capitolo 12

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SASCIA
29 anni


Sono passati cinque mesi da quando stiamo provando a disintossicare Lilith.
È chiusa in camera e il più delle volte abbiamo dovuto legarla.
Faccio fatica a concentrarmi sul lavoro dove in questo periodo mi sono assentato spesso per dare una mano a  Marisol che da sola non ce la fa.
Non mi fido di persone esterne, visto che qualcuno come il suo vero padre le sta dando la caccia.
La mia casa è una fortezza, così come le catacombe ma non sto tranquillo finché non riusciamo a trovare i nomi di chi ci ha fottuto.
Alliscio la giacca nera Armani, stringo il nodo della cravatta e sistemo i gemelli ai polsi mentre osservo il mio riflesso nello specchio della camera degli ospiti. Per quanto mi sforzi non riesco ad allontanarmi da lei
Ho bisogno del suo respiro sul mio petto e ho bisogno che capisca il posto a cui appartiene il prima possibile.
Prima che il mio cervello scoppi per l’impazienza.
Calpesto le asse di legno della scala fino ad arrivare al piano terra dove il profumo della  colazione mi riscalda le narici.
«Vado in tribunale, ci pensi tu?» domando a Rick appoggiato sulla penisola della cucina intento a mangiare un toast.
La sua testa china sul piatto indica che non ha passato una buona nottata e credo di conoscerne il motivo.
«Vai tranquillo, bado io a lei» risponde senza rivolgermi lo sguardo.
«Alza la testa» ordino con tono rigido, non gli ho insegnato a essere un sottomesso.
Solleva lo sguardo verso di me mentre si porta alle labbra un bicchiere mezzo pieno di succo di frutta. I suoi lineamenti sono duri e i suoi occhi si scuriscono non appena incontrano i miei «da domani torniamo alle catacombe, non ho intenzione di vedere mio figlio cadere in depressione. Ho già due fratelli idioti che si stanno crogiolando nelle loro pene d’amore, non permetterò che accada anche a te»
«E come facciamo con la tua Lilith?» la sua domanda mi proietta nel passato.
«Non chiamarla così, Rick» sospiro e aggrotto la fronte. I muscoli delle braccia si induriscono e non riesco a deglutire al pensiero di non doverla più chiamare in questo modo.
Quando l’ho portata nella mia casa mi sono lasciato sfuggire quel nome dalle labbra, ma per fortuna era troppo confusa e stordita per ricordarselo.
«Ti odierà, papà, se non le dici chi sei. Non essere l’ennesimo uomo della sua vita che vuole portarle via il suo passato. Non è una bella sensazione»
A volte penso che Rick sia molto più maturo di me su parecchi fronti e sentirmi fare una ramanzina da lui mi fa incurvare le labbra in un sorriso. Lui, che sa tutto di me. Ogni cazzo di cosa.
«Che c’è?» domanda scrollando le spalle.
Mi avvicino a mio figlio e gli stringo un braccio intorno alla testa.
«Sei un uomo, ecco cosa c’è. E sono così orgoglioso di te che nemmeno immagini» borbotto tra i suoi riccioli neri.
«Così orgoglioso che mi porti di nuovo nelle catacombe» arriccia un labbro in segno di disappunto.
«Ci servirà a entrambi» sospiro e mi stacco da lui mentre il cellulare prende a vibrare nella mia tasca.
Un messaggio illumina il display.
Kovalenko S.: Ci vediamo tra un’ora nel tuo ufficio.
Tribunale, giudici del cazzo e Kovalenko Senior.
Sbuffo e alzo gli occhi al cielo.
Una mattinata più infernale di questa non poteva esistere.
«Vedi?» allungo il telefono verso Rick permettendogli di leggere il messaggio che mi ha appena fatto schizzare i nervi fuori dalle orbite «è per questo che dobbiamo andare. Devo sfogarmi»
Mi sorride di rimando e mi dà una pacca sulla spalla.
«Vai, ci penso io a lei. Si rimetterà»


Non appena salgo sul Cayenne un lieve luccichio balza ai miei occhi.  Devo avere parecchio la testa altrove per non essermene accorto prima.
È un ciondolo d’argento, una libellula per essere precisi. Mi inchino e lo afferro con l’indice e il pollice rigirandomelo tra le dita come se potesse infondermi l’energia della mia Lilith sotto pelle.
Non essere l’ennesimo uomo della sua vita che vuole portarle via il suo passato.
Le parole di Rick tuonano nella mia testa e mi fanno sentire uno schifo.
No, non sarò l’ennesimo uomo a portarle via il suo passato.
Sarò l’unico uomo a restituirglielo e a regalarle un futuro.
Accendo il motore con il ciondolo ancora stretto in mano e mi avvio verso il tribunale.
La mattinata scorre veloce tra gli alti e i bassi del mio umore che non riesco a controllare.
Quando entro nel mio ufficio trovo già la figura possente di mio padre in piedi con la faccia rivolta verso l’esterno della grande vetrata che affaccia su San Diego.
«Sei in ritardo» il suo tono è irritante
Socchiudo gli occhi e prendo un bel respiro.
«Mi hai dato un ordine» respiro ancora «e io non prendo ordini da nessuno, tantomeno da te»
Faccio il giro della scrivania trascinando l’indice sul ripiano di mogano, poi sollevo il dito in controluce per osservare le minuscole tracce di polvere.
Dovrò ricordarmi di licenziare l’ennesima impresa di pulizie.
Prendo un appunto mentale mentre mi accomodo sulla poltrona in pelle e accendo il laptop.
«Dovrai abituarti agli ordini una volta che entrerai a far parte del consiglio della Bratva» obietta Kovalenko S. con una mano sulla barba crespa.
I suoi occhi della stessa intensità dei miei mi scrutano con riluttanza e con lo sguardo fisso su di me, si accomoda sulla sedia al lato della scrivania portando una caviglia sull'altra e continua a fissarmi.
«Me ne ricorderò» rispondo indifferente. Non mi preoccupo del mio futuro alla Bratva perché al momento non mi interessa. Il giorno che entrerò a far parte di  quel consiglio sarà perché ho abbattuto l’Associazione e solo allora sarò in grado di pensare con lucidità «cosa ti serve?» continuo mentre picchietto le dita sul portatile.
«Dovrei per forza volere qualcosa? Non posso venire a trovare il mio figlio preferito?» aggrotta la fronte mentre osservo i suoi duri lineamenti con la coda dell’occhio.
Sta invecchiando nonostante stia provando a nasconderlo in tutti i modi con abiti costosi ed eleganti.
Ma l’odore di sudicio che emana lo si sente fino alle catacombe.
«Papà» rimarco la parola con evidente disprezzo «se fossi stato il figlio preferito non mi avresti spedito in un altro continente a soli tre anni, quindi parla. Cos’è che vuoi?» chiudo con forza il laptop e tamburello le dita sul tavolo fissando le sue intense iridi blu.
Stira le labbra in una smorfia e inizia a parlare.
«Sei rancoroso, questo non ti farà bene»
Inarco un sopracciglio stupefatto della sua strafottenza. Non ho mai conosciuto un uomo più squallido di lui.
«Quello che ho deciso di provare nella mia fottuta vita, sono cazzi miei. Detto ciò, sputa. Dì tutto quello che devi dirmi e torna a Los Angeles.  Puzzi di marcio e non ho voglia di sentire il tuo odore» gli vomito addosso il mio malessere senza distogliere gli occhi dalla sua faccia che si incupisce mostrando a malapena un’espressione di rabbia.
«Nel week end darò un evento alla villa. Parteciperanno i maggiori esponenti della Bratva insieme ad alcune famiglie italiane e…»si blocca come se stesse cercando le parole giuste.
«E…»lo incalzo.
«Troverò un marito per Alys. Deve…»
Non lo faccio finire di parlare che in un lampo salto sulla scrivania e mi precipito addosso a lui ficcandogli la canna della beretta che tenevo dietro i pantaloni nella sua dannata bocca.
«Ti ho già detto di starle lontano. Tocca ancora mia sorella una volta, torcile solo un altro capello, offendila in qualsiasi cazzo di modo meschino e io ti giuro che ti seppellirò in fondo all’oceano» gli sputo in faccia e sgrana gli occhi che si riempiono di misere lacrime.
Pezzo di merda.
Lurido figlio di puttana.
«Tutto chiaro?» annuisce e borbotta qualcosa.
Sfilo la canna di ferro dalla sua bocca e gliela pulisco addosso alla giacca lasciando una scia della sua saliva lungo il tessuto nero.
Riposiziono la pistola dietro la cintura e raddrizzo la schiena.
«Sei un fottuto psicopatico del cazzo» sbraita «tua sorella ha bisogno di un marito che fa parte del nostro ambiente prima che…»
«Forse non sono stato chiaro» ribadisco fermando di nuovo le sue parole «non ti è bastato prenderla a cintate e ficcarla in quella lurida scuola? Dopo tutto quello che ha passato hai ancora voglia di farle del male?» ringhio sul suo viso.
«Io non sapevo cosa stesse succedendo in quella scuola figliolo, non lo avrei mai permesso»
Nessuno ti ha mai creduto, dovrei dirgli ma lo tengo per me visto che ho un patto con mia sorella.
