Parte 19 Anno 2015 Stefano

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STEFANO

Ho ancora il telefono in mano incredulo su quanto stia accadendo. Interrogatorio? Da un giorno all'altro sono passato dall'essere un rispettato professore universitario, all'essere un indagato dalla polizia.

La vibrazione del telefono, mi riporta alla realtà.

Messaggio: "Il numero che hai cercato è di nuovo raggiungibile".

E' il numero di Erika! Senza indugio faccio partire la chiamata. Squilla solo una volta e qualcuno risponde. Dall'altra parte posso sentire solo un respiro, nessuna parola.

"Erika! Erika! Rispondi Erika! Dove sei?"

Mi attacca il telefono in faccia. Non voglio nemmeno credere che sia stata lei. Non può avermi attaccato il telefono in faccia a quel modo! Qualcuno le avrà rubato il cellulare! Qualcuno l'avrà rapita! O forse è ancora tanto arrabbiata con me...

Mi sento come se qualcuno mi avesse appena dato uno schiaffo. Brucia.

Ricordo quando era piccola e ci rimaneva male per qualcosa, si andava a nascondere dietro la lunga tenda della porta finestra, appoggiando la fronte e il muso imbronciato sul vetro. Non si muoveva di lì fino a quando qualcuno non andava da lei a consolarla e a fare pace. Le ripetevo spesso che era troppo permalosa. Ma col tempo capii che il suo era solo un modo di assicurarsi che le volessimo abbastanza bene da sentire la sua mancanza e da rivolerla con noi di nuovo sorridente.

Erika, io vorrei tanto fare pace! Ma dietro a quale tenda ti sei andata a nascondere? Non riesco a trovarti.

Per lo shock quasi mi dimenticavo della telefonata del maggiore Galli. Devo andare in caserma.

Non mi sono mai sentito più in imbarazzo in vita mia. Ora capisco cosa prova un pentito in procinto di confessare il suo reato. Il colonnello mi guarda dritto negli occhi pronto a scorgere il minimo segno di titubanza nella mia esposizione dei fatti. Suppongo abbia spesso a che fare con gente che non dice esattamente la verità. Io so di avere di che vergognarmi per come mi sono comportato con Erika, ma non sono un criminale e non ho nulla da nascondere. Sono pronto a prendermi le mie responsabilità. Lo sguardo carico di giudizio del colonnello non ha bisogno di sottotitoli, sembra dire senza mezzi termini: "Che razza di uomo sei a far scappare così una ragazzina di quindici anni?". O forse non è il suo sguardo a parlare, ma la mia coscienza.

"Colonnello, meno di mezz'ora fa ho ricevuto il messaggio che mi avvisava che il telefono di Erika era di nuovo raggiungibile. Potete provare a localizzare il suo cellulare?"

"Domani mattina le forze dell'ordine si attiveranno anche in tal senso. Non si preoccupi. Ora le consiglio di tornare a casa e riposare un po'. Ci aspetta una lunga giornata"

"Che significa domani mattina? Perché non farlo subito? Domani mattina potrebbe essere troppo tardi?"

"Signor Mancini, non abbiamo bisogno dei suoi consigli. Ci sono delle procedure da seguire".

"Le procedure? Sa cosa può farsene delle sue procedure? Là fuori c'è una ragazzina indifesa che potrebbe essere in pericolo! Voi dovete andarla a cercare subito! Non domani mattina!" - senza rendermene conto ho iniziato a urlare.

"Sig. Mancini, le consiglio di calmarsi se non vuole finire nei guai. Se ne torni a casa!"

Il senso di impotenza, mi fa perdere il controllo. Prendo la sedia sulla quale ero seduto e la scaravento violentemente a terra, danneggiandone una gamba. Il colonnello non si scompone, come se si trovasse di fronte a una scena di ordinaria amministrazione, mentre due carabinieri prontamente mi bloccano e senza rivelare alcuna emozione, mi accompagnano alla porta, dicendomi quasi sottovoce: "Cerchi di calmarsi. Non è il caso di peggiorare la situazione. Torni domani".

Esco dalla caserma sconvolto. Penso a Gianna. Sarà anche più turbata di me in questo momento. Devo andare da lei. Metto in moto l'auto e decido seduta stante di raggiungere la donna che ho tanto amato, ma che non ho saputo amare abbastanza.

In poco più di due ore arrivo a Milano. Probabilmente ho schiacciato un po' troppo l'acceleratore, ma l'ansia mi uccideva e non conoscevo altro modo di metterla a tacere.

Sono quasi le tre di notte. Arrivo davanti al portone del palazzo dove vivono le mie ragazze. Sono sopraffatto dai ricordi. Quante volte ho oltrepassato quella porta. Con lo sguardo cerco la finestra del terzo piano. La luce è accesa. Sapevo che l'avrei trovata sveglia. Come potrebbe un genitore dormire sapendo il proprio figlio in pericolo? Come potrebbe Gianna addormentarsi sapendo di non avere il minimo controllo della situazione?

Suono. Dopo qualche secondo, sento la sua voce:

"Erika, sei tu?" - è una voce agitata e strozzata da lacrime represse.

"Gianna, sono io"

Non risponde. Sento la porta che si apre e lei che corre giù dalle scale. Apre il portone, mi osserva per qualche secondo col disprezzo negli occhi e poi pam, un ceffone ben piazzato fa pulsare la mia guancia. Poi mi abbraccia e finalmente si concede il lusso di crollare, piange copiosamente sulla mia spalla e il mio cuore, chiuso in una morsa, riesce a percepire tutte le parole nascoste dietro a ognuno dei suoi singhiozzi.

Perché non eri qui. Perché hai smesso di essere il padre di mia figlia. Perché non hai mantenuto la promessa di prenderti cura di me. I mille perché inespressi riaprono una voragine che credevo ormai chiusa da tempo e in quest'istante capisco di non avere mai smesso di amarla e le sussurro all'orecchio: "Andrà tutto bene".

Un desiderio dentro al cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora