Epilogo. In questa strada sporca come il mondo (quant'è bello camminar)

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          Il domani è due ore esatte dopo ed è tinto dall'imbrunire sanguigno del tramonto.

Lame parallele di rosso cupo filtrano dagli scuri, ondulandosi a seguire i dossi delle lenzuola e dei loro corpi. Sembrano sabbia infuocata sulla pelle di Bruno e divengono accecanti come riflessi acquatici sulla propria, più pallida.

Ricciardi segue quei binari luminosi da interi minuti, ridestatosi da quel sonno profondo che, di nuovo, gli ha lasciato impronte scure nella mente. Una falange per linea di luce, dalla curva appena accennata del suo fianco e dall'angolo smussato del bacino, fino al centro dell'addome, a sfiorarne la tenue cedevolezza.

Bruno s'è assopito in posizione di veglia, di lato e rivolto verso di lui, col busto un poco sollevato sui cuscini come a prevenire proprio quel sonno che gli è calato sulle palpebre e che, però, è abbastanza leggero da far fremere le sue ciglia a ogni tocco, da causare smottamenti millimetrici delle sue gambe, tra le quali lui ha agganciato una caviglia.

Dorme come a volte dormono i bambini, con le ginocchia ripiegate e le mani giunte di piatto incastrate tra esse. Un'incisione severa tra gli occhi, sulla fronte, rompe l'illusione di candida tranquillità, così come la leggera linea aspra agli angoli della bocca schiusa, che gli dona un cipiglio contrariato anche nel sonno.

Non vorrebbe svegliarlo. Svegliarlo vuol dire aprire la porta sul domani. Significa inseguire i fantasmi, strapparseli infine dal petto. Sovrapporre quei due mondi che hanno corso in parallelo per una vita, separati da un confine che lui ha sempre cercato di rispettare, ma che attraversa spesso senza volerlo.

Ripensa a quel quadro di una vita fa, col bambino ignaro che corre incontro a un'ombra d'inchiostro. Non sa se il senso di premonizione che gli scende addosso sia un ricordo o, piuttosto, una consapevolezza del presente di cui investe il se stesso passato.

Nell'ombra oltre l'angolo, adesso, non scorge i fantasmi, né la mano nera che l'ha strangolato. Era un riflesso futuro, quello, non un'ombra; uno specchio che farà fatica a guardare negli occhi finché vivrà.

Eppure, dopo altri, infiniti minuti, scosta i ricci ricaduti sulla fronte di Bruno, suscitando un respiro più brusco da parte sua e uno sfarfallio di ciglia che svelano infine le iridi castane, ancora un poco appannate.

Nell'appuntare gli occhi su di lui, vi è una minima frazione di secondo in cui il suo volto si fa ostile, prima che la curva sghemba delle sue labbra sollevi quel sipario tetro. Ricciardi finge di non vedere nulla, sebbene, con ogni secondo che passa (e poi saranno ore e giorni e mesi), avverte quel nodo d'acredine che si stringe attorno a Bruno, a stento soppresso.

Lo strangolerà, prima o poi: verrà il giorno in cui non potrà più fingere di non curarsi delle scelte che ha preso o di ciò che ha perduto; oppure, verrà il giorno in cui lui non riuscirà più a mentire. Verrà quel giorno, ma non sarà oggi, né domani: perché Bruno, le proprie promesse, le mantiene; e perché lui, a tener su la faccia finta, sta diventando bravo.

Bruno, dopo avergli rivolto quel sorriso stinto, si gira sulla schiena con un sospiro e uno sbadiglio soffocato, un braccio a sorreggersi il capo dietro al cuscino. Ricciardi accoglie quell'invito: si tira su e si addossa a sua volta contro la testiera del letto, spalla a spalla con lui. È diverso dal parlare seduti al tavolo di una trattoria come si erano promessi ed è diverso dalle loro colazioni domenicali al Gambrinus; ma, in un certo senso, è anche la stessa cosa.

È a una di quelle colazioni che torna la sua mente, in un tempo che sembra già sbiadito. Eppure, gli riporta alla memoria, nitido, il sorriso pieno e astuto di Bruno. All'epoca, non capiva ancora perché lo rendesse così contento di vederlo rivolgere proprio a lui; né capiva perché fosse proprio con Bruno, che a lui scappava da ridere e da scherzare, dimenticandosi dei fantasmi.

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