«Sarà Alys a decidere chi sposare, se e quando avrà voglia di farlo. E sarà qualcuno che amerà con tutta sé stessa. Nessuno di meno» sentenzio e lui ammutolisce come il ratto di fogna che è.
«Se sei arrivato fin qui per dirmi questo, puoi andartene» continuo e mi allontano di poco da lui ancora impietrito sulla sedia di pelle che mi guarda con disprezzo.
Sono abituato.
«Allora portala via dalla mia villa. Non ce la voglio tra i piedi se nemmeno è in grado di aiutarmi a stringere alleanze con delle potenti famiglie Californiane» non riesce nemmeno a guardarmi in faccia mentre pronuncia quelle merdose parole.
Faccio un respiro profondo e poi con calma riprendo la mia pistola e gliela punto a un centimetro dalla fronte.
L’indice sul grilletto mi implora di spingere e di far partire il proiettile ma sospiro mentre nella testa penso a mia sorella, a quella cazzo di Associazione e al me da ragazzino.
Ci serve tempo.
«Sei vivo grazie a lei. Quindi, appena rimetti piede in quella dannata villa, inchinati a tua figlia perché se c’è fiato nei tuoi polmoni, lo devi solo e soltanto a lei» la canna della pistola preme sulla sua testa infilandosi in mezzo ai capelli brizzolati. Le sue mani tremano e potrei giurare di sentire la puzza di piscio provenire dal cavallo dei suoi pantaloni «ti ricordi cosa ti ho fatto quando ho scoperto delle tue cintate sulla sua schiena?» annuisce «ma a te piace prendertela con chi non può difendersi, non è così?» inclino il collo di lato.
«Lasciami stare, Sascia. Ho capito» la sua voce vibra così come il suo corpo scosso dal terrore.
«Non credo, visto che continui a provocarmi»
«Farò come dici» promette con voce debole.
«Lo spero per te. Ora vattene e non osare fare mosse azzardate in quel dannato consiglio senza la mia approvazione»
Kovalenko Senior se ne va sbattendosi la porta dietro le spalle e lasciando una scia del suo guasto odore.
Marcio.
Putrefatto.
Come tutto ciò che osa toccare.
I miei occhi saettano sul calendario plastificato appeso alla parete.
Giovedì,  fra tre giorni è Pasqua.
Giovedì santo.
Il cammino di penitenza in cui i fedeli verranno assolti dai peccati.
L’odore dell’incenso mi risale in gola.
Ne approfitto per scolarmi un bicchiere di vodka e scrollarmi di dosso questa maledetta sensazione di tossicità nella quale riesce a catapultarmi quell’uomo che si definisce padre. L’essere che mi ha sacrificato come un piccolo agnellino lasciandomi nel macello.
L’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
Giovedì Santo.
Ci vuole un bel coraggio a reputarsi padre.
Io sono un padre, non lui.
Mi verso altro liquido trasparente nel bicchiere di cristallo e mando giù lasciando che il liquore passi attraverso l’esofago dandomi la sensazione di calore che bramo.
Ma non arriva.
Giovedì Santo.
Quando la cerco, non arriva mai.
E allora ne mando giù un terzo e poi un quarto, fino a sentirmi gli occhi gonfi.
Allento la cravatta mentre ripenso a quando quella pistola avrei dovuto ficcargliela su per il culo. Alys mi aveva chiesto di non ucciderlo, e un patto è un patto.
Giovedì Santo.
Infilo la mano in tasca e stringo il ciondolo di Lilith.
Diavolo, non so quante tempo sarò ancora in grado di sopportarlo e accettare che mia sorella viva al suo fianco.
Dovrebbe vivere nella mia casa, al sicuro mentre lei si ostina ad andare avanti con un piano che sta richiedendo più tempo del solito.
Giovedì Santo.
Arriccio le dita intorno alla bottiglia semivuota di alcool e mi verso l’ultimo goccio di speranza che ho nel dimenticare il frastuono che odo nella mia testa prima di andarmene.
Un mio uomo mi aspetta all’ingresso della mia azienda, dove lavorano per me almeno duecento avvocati. Un esercito che ho forgiato con cura nel corso degli anni.
La segretaria mi chiama con tono acuto mentre mi dirigo all’esterno e la ignoro con un cenno della mano.
Smette di strillare non appena attraverso le porte scorrevoli.
Apro lo sportello del Mercedes e salto sul sedile posteriore.
«Alle catacombe» dico con tono piatto.
Il mio uomo mi fa un cenno con il capo dallo specchietto e ingrana la marcia.
Il frastuono incombe nella mia testa e non mi lascia tregua.
Oggi è uno di quei giorni asfissianti che proprio non sopporto.
Giovedì Santo. Giovedì Santo. Giovedì Santo.
Attraverso il bosco e arrivo all’ingresso della caverna.
Calpesto i macigni ricoperti di muschio e scendo i gradini in pietra a passo veloce fino ad arrivare alla prima cavità con l’altare al centro, affiancato da crocifissi rovesciati.
Le torce accese perimetrano lo spazio e mi spoglio sistemando i miei abiti con cura sul marmo freddo.
Appoggio i palmi sull’altare e inclino la schiena in avanti.
Un mucchio di immondizia invade i miei pensieri, raddrizzo le spalle e sposto il peso verso destra incamminandomi verso il muro frastagliato. Sposto il masso gigante con forza che mi permette di entrare nel tugurio nascosto e faccio un passo in avanti.
Un altro altare è posizionato al centro con delle catene dalle enormi maglie rigide in ferro che penzolano ai suoi lati.

