L'incedere cadenzato del brigadiere che rompe la quiete mattutina nel suo ufficio non è mai un buon segno.
Ricciardi alza il capo dal rapporto che sta stilando alla scrivania sin da quando ne riconosce i passi pesanti in corridoio, già preparato a incontrare la sua espressione temporalesca non appena entra nella stanza.
«Buongiorno, commissario,» lo saluta il poliziotto. Si toglie il berretto, con le sopracciglia folte inclinate all'ingiù e il tono di chi enuncia un discorso funebre. «Abbiamo un morto ammazzato all'Arenella.»
«Un buongiorno davvero, Maione,» commenta Ricciardi. Avvita la stilografica e si reclina contro lo schienale, affatto stupito dalla notizia: d'altronde, è pur sempre lunedì. «Sai già qualcosa?»
«Solo che la vittima era ricca,» allarga i gomiti Maione, «che era un ufficiale dell'esercito e che si chiamava Fernando Gigliolo.»
Ricciardi inclina la testa, con quel nome che non gli suona nuovo; forse perché comune a Napoli, o forse per averlo sentito pronunciare in uno dei rari eventi obbligati nelle vesti di barone di Malomonte, spalla a spalla con la piccola nobiltà.
«Di' a Camarda di preparare l'automobile,» dice, appuntandosi di approfondire in seguito. «Fin lassù è una bella scarpinata. Telefono io al dottor Modo.»
Maione sembra molto sollevato dal fatto che lui non abbia nemmeno preso in considerazione la funicolare, e una linea di tensione scompare dalla sua fronte. Si calca il berretto sui capelli grigi e ruota sui tacchi con agilità insospettabile per la sua stazza. Ricciardi lo sente chiamare a gran voce Camarda non appena varca la soglia; i passi affrettati dell'agente scalpicciano sul pavimento tirato a lucido, seguiti dalla sua voce acuta e sempre allarmata:
«Comandi, brigadiere!»
Viene indirizzato prontamente da Maione alla rimessa auto.
Ricciardi si prende qualche istante, prima di levarsi in piedi. Volta il capo per lasciar spaziare lo sguardo oltre la finestra, sul chiostro interno dove si affaccendano vari poliziotti in divisa nera e rossa, in un andirivieni costante oltre l'arco d'ingresso.
Il sole di metà marzo non è ancora abbastanza deciso da esser caldo attraverso i vetri e gli danza in volto in raggi appena tiepidi, preannunciando la fine dell'inverno ormai vicina. È lieto che sia bel tempo, almeno, visto che l'emicrania pare non volergli dar tregua sin dalle prime luci dell'alba, quando l'ha destato.
Il lieve ma insistente pulsare sulle tempie e dietro agli occhi, un ritmo di marcia cadenzato che conosce bene, viene stemperato un poco dal timido calore che filtra fino a lui e mitiga gli strascichi di una notte per lo più insonne.
È un fastidio che gli capita sovente, prima che gli arrivi un caso. Si è chiesto più volte se sia mera coincidenza, o se quella sorta di avvisaglie facciano parte della sua maledizione. Porta le dita alla fronte, premendovi appena, quasi ad afferrare quel dolore per tirarselo via dal cranio, ben sapendo che c'è un unico metodo comprovato per scacciarlo. Ovvero, dare giustizia ai morti, per quanto gli è possibile.
Si riscuote da quella breve pausa, si alza in piedi e solleva la cornetta del telefono, facendosi mettere in contatto con l'Ospedale dei Pellegrini e poi con Bruno che, come gli pareva di ricordare, sta staccando dal turno di notte.
«Ohi, Riccia', che tempismo!» esordisce il medico dall'altro capo, con una nota stanca nella voce bassa e altrimenti gioviale. «Me lo dovevo immaginare, che se non mi scocciavi la domenica l'avresti fatto il lunedì mattina, per augurarmi uno splendido inizio di settimana.»
«Piantala di essere petulante e vieni in Questura, ché stavolta ti diamo un passaggio noi.»
«Che galante,» lo sente sogghignare, per niente turbato dalla notizia implicita di un delitto. «E dove mi porti in gita?»
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La Ruota degli Angeli
Mystery / ThrillerNapoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui...