La stanza del controllo

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La porta si chiude alle mie spalle con un tonfo sordo, il rumore riecheggia nel buio circostante. La stanza in cui mi trovo è diversa, ordinata in modo maniacale. Ogni oggetto è disposto con precisione ossessiva, come se una mano invisibile avesse seguito un progetto rigoroso e ineluttabile. L’aria è densa, quasi irrespirabile, e sento un peso sul petto, come se ogni respiro fosse una sfida.

Davanti a me, una figura emerge dalle ombre. È un uomo alto e magro, il portamento elegante ma innaturale. Indossa un abito nero perfettamente tagliato, i lineamenti del viso rigidi, quasi scolpiti nella pietra. I suoi occhi, però, sono d'ambra, come quelli di un serpente. Nonostante l’aspetto distinto, la sua presenza emana una freddezza che mi fa rabbrividire. Ogni suo movimento è calcolato, privo di qualsiasi spontaneità.

«Chi sei?» chiedo, sforzandomi di mantenere ferma la voce, anche se il tremolio tradisce la mia paura.

L’uomo mi osserva con calma, poi accenna un sorriso. Ma è un sorriso freddo, meccanico, che non tocca minimamente i suoi occhi. «Io sono Luca,» dice, la voce bassa e controllata. «Sono l' essenza del caos che ti consuma.»

Le sue parole mi colpiscono come uno schiaffo. Le capisco fin troppo bene. Ogni fibra del mio essere sa di cosa sta parlando: il mio incessante tentativo di controllare ogni dettaglio, di soffocare qualsiasi emozione che non fosse prevista o calcolata. La mia vita è diventata una serie di routine, una catena invisibile che mi lega e mi opprime.

«Ogni cosa deve apparire perfetta, giusto?» continua Luca, con un tono glaciale che mi gela il sangue. «Ogni pensiero, ogni gesto, ogni azione. Ma la perfezione apparente non è altro che una prigione, Lily. Una prigione che hai costruito con le tue stesse mani.»

Abbasso lo sguardo, incapace di sostenere la sua occhiata penetrante. Ogni parola che pronuncia sembra svelare una verità che non posso più ignorare. È vero: vivo nella costante paura di perdere il controllo. Ogni imprevisto, ogni errore, mi paralizza, gettandomi in un vortice di ansia. Eppure, ora, in questa stanza soffocante, così impeccabilmente ordinata, mi rendo conto che sono proprio io la carceriera di me stessa.

«Non posso lasciar andare,» mormoro, la voce incrinata, come se le parole stesse mi bruciassero in gola. «Se perdo il controllo… crollo.»

Luca inclina leggermente la testa, e nei suoi occhi vuoti compare una sfumatura di compassione. «Il controllo è un’illusione,» dice, con un tono fermo ma privo di condanna. «Finché continuerai a inseguirlo, resterai imprigionata nella tua mente. Una mente che cerca la perfezione ma trova solo solitudine.»

Le sue parole si insinuano in me, dolorose ma innegabilmente vere. Mi sono illusa che l’ordine fosse sinonimo di pace, che il controllo potesse proteggermi dalle tempeste della vita. Invece, tutto quello che ho ottenuto è una vita sterile, vuota, priva di gioia e autenticità.

«Come posso liberarmi?» domando infine, la voce rotta dalla disperazione. Le lacrime, a lungo trattenute, iniziano a pungere i miei occhi.

«Accetta il caos,» risponde Luca, il suo tono tanto tranquillo quanto spietato. «Permetti che le cose si rompano. Lascia che le emozioni fluiscano, anche quando fanno male.»

Quelle parole mi atterrano. Accettare il caos? Perdere il controllo? Sembra impossibile, quasi impensabile.
Respiro profondamente, lasciando che le lacrime finalmente scorrano libere. Non tento più di trattenerle, né di reprimere la marea di emozioni che mi sommerge. Mi abbandono al caos, lasciandolo entrare, sentendolo scuotere ogni fibra del mio essere.

La stanza attorno a me inizia a cambiare. L’ordine perfetto si dissolve, gli oggetti scivolano via dalle loro posizioni geometriche. Si sparpagliano, si sovrappongono, creano un disordine vivo, palpitante. La simmetria si infrange, e con essa sento qualcosa dentro di me spezzarsi: una corda invisibile che mi tratteneva, un nodo che finalmente si scioglie.

Non so cosa mi attenda oltre questa stanza. Ma per la prima volta, non ho paura.

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