XV. Gli incubi (erano solo segreti non detti) - Parte 1

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          Uscire di casa liberamente, quella mattina, dà a Ricciardi la stessa sensazione di essere un canarino a cui viene concessa la libertà di tornare in gabbia dopo aver passato troppe ore a svolazzare fuori da essa.

L'ombra delle sbarre se la sente comunque addosso, anche sotto il pallido sole che stenta a trapelare oltre il velo fumoso di nubi, immergendo il mondo in uno stinto grigio paglierino che ferisce gli occhi e sa di sabbia e scirocco. Potrà anche aver facoltà di condurre il caso come meglio crede, ma dovrà farlo sotto l'egida fasulla del Partito, che è pronto a serrargli i polsi non appena dovesse provare ad agitarli troppo. A lui e a Bruno.

Arriva in Questura in orario, viene squadrato con acredine dall'alto della modesta statura di Ponte, prima, e dagli occhi porcini di De Blasio, poi, e intuisce che la voce dei suoi presunti "agganci" s'è già sparsa per bocca di Garzo. Si chiude la porta del proprio ufficio alle spalle con sollievo.

«Buongiorno, commissario.»

Maione alza il capo dalla scrivania, assediata dagli incartamenti accumulatisi lì negli ultimi giorni di investigazione sul campo.

«Buongiorno, Maio',» dice, più per forma che con intento.

È chiaro a entrambi che la giornata potrebbe soltanto migliorare, viste le premesse. Il brigadiere, però, distende inaspettatamente il viso ampio nel guardarlo.

«Vi vedo più riposato.»

Lo dice con soddisfazione, quasi fosse una vittoria sua. Ricciardi stira le labbra in un tenue sorriso:

«Un pasto caldo e una notte di sonno fanno miracoli.»

È vero. Quella notte, dopo aver cenato assieme a Bruno, scherzando e chiacchierando in una fragile dimensione di normalità che aveva quasi dimenticato, era scivolato nel sonno quasi nell'istante stesso in cui aveva sfiorato il cuscino con la testa, sordo anche alla voce che filtrava dabbasso nella sua stanza.

Vi era stata un'unica parentesi tetra, proprio sull'uscio, al momento di congedarsi con Bruno, quando lo aveva aggiornato in fretta su tutti gli sviluppi del caso. Incluso il fatto, finora inconfessabile, che Annina stesse cercando proprio lui, quella notte. Gliel'aveva detto in un sussurro quasi inudibile, incerto, colpevole, conscio del diverbio che ancora aleggiava tra loro e che, forse, quella rivelazione avrebbe aggravato.

Bruno, però, si era limitato a sospirare rattristato, a premergli un palmo gentile sulla guancia nel buio soffuso del pianerottolo e a mormorare un severo, inflessibile "non è colpa tua". Ricciardi, logicamente, lo sapeva già, che era così; lo sapeva dall'istante in cui gliel'aveva confidato Cristiano. Ma sentirselo dire aveva scardinato un peso che nemmeno si era accorto di avvertire.

"Ci vediamo domani sera," gli aveva detto poi Bruno, con un sorriso sfacciato; e poi, al suo sguardo un poco stupito: "È venerdì, e la trattoria e il cicchetto al Gambrinus con me non te li scampi mica." Ricciardi aveva riso sottovoce, a labbra chiuse, col cuore pieno di quella semplice promessa, che rendeva il domani un po' meno temibile, pur con tutte le incognite che serbava.

Si era comunque svegliato prima dell'alba, ritrovando ad accoglierlo la voce di Annina soffocata sottoterra, ma non più col corpo e la mente appesi a un logorato filo di lana pronto a spezzarsi.

Adesso, non menziona a Maione il fatto di essersi ritrovato Bruno in casa: ha idea che veder vano il proprio tentativo di metterlo al sicuro lo inquieterebbe, e non vuole incupirgli ancor di più la giornata, né fargli esporre eventuali scappatoie che potrebbero venire in aiuto a Bruno e di cui è meglio non sappia niente.

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