VI. Le lacrime dell'Inferno (servono a qualcosa) - Parte 1

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          Fuori, in superficie, l'aria è ferma.

Il vento sembra essersi assopito del tutto, rintanandosi da qualche parte lontano da Napoli; sul mare, forse, a perdersi in qualche burrasca al largo.

Ricciardi vorrebbe che la tempesta fosse qui, invece, tra i vicoli deserti e immobili se non per il passaggio silenzioso degli agenti in divisa nera e rossa. Si muovono in silenzio, in un viavai brulicante di formiche operose intente nel loro compito, fermandosi a parlottare a capo chino il tempo necessario per scambiarsi informazioni e procedendo poi in direzioni opposte.

C'è qualcosa di terribilmente sbagliato, in quel silenzio sospeso. È sbagliato il modo in cui Maione vigila accanto al portoncino con lo sguardo fisso nel vuoto, le spalle larghe incurvate. Sono sbagliate le sparute nuvolette di fumo che Bruno getta sopra di sé, accasciato a sedere sul gradino del palazzo di fronte, quando si ricorda di fumare il sigaro che gli ricade molle tra le dita. È sbagliato il modo in cui lui stesso sta fermo al centro della via, coi talloni ancorati a terra da un peso invisibile, le mani a strangolare le tasche dall'interno.

Dovrebbe esserci il caos, là fuori; dovrebbe ribollire il cielo e tremare la terra come duemila anni fa. Invece, c'è solo il silenzio, una nebbia invisibile che occlude bocche e orecchie ovattando il mondo. Anche se nelle sue, di orecchie, continua a sentirlo. Quel grido disperato, quella richiesta d'aiuto inascoltata. La cosa peggiore è sapere che non avrebbe potuto fare nulla, neanche agendo immediatamente. È quella, la consapevolezza che continua a dilaniarlo.

«Commissario.»

Ruotare la testa verso l'appuntato Cesarano, che gli si mette davanti sull'attenti rigido e impettito, è come smuovere un intero mausoleo. L'emicrania riesplode, prepotente, un cuneo tra le tempie. Gli fa cenno di parlare; e il cuneo si infigge più in profondità, incancrenendosi.

«Abbiamo ultimato il sopralluogo. La galleria si restringe troppo per proseguire in modo agevole, ma pare continuare in direzione di Chiaia. Volete mandare degli uomini a...»

«No,» lo ferma lui. «Il fatto è avvenuto da tempo, non porterebbe a nulla.»

L'appuntato annuisce, rapido, gli occhi scuri solitamente impassibili che tradiscono irrequietezza. Schiude la bocca e non parla subito. Fa stridere i tacchi contro il pavé.

«Anche il fotografo ha finito. C'è voluto un po' per scendere. Se è tutto, commissario, faccio ordinare dal brigadiere di portare via il corpo.»

La pronuncia con titubanza, quell'ultima parola, come se la ritenesse inadatta ma, allo stesso tempo, fosse conscio che non ne esistano altre.

«Do io l'ordine. Dobbiamo ancora esaminare a fondo la scena.»

Quel plurale gli risale alla bocca come bile. Il suo sguardo scatta verso Bruno e si ritrova i suoi occhi puntati addosso: ha sentito, ma non si schioda dal gradino e inclina invece la testa all'indietro, con la nuca poggiata contro il portone.

«Certo, commissario. Abbiamo approntato una cordata per agevolare la discesa.»

«Grazie, ben fatto. Vai pure a casa, Cesarano, tu e gli altri della Squadra Mobile. Rimaniamo io e Maione a presidiare con gli obituari, mentre il dottor Modo lavora.»

Avverte un'altra occhiata di Bruno infiggersi tra le sue scapole.

«Sì, commissario. Dottore,» si limita a dire l'appuntato, toccando la testa del berretto e congedandosi con palpabile sollievo.

Ricciardi incontra lo sguardo di Maione, una decina di metri più avanti, e lo trova altrettanto stravolto, appannato, ma in qualche modo ancora dignitosamente composto mentre monta la guardia a quella che, ormai, può solo essere definita come una bocca sull'inferno.

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