Parte 4 Anno 1999

329 59 65
                                    

GIANNA

Avevo diciassette anni. Mio padre era rimasto disoccupato e per tirarsi su il morale beveva. Ma l'alcol lo trasformava in una persona orribile. Era violento e irascibile. E io stavo fuori casa il più possibile per non doverci avere a che fare.

È così che ho incontrato Piero.

Faceva il muratore. E quell'estate lui e la sua squadra stavano lavorando a un nuovo condominio a pochi isolati da casa mia. Passavo spesso di lì per andare al parco dove mi ritrovavo coi miei amici. A ogni mio passaggio sentivo fischiare. Dapprima erano solo fischi e richiami anonimi. Poi un giorno sentii distintamente le parole:

"Bella bionda, dove te ne vai tutta sola?"

Io ero una ragazzina spavalda e intraprendente e senza pensarci due volte, ridendo risposi:

"Al parco, vuoi venire?"

Non ero riuscita a vedere chi mi avesse parlato, ma quando mi rispose: "Aspettami che scendo!", l'adrenalina della conquista offuscò completamente i miei pensieri.

Mi sentivo bella e irresistibile. E morivo dalla voglia di dare un volto a quella voce profonda e calda. E così rimasi lì ad aspettare.

Quando lo vidi, rimasi a bocca aperta.

Muscoloso. Abbronzato. Capelli scuri, mossi, abbastanza lunghi da accarezzargli il viso. Un sorriso abbagliante. Qualche macchia di calce sulla pelle. Era così bello, che quasi svenivo.

"Piacere Piero" - mi disse, mentre mi guardava con uno strano guizzo negli occhi, notando le mie guance avvampare.

Se solo avessi avuto un po' di sale in zucca, o se avessi avuto dei genitori più presenti, forse sarei stata meno ingenua su quali potessero essere le intenzioni maschili nell'approcciare una ragazza. Ma avevo la testa piena di favole e romanzi rosa e così fu molto facile per lui convincermi del suo amore.

Non facevo che ripetermi quanto fossi fortunata ad avere fatto breccia nel cuore del ragazzo più bello del quartiere. Allora non avevo idea di cosa fosse davvero la vita. Non conoscevo la parola responsabilità. Non mi ero mai soffermata sul significato di "conseguenze". Vivevo come se non importasse verso quale direzione volgessi i miei passi, convinta di poter cambiare rotta in qualsiasi momento. Capii solo molto anni dopo che le mie azioni di oggi, vanno a scolpire il mio domani.

Passammo un'estate fantastica. Spensierata e felice. Dapprima ci incontravamo la sera, appena lui finiva di lavorare, si faceva una doccia in cantiere e mi raggiungeva. Una granita oggi. Un gelato domani. Seduti a ridere e scherzare su una panchina al parco, quella che divenne la nostra panchina, dove abbiamo impresso le nostre iniziali dentro a un cuore, dove ci siamo dati il primo bacio. Mi dedicava canzoni. Mi faceva sentire speciale. Mi dava quel calore di cui sentivo disperato bisogno. Riempiva quel vuoto che aveva lasciato mio padre quando iniziò a dedicarsi esclusivamente ai suoi vizi.

Ben presto non ci bastava più vederci qualche ora la sera. Lui era più grande di me di qualche anno e aveva già la macchina. Così iniziò a propormi gite fuori porta nel fine settimana. Lago, montagna, mare. Scoprivo il mondo intorno a me e dentro di me. Poco a poco le confidenze tra noi aumentarono, fino a superare quei limiti, che prima di lui, mi ero sempre prefissa di rispettare. Gli davo il meglio di me, in cambio delle sue promesse di amore eterno.

"Ti amerò per sempre" - mi ripeteva. E io già fantasticavo sul nostro futuro insieme.

Stavo vivendo una favola d'amore ed ero convinta che non dovesse finire mai. Finché qualcosa cambiò.

Quando iniziai a parlargli dei primi ritardi con il ciclo, notai insofferenza da parte sua. Cambiava discorso. Non ne voleva parlare. Ma io non gli diedi peso. Pensavo che forse era solo stanco per il lavoro o arrabbiato per altri motivi.

Un giorno logorata dal dubbio, decisi di fare il tanto temuto test. I miei sospetti si trasformarono in ineludibile certezza. Ero incinta e candidamente felice. Già ci vedevo passeggiare insieme con la carrozzina. Ci immaginavo tutti e tre tenerci per mano camminando sulla sabbia.
Avrei avuto la mia famiglia. La mia bella e gioiosa famiglia.

Corsi al cantiere con aria sognante per dargli la notizia.

"Piero, Piero! Ho una notizia meravigliosa!"

"Non puoi aspettare stasera per dirmelo?" - mi disse lui con un tono che non gli avevo mai sentito.

"Ma veramente, speravo che..."

"Gianna, sto lavorando! Ci vediamo stasera!"

Tornai a casa con le lacrime che mi rigavano il volto. Era il momento più felice della mia vita. Avrei voluto condividerlo con la persona che amavo. Ma lui non era interessato.

Ma mi ci volle ancora un po' per gustare appieno il sapore amaro della verità. Non ebbi più dubbi quando quella stessa sera, rispose al mio entusiasmo con un freddo:

"Gianna tu devi abortire. Io non voglio nessun bambino. Abortisci Gianna! Hai capito?" - così dicendo mi strattonava, come se fossi l'unica responsabile del mio stato.

"Io... io non voglio" - riuscii a malapena a pronunciare tra i singhozzi.

"Benissimo. Allora, non ti fare più vedere! Non voglio saperne più niente né di te né di quel parassita che ti cresce in pancia!"

Parassita? Il frutto del nostro amore un parassita? Era così che lo vedeva?

In quell'istante mi caddero le scaglie dagli occhi e capii che lui non mi amava. Non mi aveva mai amato. Mi aveva solo usata.

E' questo che vorrei evitare a Erika. Non voglio che si senta come mi sono sentita io. Usata e depredata di quanto più prezioso avessi al mondo.

Un desiderio dentro al cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora