Capitolo 20 - Ricordi

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La casa era stranamente silenziosa. Stranamente, sì, perché con George e Peter come fratelli non si è mai del tutto tranquilli... La totale assenza dei loro strilli mi preoccupava. A molti sembrerà una sciocchezza, ma nell'aria sentivo qualcosa di strano. Di diverso. Di inquietante. Di anormale.

"Mamma?" chiamai entrando in casa. La pioggia fuori batteva furiosamente contro i vetri delle finestre. Non era affatto il dolce tamburellio che certi poeti descrivono. Era un picchiare continuo contro il vetro, quasi per cercare di romperlo...

Un lampo illuminò l'ingresso in modo tetro. Sembrava notte, eppure era solo il primo pomeriggio.

"Mamma?" chiamai ancora, a voce più alta. Che cosa stava succedendo? Dov'era mia madre? Aveva detto che sarebbe stata a casa quel pomeriggio... Che quando sarei ritornata da scuola l'avrei trovata ad attendermi.

Invece no. Non c'era, a quanto pareva.

"Peter?" provai a chiamare.
"George?" tentai ancora dopo qualche istante di muto silenzio.

Come pensavo. Se la casa era così tranquilla, di certo non c'erano i miei due fratellini... Avevano appena 6 anni ed erano delle vere pesti.

"Mamma!" urlai a squarciagola.

Mi arresi e sbuffando mi diressi verso la mia camera.

La casa era incredibilmente tetra e cupa. Un tuono improvviso mi fece sobbalzare. Assomigliava al ringhio di una bestia feroce. Al ruggito di Cerbero, il cane a tre teste a guardia degli Inferi, come avevo studiato giusto quel giorno a scuola.

Il cigolio delle assi di legno sotto i miei piedi scalzi sembrava il gemito di qualche anima.

Ero davvero fissata con gli Inferi quel giorno. Forse perché il clima ricorda tanto quel luogo mitologico è terrificante...

Poi, mentre mi dirigevo lentamente verso la porta della mia stanza, sentii un rumore. Diverso dallo scricchiolio del legno. Diverso dallo sbattere delle imposte. Diverso dal ticchettio delle grandi gocce d'acqua contro il cornicione delle finestre.

Mi fermai e mi misi in ascolto. Attenta, con le orecchie tese pronte a captare ogni minimo rumore. Ma non udii nulla.

Magari era solo un'allucinazione. Ricominciai a camminare con il passo più leggero possibile. Magari era solo il mio udito affatto perfetto che mi giocava brutti scherzi. Ero a pochi passi dalla mia camera ormai. Magari l'avevo confuso con uno dei molti, minuscoli, quasi impercettibili suoni che si possono sentire nel silenzio, poiché il silenzio in realtà è pieno di suoni. La mia mano era sollevata a pochi centimetri dalla maniglia. Magari il rumore c'era stato, ma fuori casa, nella strada, nella casa dei vicini... Non capivo perché mi stavo muovendo a una lentezza estrema come quella. Magari era un sogno e io ero in realtà addormentata nel mio letto a stringere con forza un lembo della mia coperta e basta. Appoggiai le dita sulla fredda maniglia di metallo argentato e opaco. Magari era un'illusione.

Urlai. Urlai con tutta me stessa. Con tutto il fiato che avevo in gola. Con tutta la potenza delle mie corde vocali.

O magari era la realtà, avevo udito veramente quel rumore che ora si stava ripetendo alle mie spalle e nessuno, NESSUNO, mi avrebbe potuto sentire. I miei genitori non sarebbero venuti a consolarmi come era loro solito dopo un incubo. Perché non era un incubo, anche se ci assomigliava davvero. Perché i miei genitori non erano a casa. Perché io ero sola, con alle spalle qualcuno che rideva lievemente.

Era quello il suono che avevo sentito prima. Il suono che non ero riuscita a catalogare. Una risata. Di scherno, di disprezzo, di puro divertimento.

Mi voltai di scatto, anche se tutta me stessa non voleva farlo. Non voleva girarsi per vedere in faccia quell'individuo, quell'intruso che era penetrato illegalmente in casa mia. Senza scassinare alcuna serratura, tra l'altro.

Era un uomo. Capelli neri come la pece più nera. Occhi grigi, di un grigio profondo con un lieve barlume di divertimento. E un sorriso. Un sorriso enorme, a trentadue denti, un ghigno orribile e terrificante, una smorfia perfida e carica di malvagità.

La gente pensa che i sorrisi e le risate siano le cose più belle che ci siano. Che mettano allegria.

A me no. Non in quel momento. Mi facevano rabbrividire, ma non come quei brividi di piacere che si provano quando ci si mette sotto il getto dell'acqua calda della doccia appena ritornati a casa dopo una lunga camminata nel gelo invernale. Brividi di paura. Brividi di inquietudine. Brividi di ansia. Brividi.

Avrei voluto scappare, fuggire via lontano e lasciarmelo alle spalle. Ma le mie gambe non si muovevano. E poi l'uomo bloccava il passaggio. Per scappare avrei dovuto superarlo, scendere la scale di corsa, attraversare il salotto e l'ingresso e fiondarmi oltre la porta.

E non sarei mai riuscita a superare l'uomo. E lo sconosciuto era due spanne più alto di me. Ed era decisamente più muscoloso di me.

Scartai quindi, in meno di un nano secondo, l'idea della fuga. Polverizzata. Cestinata.

Mossi rapidamente gli occhi a destra e a sinistra alla ricerca di un'idea. Di un modo per evitare di stare lì, di fronte a un intruso orrido.

Deglutii. Inconsapevolmente avevo fatto un passo indietro. Come per mettere più spazio fra me e l'uomo. Come se a un passo di distanza fossi al sicuro.

Fece un passo avanti. E io un altro indietro. Lui uno avanti. Io uno indietro.

Il giochino continuò per un pezzo, e di volta in volta il ghigno dell'uomo diventata più spaventoso. Più ampio. Più orribile.

E solo dopo un po' compresi il motivo. A quel punto, il mio cuore finì davvero in gola. Le palpitazioni aumentarono a un livello indecente. Il mio ansimare si fece ancora più rapido e irregolare. E il divertimento dell'uomo più palese ed evidente. Orrendamente, disgustosamente, schifosamente più evidente. Non provava nemmeno a trattenersi. Sembrava provar piacere nel mostrarsi felice davanti al mio terrore e ciò non faceva altro che aumentare il mio spavento. Causando ancora più divertimento e gioia nello sconosciuto.

A forza di arretrare, mi ritrovai a sbattere le spalle contro il muro alla fine del corridoio. Fine della corsa. Non potevo muovermi all'indietro più di così. In un certo senso, avevo perso. Aveva vinto lui la sfida.

Sorrise e iniziò a sghignazzare. Ridere. Ridere. Ridere. Una risata odiosa.

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SPAZIO AUTRICE:
Se non lo aveste capito dal titolo del capitolo o dalla scrittura in corsivo... Questi sono dei ricordi di Izzy. Inquietanti, non trovate? A me turbano vagamente. Pensate se ci foste stati VOI al suo posto... Che cosa avreste fatto? Come avreste avuto? Io probabilmente avrei urlato, cercato un cellulare e sarei corsa via. La tipica reazione della tipica ragazza ansiosa, nervosa e agitata. Nonché paurosa. Ho una miriade di paure... Al primo posto quella degli insetti, di sicuro. Poi le vertigini, ma più che altro nel senso che ho paura di cadere. Non tanto dell'altezza in sé: sono stata sul tetto di numerosi grattacieli e ho avuto un po' di brividi a causa delle vertigini, ma mi piaceva rimanere lì a guardare il paesaggio. Quando invece mi sono sporta per guardare verticalmente sotto di me... Allora sono dovuta barcollare indietro, talmente avevo paura... Poi ho paura che entri un ladro in casa quando sono sola. Ho paura delle meduse. Ho paura di una marea di cose insomma.
E le vostre fobie? Quali sono? Sono l'unica a essere così incredibilmente paurosa?
Al prossimo capitoloooooo!!!

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