XVII. Credemmo di non morire (come i fiori d'aprile) - Parte 4

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          L'automobile di Livia, nel suo essere troppo angusta e nel riportare a galla il ricordo di come l'abbiano trascinato di peso in un veicolo non troppo dissimile, è il primo luogo in cui si sia sentito al sicuro da un giorno a questa parte.

Rilascia i muscoli e il respiro non appena adagia la schiena contro i sedili di pelle. S'impone di guardare dinanzi a sé, in un punto indefinito oltre il parabrezza rigato dai rivoli di pioggia caduti dai pini sovrastanti, e di escludere la sagoma di Falco, resa filiforme ai margini della sua visuale.

Livia entra dall'altra portiera, accomodandosi dal suo lato sano; una premura che, Ricciardi ne è certo, è intenzionale. L'abitacolo si riempie del suo profumo discreto.

Volta appena il capo verso di lei, col timore nascosto di incontrare i suoi occhi. Ma, quando fa per parlare (per dir cosa, non lo sa nemmeno), lei gli posa una mano leggera sul petto, a frenarlo. La ritrae subito, d'un tratto sfuggente, come se non sapesse dove guardare; o, piuttosto, come se non le riuscisse di non guardare il lato tumefatto e medicato del suo viso, o il braccio inerte che si porta al collo.

Si rivolge quindi in avanti, verso l'autista.

«Giovanni, parti. Dirigiti dove ti ho detto.»

L'uomo mette in moto senza un fiato. Un ventaglio di brecciolino schizza via al passaggio delle ruote. Ricciardi scocca un'unica occhiata laterale al di fuori dal finestrino, ma Falco è già sparito, come inghiottito dall'aria umida di pioggia o dalle mura stesse del manicomio.

Quando ne varcano il cancello d'ingresso, rilascia un sospiro di sollievo effimero, che non si era accorto di trattenere. Riporta lo sguardo in grembo, con un frullio di ciglia scomposto che gli sfoca la vista. Si ritrova a fissare le propria dita incastonate tra loro come quelle di una statua, tanta è la forza con cui le serra.

È cosciente della presenza di Livia accanto a sé, né troppo vicina né troppo discosta da lui, ma non gli riesce di spiccicare parola. Sente la voce ingabbiata nel profondo, dietro lo sterno. In quel momento, non gli riesce difficile credere che non parlerà mai più in vita sua.

Lancia uno sguardo agitato fuori dal finestrino quando la luce del mattino si fa più rarefatta: la sterrata taglia dritta per il bosco e il sole filtra in onde maculate attraverso il vetro, scivolandogli pigra addosso. Tra quelle chiazze luminose e intangibili, la mano di Livia si adagia sulle sue avvinghiate, allentandone la stretta un dito alla volta. Lui la lascia fare, lo sguardo incantato sugli sfavillii del sole che danzano tra i suoi anelli e bracciali dorati. Gli imprimono ombre azzurrine sulle retine, ma non chiude le palpebre. Non riesce ad afferrare nemmeno un pensiero, tra quelli che ondeggiano dietro quel labile sipario.

«Luigi,» lo chiama a bassa voce, quasi inudibile al di sopra del rombo del motore e dello stridio degli pneumatici, «riposa un poco. Parleremo dopo.»

Lui annuisce in silenzio. Reclina il capo all'indietro, contro il poggiatesta, e chiude gli occhi. Solo per quei pochi istanti.

Un minuto, gli direbbe Bruno, prenditi un minuto. Un singolo minuto per ritrovare fiato e riordinare i pensieri. Un fremito liquido gli viaggia dietro agli occhi nel rievocare le frequenze basse e un po' roche della sua voce.

In quel momento, Livia posa il capo sulla sua spalla sana, senza proferir parola, incurante della polvere e delle sue condizioni impietose. Il suo profumo alla peonia gli solletica il naso, conosciuto, rassicurante. Gli offre la prima stilla di serenità da quando l'hanno trascinato in quell'incubo. Ricciardi inclina il volto dolorante contro di lei, le stringe la mano ancora posata sulle sue con dita incerte, che si serrano però con troppa forza. Lei non si ritrae.

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