo ad aprire gli occhi ma è del tutto inutile, una nube nera si impossessa dei miei pensieri e non vedo più nulla.
Non sento più nulla, tranne il calore dell’uomo che cerca di cullarmi e riportarmi alla realtà.



È giunto il momento di riprenderti la tua Lilith, Sascia.

𝖂𝖊 𝕬𝖗𝖊 𝕮𝖍𝖆𝖔𝖘 - 𝕾𝖆𝖘𝖍𝖆 - 𝖛𝖔𝖑. 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora