15 - Fermo a guardare

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Charles

-tic tac-

-tic tac-

Rintocca l'orologio, un suono così familiare.

Un suono così specifico, un rumore udibile solo per attenzione.

Ricominciava l'incubo...

No, non è un incubo...

È reale forse?

No, non lo è nemmeno!

Apro gli occhi, la stanza è buia e l'orologio da parete segna le 06:15 del mattino

<Cosa ci faccio qui?>

<Perché non riesco a muovermi?>

<Cosa cazzo sta succedendo?>

Non riesco ad elaborare il pensiero, vengo preso dalla paura.

<Io... rimarrò bloccato qui! Fatemi uscire!>

Urlo, ma sembra che tutti siano sordi, che io sia muto, urlo al vuoto.

Una strana presenza mi tocca la gamba, provo a muovermi ma il mio corpo non mi dà retta.

Un'altra volta, mi tocca, scende con le dita, mi afferra la caviglia e la strattona.

Butto un gemito, sono nuovamente muto.

Non può sentirmi nessuno...

- Nessuno a parte te. –

Guardo la figura spaventato, non aveva forma distinguibile, era un ammasso d'ombra.

Un'ombra che poteva toccarmi e farmi del male se era ciò che voleva.

Poteva entrarmi nella mente, contorcermi i pensieri, rovistarci dentro e lasciare il caos dentro di me.

Un caos che però, non aveva la capacità di ripararsi da solo.

Lasciava delle cicatrici, dei segni, dei traumi.

Dentro e fuori.

Non potevo fare altro che aspettare e resistere.

Se è vero che le ombre si nutrono della luce per crescere, vorrà dire che di me ne farà tutta oscurità.

È questo ciò che potrò diventare, non altro.

Chiudo gli occhi e cerco di concentrarmi sul mio respiro, nonostante la sensazione dolorosa non aiutasse.

Devo isolare la mente dal corpo.

Concentrarmi solo su di essa.

Respiro lento, anche se la velocità dei miei battiti cardiaci sento che non aiuta.

È come se si cercasse un angolo silenzioso per le orecchie subito dopo aver lanciato una granata.

Cercando di ignorare il sibilo che imperterrito ti entra nelle orecchie e ti martella l'encefalo.

<È difficile, non impossibile> <è difficile, non impossibile> <è difficile, non impossibile> ripetevo a me stesso provando ulteriormente a ignorare il dolore immaginario.

Grido.

Riesco a udirlo,

sento la mia voce entrare nelle orecchie,

la mia testa che scoppia,

la figura che scompare,

la gamba che pulsa,

la mia mano che stringe forte il lenzuolo,

il sudore che mi gronda: nella fronte, nel collo, nelle spalle.

È finita anche questa volta.

You made me hate this cityDove le storie prendono vita. Scoprilo ora