XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 1

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          Le campane della Basilica dell'Annunziata suonano a morto.

Un rintocco gutturale dopo l'altro, ad accompagnare i passi stentati della breve processione dall'uscita della chiesa al carro funebre. Due cavalli da tiro morelli abbattono impazienti gli zoccoli ferrati sul basolato, in controtempo metallico con la voce grave del campanile. La facciata ocra e antracite della basilica incombe con cipiglio austero sulla funzione, sormontata dalla cupola stretta e slanciata nel cielo ora screziato da nubi sparute.

«Commissa', ma voi siete proprio sicuro?» gli chiede Maione sottovoce, fermandosi sulla strada a serpentina che si affaccia, più elevata, sul minuscolo sagrato compresso tra i palazzi.

Una piccola schiera di astanti in rigido nero lo occupa in silenzio, con qualche nuvoletta di vapore che si solleva qua e là nell'aria tersa, misto ai vapori dell'incenso. Qua e là, scorge mostrine e berretti militari.

"No," vorrebbe rispondere Ricciardi, d'impulso; e sarebbe di fatto la risposta più onesta.

Oltre al fatto che, no, non vorrebbe essere bloccato qui a interrogare vedove, ma a irrompere nell'abitazione di Arturo Esposito per cavargli di bocca tutto ciò che sa. Ha però concordato con Maione, dopo averlo ragguagliato sulle ultime novità apprese da Cristiano riguardo al loro uomo, di dar priorità a Caterina Gigliolo, prima che ella torni a Roma.

Braccare il loro presunto Munaciello è per ora fuori portata; soprattutto perché non v'era alcun indirizzo sul registro, se non quello di nascita ad Avellino. Dubita che stanarlo sarà così semplice.

«Sì, se vogliamo indagare senza che Garzo s'indispettisca troppo,» risponde quindi, percorrendo svelto la breve discesa sino al sagrato.

E, spera, senza che l'OVRA subodori le sue manovre proprio sotto al loro naso, cosa pressoché impossibile. Si chiede quanto margine abbia, prima che Falco dia l'ordine di porre definitivamente l'alt a quegli atti di chiara insubordinazione. Prima che mandi qualcuno a prelevare lui e Bruno per portarli chissà dove. Per far loro chissà cosa.

O, forse, vorrà vedere fin dove riuscirà a spingersi, prima di tarpargli le ali a un passo dalla risoluzione. È un atto che si aspetterebbe da un uomo come Falco, con troppo potere tra le mani: gli sembra il tipo di persona incline a osservare dall'alto della sua torre d'avorio un insetto dibattersi agonizzante nell'acqua, fino a vederlo annegare, limitandosi a spingerlo con indolenza lontano dalla riva se tenta di trarsi in salvo.

Maione, pur all'oscuro delle macchinazioni dietro quel caso, ma fin troppo cosciente dei marchi che hanno lasciato addosso a lui, pare molto contrariato dal suo piano d'azione; più su un piano pratico che concettuale. Sul fatto che il suo collega concordi sul perseguire il caso, non ha dubbi, ma gli è chiaro che presentarsi a quel modo a un funerale vada a cozzare con la sua innata indole riguardosa del prossimo.

Intuisce il suo tumulto dal modo in cui si sistema a intervalli regolari il berretto per la tesa, come se temesse che possa scivolargli giù dal capo. Infine, se lo toglie e pettina volta i capelli grigio ferro di lato, lungo la riga, calcandoselo poi in testa in maniera definitiva.

«Maione.» Ricciardi si ferma a ridosso del capannello di luttuosi e parla a voce bassissima, quasi soffocata dai rintocchi della campana. «Non ti nego che, a parte la poca creanza di essere qui ora, operando al di fuori del protocollo rischieremo d'infastidire persone ben più in alto di Garzo. Se preferisci tenertene fuori, non ti obbligherò a rimanere.»

Il brigadiere ruota piano la testa verso di lui, come se avesse udito un suono molesto di cui non ha però interesse a scoprire l'origine. I suoi occhi azzurri sono insolitamente freddi, pozze di ghiaccio sporco sotto le sopracciglia folte e brizzolate. La sua bocca si è irrigidita, tirata ora in una piega storta. Ricciardi si rende conto di averlo offeso.

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