VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 2

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          Sono le tre della mattina, quando riemergono dal pozzo e Ricciardi dà cenno agli addetti obituari di andare a recuperare il corpo. Maione si fa loro incontro, ancora taciturno, gli angoli della bocca bloccati all'ingiù come le vele ammainate di una barca in secca.

Nel congedarsi, gli stringe una spalla con una familiarità che di rado gli riserva; Ricciardi, nella penombra del vicolo, vede nei suoi occhi l'angoscia di un padre che vuole solo tornare dai propri bambini, a crogiolarsi nella certezza che siano ancora tutti lì ad aspettarlo.

Vede anche qualcos'altro, un riflesso sopito del medesimo timore che scuote Bruno. Maione gli è devoto, sì, ma non è ottuso: Ricciardi se le sente formicolare sulla pelle, le domande che vorrebbe porgli e che, più che la distanza gerarchica, è il rispetto a impedirgli di gettargli addosso come ha appena fatto il medico.

Le intuisce dal modo schivo ma penetrante in cui lo fissa, come in attesa di una spiegazione che si trattiene dal pretendere solo per l'incrollabile fiducia, forse immeritata, che lo spinge a seguirlo a dispetto dei suoi silenzi ombrosi, dei suoi modi di fare inspiegabili e della ritrosia che riserva a tutti.

Ricciardi deve molto a Maione; gli deve il non essere rimasto solo come un cane nel proprio lavoro, emarginato dai suoi stessi colleghi che, con un nobile melanconico che s'improvvisa commissario e che ha più a cuore la verità che l'onore della Regia Polizia, ci si puliscono le scarpe. Gli è grato anche adesso, per non chiedergli nulla, pur potendo farlo.

«Commissario, dottore,» dice piano adesso, guardandoli entrambi per poi concentrare lo sguardo su di lui. «Non vi auguro la buonanotte, ma cercate di riposare almeno un po'.»

Ricciardi annuisce con gli occhi che iniziano a sfarfallare come a comando.

«Pure tu, Raffaele,» dice, tirando un respiro. «Da' un abbraccio a casa da parte mia.»

È invece lui ad allargare le braccia e stringerlo brevemente, sfregandogli la schiena con energia e calore genuini, gli stessi con cui abbraccerebbe uno dei suoi figli. Ricciardi lo accetta e lo ricambia, con la sensazione che il mondo continui a capovolgersi in modo diverso con ogni istante che passa, e che quel gesto di conforto sia a beneficio di entrambi, non solo suo.

In trasparenza può vederle, tutte le domande che Maione si sta tenendo dentro; può avvertire il velo d'inquietudine che lo avvolge e il cruccio per lui; e può sentire anche il ferreo "non importa", che gli imprime addosso in quell'istante con le sue mani burbere.

Non appena Maione svolta l'angolo, con un ultimo saluto più composto e uno schiocco di tacchi, Bruno gli si stringe accanto; forse troppo vicino, col gomito premuto contro il suo.

«Vado in ospedale per la necroscopia,» gli annuncia tetro. «Mi fai salire un attimo, così mi do una rinfrescata?» chiede poi, facendo una smorfia nel guardarsi i vestiti impolverati. «Mi sento addosso tutto lo schifo di Napoli, e non è manco finita qua.»

Ricciardi gli posa una mano sulla schiena senza nemmeno pensarci, annuendo soltanto e sospingendolo verso il portone. Lancia uno sguardo alla strada e, in alto, la luce di Enrica è ancora accesa, come quella di molte altre finestre, attratte dal trambusto in strada; ficca di scatto la mano in tasca, ignorando il titillo d'allarme che gli si infigge nella nuca e lungo la spina dorsale.

Quando sono in cima alle scale della palazzina, immersi nella penombra del pianerottolo, Bruno lo tira piano per una manica. Lui si volta a guardarlo, la chiave ancora nella toppa mentre schiude la porta, il flebile lamento sotterraneo che ancora si leva dal basso e che cerca di escludere.

«Dici che Nelide si risente, se poi torno qui a dormire sul vostro divano?» gli chiede il medico, sottovoce. «Così, magari, non ve ne state da soli col pensiero di un morto sotto casa.»

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