il peggio di noi

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Il silenzio nella grotta è denso, quasi tangibile, come se ogni suono fosse soffocato dalle pareti scure che ci circondano. La pioggia continua a cadere fuori, battendo contro l’ingresso con una ritmica insistente, ma all’interno tutto è immobile, inquietante.

Leo si avvicina alle incisioni sulla parete, osservandole con attenzione. “Questi segni… sembrano antichi, ma non riesco a decifrarli,” mormora, scambiando un’occhiata preoccupata con Aria, i suoi occhi azzurri che brillano di tensione.

Mi avvicino anch’io, i miei occhi scuri che scrutano le incisioni, cercando di cogliere qualche dettaglio, qualche indizio. “Magari è un messaggio… o un avvertimento,” sussurro, sentendo un brivido corrermi lungo la schiena.

Aria scuote la testa, i suoi capelli biondi illuminati da un bagliore spettrale che sembra provenire dalle profondità della grotta. “Forse è meglio non fermarsi troppo a lungo qui,” dice, la voce tesa. “Questa grotta non mi piace… sembra aspettare qualcosa, o qualcuno.”

Proprio in quel momento, un rumore lieve, quasi impercettibile, ci fa sobbalzare. È come il suono di un respiro, profondo e rauco, proveniente dal fondo della grotta. Ci scambiamo un’occhiata terrorizzata, e Leo stringe le carte nel suo mazzo come se fossero la sua unica arma.

“Pensate che sia uno degli esseri del bosco?” chiede Aria, cercando di mantenere la calma.

“Non lo so,” rispondo, il cuore che batte sempre più forte. “Ma non possiamo restare qui a scoprirlo.”

Mentre ci avviamo verso l’uscita, il rumore si fa più vicino, trasformandosi in un ringhio basso e minaccioso. Mi giro di scatto e, nelle ombre, scorgo una figura che emerge: qualcosa di oscuro, con occhi che brillano nel buio, fissi su di noi.

“Svelti!” urla Leo, estraendo una carta e lanciandola davanti a sé. Una luce si sprigiona, illuminando la creatura quel tanto che basta per farla indietreggiare. Senza pensarci due volte, corriamo fuori dalla grotta, la pioggia che ci avvolge di nuovo, gelida ma paradossalmente rassicurante.

Una volta fuori, ci fermiamo per riprendere fiato, tremanti e senza parole. Sappiamo che quella grotta non è un rifugio sicuro… e che il gioco ci sta portando sempre più vicino a qualcosa di oscuro e letale.
Corriamo a perdifiato, senza guardarci indietro, finché non riusciamo finalmente a uscire dal fitto del bosco. Il temporale è passato, ma siamo bagnati fradici, con i vestiti pesanti che aderiscono alla pelle, e il freddo ci taglia la pelle. Il cielo si schiarisce appena, e a giudicare dalla luce penso che siano circa le sei del mattino. Siamo esausti, affamati, ma nessuno di noi ha intenzione di mollare.

“Guardate…” sussurra Aria, sollevando lo sguardo verso l’orizzonte. In lontananza, oltre un campo erboso, si intravede una radura. Il mio cuore accelera: potrebbe essere quella di cui parla la sfida.

“Dite che è il nostro obiettivo?” domanda Leo, cercando di darsi una parvenza di speranza. “Siamo già incappati in due giocatori, ma nessuno ha fatto caso all’altro… come se tutti fossimo concentrati su qualcosa di più grande.”

Attraversiamo il campo, con lo sguardo che vaga in cerca di indizi. Poi, al margine della radura, scorgiamo qualcosa che attira la nostra attenzione: uno steccato di legno che racchiude una piccola fattoria. È come uscita da una favola, con tetti di paglia e finestre che sembrano minuscole gemme scintillanti alla prima luce del mattino.

“È troppo perfetta…” mormora Aria, guardando la fattoria con occhi sospettosi. “Come se ci stesse invitando a entrare.”

Mi stringo nelle spalle, cercando di scacciare il disagio. “Perfetta o no, potrebbe esserci del cibo, o almeno un riparo per qualche ora.”

Leo annuisce, incerto ma deciso. “Andiamo a vedere. Ma facciamo attenzione… ormai sappiamo bene che tutto qui è più di quello che sembra.”

Ci avviciniamo allo steccato con cautela, il cuore che batte all’impazzata.

Arrivati alla fattoria, la prima cosa che mi colpisce sono gli animali. Mucche dalle chiazze rosa e bianche pascolano tranquillamente nel recinto, ma c'è qualcosa di strano: sono enormi, il doppio delle mucche normali, e hanno un’espressione vagamente… vigile. Poi vedo le galline, di un rosso acceso e verde brillante, che razzolano all’interno di una gabbia più grande di qualsiasi pollaio che abbia mai visto. Ogni loro movimento sembra sorvegliato, come se fossero tesori da custodire.

“Cosa… cosa diavolo è questo posto?” sussurra Aria, i suoi occhi azzurri fissi sugli animali, increduli.

Leo scuote la testa, altrettanto confuso. “Sembra una fattoria fiabesca, ma… c’è qualcosa di inquietante. Gli animali sembrano quasi guardiani.”

Mi faccio coraggio e mi avvicino alla porta della casetta, che è fatta di legno scuro, decorata con un’intarsio elaborato. Alzo la mano e busso, il suono rimbomba nella quiete del mattino.

Aspettiamo qualche istante, ma non c'è risposta. Sembra deserta. Aria si morde il labbro, indecisa. “Forse dovremmo entrare lo stesso?”

Leo annuisce, lanciando un’occhiata agli animali che sembrano osservarci da lontano. “Non credo che abbiamo altra scelta. Se vogliamo un riparo e delle risposte, forse sono dentro.”

Con un ultimo sguardo alle mucche e alle galline giganti, prendo un respiro profondo e spingo la porta, che cigola lentamente, aprendosi davanti a noi.

Appena la porta si apre, un odore acre ci investe. È un miscuglio di muffa, terra bagnata e qualcosa di più inquietante, quasi dolciastro, come se qualcosa stesse marcendo all’interno della casa. Istintivamente porto una mano al naso, cercando di bloccare la nausea.

Entriamo cautamente, ogni passo rivelando un ambiente che sembra uscito da un incubo. Le pareti sono coperte di vecchie fotografie sbiadite, visi distorti che ci osservano, gli occhi opachi e vacui. C’è qualcosa di stranamente familiare e disturbante in quelle immagini, come se rappresentassero persone perse nel tempo, dimenticate, senza volto né storia. La luce che filtra è poca, ma abbastanza per scorgere macchie scure sul pavimento di legno, quasi come se qualcuno avesse tentato di pulire tracce di sangue ormai secco.

“Questo posto è… sbagliato,” mormora Aria, stringendosi le braccia intorno al corpo, gli occhi azzurri che scrutano ogni angolo.

Proprio allora, un rumore lieve ci fa sobbalzare: un ticchettio costante che proviene dal fondo della stanza. Seguendo il suono, ci troviamo davanti a una vecchia credenza su cui giace un orologio a pendolo, ma il ticchettio è troppo forte, come se venisse amplificato, creando un ritmo che sembra entrare nella nostra testa.

“Chi mai potrebbe vivere qui?” sussurra Leo, ma c’è qualcosa nel suo tono che suggerisce che neanche lui è sicuro di voler trovare una risposta.

Ad un tratto, qualcosa attira la mia attenzione. Sul pavimento, accanto al pendolo, ci sono oggetti abbandonati: piccoli indumenti scoloriti, giochi rotti e pezzi di lettere strappate, oggetti che sembrano appartenere a qualcuno di cui ormai non rimane nulla, solo pezzi di vite dimenticate, abbandonate come rifiuti.

Aria si avvicina a uno dei giochi, un vecchio orsacchiotto logoro e scucito, e lo raccoglie. Al contatto, una sorta di eco sembra rimbombare nella stanza, come un sospiro antico, e in quel momento l’orsacchiotto si lascia cadere dalle sue mani, colpito dalla consapevolezza di essere in un luogo in cui ogni cosa sembra intrappolare un frammento di sofferenza.

“Questo mondo…” mormoro, incapace di distogliere lo sguardo dall’orrore e dalla desolazione che ci circonda. “Questo mondo è come… un monumento alle cose dimenticate, come se ogni oggetto avesse imprigionato una parte dell’anima di qualcuno.”

Aria mi guarda, gli occhi spalancati. “Forse è questo il suo scopo: farci vedere il lato più oscuro, le cose che il mondo cerca di nascondere.”

Siamo avvolti in un silenzio che è quasi più terribile del rumore. Poi, un grido basso e straziante si leva da qualche parte all’interno della casa, facendoci trasalire.

“Qualcuno… o qualcosa è ancora qui,” dice Leo, la voce spezzata dalla paura.

Ci scambiamo uno sguardo, sapendo che ormai è impossibile tornare indietro.



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