Giovedì Santo.

Fisso l’enorme blocco di marmo illuminato dalla torcia che tengo in mano e mi avvicino.
L’indice scivola sulla pietra marcando il perimetro con forza.

La tua voce è cambiata, Sascia. Vuol dire che sei un uomo e sei pronto per il Giovedì Santo. Il giorno in cui i fedeli verranno assolti dai loro peccati. Ma tu sei il prescelto e il tuo compito è quello di dare inizio a una nuova generazione di fedeli”
La voce di don Vadim è fredda e calcolata.
Sono anni che mi fa assistere ad atti di purificazione dei ragazzini dicendo che a me non serve perché sono il prescelto di nostro Signore.
Ma poi, prescelto di cosa?
Ho dodici anni e oggi è Giovedì Santo , per cui con molta probabilità è arrivato il mio giorno.
Ancora non capisco cosa dobbiamo fare in questa caverna.
È freddo, umido e la mia pelle è appiccicosa.
L’altare si erige al centro della stanza illuminata da torce infuocate appese alle pareti rocciose e io non mi sono mai sentito così vulnerabile come adesso.
Indosso una tonaca bianca con niente sotto, sono scalzo e i miei piedi si stanno arricciando per il dolore.
“Sdraiati” indica l'altare con gli occhi.
Mi fa male la pancia e mi viene da vomitare.
So cosa succede durante le purificazioni ma, se a me non serve, perché devo sdraiarmi qui sopra?
“Avanti” mi incita.
Stringo i pugni con la voglia matta di strillare e ribellarmi, ma sono ancora troppo debole.
I duri allenamenti non bastano ancora per distruggere questa gente e questo maledetto luogo di torture che loro chiamano culto religioso.
Questi uomini hanno la mente deviata e lo capisco persino io che sono un ragazzino.
Mi sdraio sulla pietra gelida e lo zio mi incatena i polsi e le caviglie.
Cazzo, non voglio.
“Vedrai ti piacerà” sogghigna e io vorrei sputargli in faccia.
Aspetto mezz’ora poi arriva il mio dono.
Scuoto la testa impossibilitato a fuggire e poi le sento.
Mani fredde languide accarezzano la mia pelle che viene graffiata con affilate unghie nere. Labbra carnose rosso fuoco che invadono la mia bocca con prepotenza.
Mi fa schifo.
“Sei così duro per me. Lo senti?”
No, no, no. Vattene.

I ricordi sono come un flusso che non riesco a spegnere, scivolano lungo le pareti del mio organismo contaminando ogni parte di me e infiltrandosi tra le crepe della mia anima.
Mi giro di scatto, spengo la torcia e me ne vado asciugando col palmo della mano una lacrima che prova a solcare il mio viso.
Mi vesto di corsa e torno a stringere il ciondolo a forma di libellula nella mia mano.


Un altro ricordo doloroso per il nostro Sascia.

𝖂𝖊 𝕬𝖗𝖊 𝕮𝖍𝖆𝖔𝖘 - 𝕾𝖆𝖘𝖈𝖎𝖆 - 𝖛𝖔𝖑. 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora