Capitolo 41 - Amore-odio

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James's pov
È da tanto tempo che non aprivo questo diario. Ora credo che le cose siano cambiate. Tanto per cominciare, ho James e la mia amicizia con lui. Certo, ce l'avevo anche prima, ma... Prima ero troppo impegnato a picchiare i bulletti che davano fastidio a me e a lui per rendermene conto.

Altri amici maschi... Non ne ho. Neanche femmine, a dire il vero. Me le porto a letto, questo sì, ma non mi lega a loro nessun rapporto di amicizia o amore.

Ogni tanto vedo i ragazzi della squadra di football mangiare a mensa insieme, ridere, uscire il sabato per una pizza. Io no. Niente di tutto questo. Qualche ragazzo, ogni tanto, bisbiglia ancora alle mie spalle 'mostro' quando passo nei corridoi, ma spesso basta un'occhiata o un pugno ben assestato nei momenti in cui non c'è nessuno a vedermi per zittirli.

Ho incominciato ad andare in commissariato. Mio padre mi ha iniziato ad obbligare a passare un pomeriggio a settimana là, per potermi tenere d'occhio. Questo, anni fa. Diceva che era colpa mia se la mamma stava male o delirava.

Ora il commissariato inizia a piacermi. Spesso aiuto con le indagini; ma vado lì solo quando non c'è mio padre.

Continuo a odiarlo e a odiare anche mia madre, incapace di crescermi ed educarmi. Non mi piace più stare a casa e trascorro la maggior parte del tempo fuori. Quando rientro, la mamma mi guarda come se fossi uno sconosciuto e, se provo a parlarle come i figli parlano alle loro madri, mi allontana e mi dice che sono un mostro, non suo figlio.

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Mio padre ha scoperto tutto. Del fatto che vado in commissariato, intendo. Un suo amico, capo di un reparto della polizia, gli ha fatto i complimenti. Gli ha detto che aveva un figlio assolutamente geniale e brillante e con una splendida carriera da detective e poliziotto davanti. Lo ha pure avvisato che, magari, mi verranno affidati dei casi, di tanto in tanto. E che metterà una buona parola su di me con il direttore. E mio padre, invece di premiarmi come farebbe un normale padre, è arrivato a casa e ha iniziato a urlarmi addosso. Ormai, dirmi che sono un mostro è diventato la normalità.

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Dicono che sono un mostro? Bene, allora, lo diventerò. Ho conosciuto dei ragazzi. O meglio, dire che li ho conosciuti è sbagliato.

Erano per strada, seduti su un muretto a fumare sigarette ed erba e a passarmi una bottiglia. Uno di loro mi ha visto di malumore e mi ha chiamato 'Ehy, bello, vuoi farti un tiro?'. E io ho accettato. Mi sono seduto con loro e ho bevuto e fumato. Mi sono fatto la mia prima canna. Dopo, avevo le allucinazioni e non capivo più nulla. Ma mi piaceva quella sensazione, di essere lontano dal mondo, in un universo parallelo, dove tutto è più attutito. Come in una bolla di sapone variopinta, ecco, che fa sembrare il mondo attorno più colorato di quanto sia in verità.

Così, quando sono tornato a casa, alle tre del mattino, e mio padre incredibilmente c'era, mi ha urlato contro, ma io non ho percepito nulla. Né dolore né sofferenza. Non l'ho ascoltato, gli ho dato uno spintone e mi sono chiuso in camera.

Non sono mai stato così audace e azzardato. Ma mi è piaciuto essere stato in grado di dire di no a mio padre, di fregarmene di lui e di stare per voto mio senza paura di essere giudicato o considerato un 'mostro'.

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Ormai conosco tutte le bande di ragazzi drogati della città.

Il mercoledì, passo da quelli che stanno nella parallela alla via della scuola: ogni mercoledì, sono seduti su una panchina, la sera.
Il giovedì da un altro gruppo: li trovo tutti i giovedì di fronte alla discoteca, dopo le sette di sera.
E così via: tutti i giorni della settimana li trascorro a drogarmi e ubriacarmi con sconosciuti. O meglio, semi sconosciuti.

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