22. Una galleria

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«Mia sorella è innamorata di te.»
Marc mi guarda come se avessi appena detto che sono la sorella di Peter Pan.
«C_ Cosa?»
«Hai capito! Ma è possibile che non te ne sei accorto? Tutti l'hanno capito... E io che credevo addirittura che baciassi Bea per farla ingelosire!» rido amaramente.
«Mel lo sai che non capisco niente di queste cose.» ammette roteando gli occhi.
«Si. Però devi smettere di farla star male. Non ti chiedo di innamorarti di lei, perché so che è impossibile, ma di cercare di non farla soffrire. Che ne so... Non farti le tipe davanti a lei.»
«È una parola..» ridacchia.
«Davvero Marc. Ma poi perché fai così? Insomma che gusto c'è a farsene otto in una serata? Va bene che sei un maschio e io non posso certo capire come ragiona il vostro cervello o il vostro...»
«Sht...» mi zittisce mettendomi una mano sulla bocca e ridacchiando.
«No, non puoi proprio capire e ti assicuro che è meglio così.»
Fingo di mettere il broncio e incrocio le braccia.
«Ma il tipo con cui te ne sei andata via stamattina chi sarebbe?»
Non sapevo che se ne fosse accorto qualcuno della mia colazione con Edoardo.
«È un nuovo ragazzo del liceo, mio amico.»
«E come mai ti chiede di fare colazione con lui?» mi chiede con sguardo malizioso.
«Smettila! È fidanzato!» rido tirandogli una pacca sul braccio.
Ci avviamo nel cortile della scuola, tornando verso la gang.
«Comunque è Bea quella?» chiede.
Questa mattina non l'ho vista, nemmeno per sbaglio. Prendo un colpo quando la vedo in lontananza con le solite cuffie, entrare in scuola da sola. Credevo che sarebbe cambiato tutto da sabato, che fosse tornata la Tri di un tempo e avesse accettato di tornare con noi, i suoi amici.
«Io.. Non capisco.»
La mia mente è confusa, affollata da immagini troppo contrastanti della mia migliore amica e quell'unica domanda: cosa le succede?
Marc mi stringe a sé per confortarmi, ma sento che non ne ho bisogno, non di questo. Crollerò lo stesso se non capisco. Mi stacco ed inizio a correre seguendo Bea all'interno della scuola. La vedo nel corridoio e le afferro un braccio.
«Beatrice!» grido, fregandomene delle persone intorno a me.
Tutti sanno che chiamo i miei amici con il loro intero nome solo quando sono davvero imbestialita.
«C_cosa c'è?»
«Pensi di poter far così? Di potermi illudere che è tutto come prima e poi fare così?»
Le lacrime colmano ormai i miei occhi e le trattengo a stento.
«Ascoltami, vuoi capire che non sarà MAI come prima? Ma te non riesci a mettertelo in testa. Il tuo problema sei solo te stessa.»
La verità fa più male di quello che le persone insegnano. Non è solo un bruciare dell'orgoglio come insegnano i film o alle elementari. Quando la verità è più grande di noi, riesce anche a distruggerci lentamente. E non c'è niente che noi possiamo davvero fare. Quell'ultima letale frase, la stessa con cui Fred mi ha detto addio. Il tuo problema sei solo te stessa. È sempre stato così e le persone che ho amato più di tutto, l'hanno sempre saputo. Rimango a sprofondare nella mia terribile verità, in questo corridoio, a guardare Bea andarsene a grandi passi. Negli occhi di tutti i ragazzini che vivono per questo: la mia vita sociale che Claudia condivide, pure in questo momento sono nell'obiettivo della camera di quel maledettissimo telefono. Inizio a piangere prima lentamente, poi disperatamente. Così vulnerabile, così debole. Questa non sono io, questa è quella che Beatrice Galli ha creato. E l'unica persona che non mi sarei mai aspettata di vedermi cercare è quella che raggiungo correndo. Edoardo è seduto su una panchina con la sua fidanzata. Quando mi vede si alza e mi guarda preoccupato, senza lasciarlo reagire gli arrivo addosso singhiozzando. Mi stringe tra le braccia forti e sento che potrei sprofondarvi dentro per sempre, se solo il mondo non esistesse e non possedesse al suo interno persone come la bionda che arriva a tirarmi i capelli pur di strapparmi dal suo ragazzo. Mollo la presa, per il male provocato da quella specie di pazza sclerata che mi chiede quale cazzo di problema abbia.
«Sabrina, lasciala stare!» sbraita Edo veramente arrabbiato.
«Lasciarla stare? Ma ti senti quando parli? Questa arriva e ti salta addosso come se fossi l'ultimo maschio sulla terra ed io non dovrei fare niente?!»
Sento la sua vocina petulante svanire, mentre mi allontano e mi rifugio nell'unico posto in cui posso trovare pace: la palestra. Rimango in piedi, cercando di tornare a respirare regolarmente. La vista appannata dalle lacrime inizia a liberarsi, le idee ad ordinarsi.
«Melissa!»
Edoardo è qua, ma io non voglio nessuno, non voglio averne bisogno. E faccio l'unica cosa che mi viene naturale: scappo. Corro tra i gradoni della tribuna, scavalco il muretto, corro nel campo fino a nascondermi nello sgabuzzino buio degli attrezzi. Mi chiudo dentro a chiave, in attesa che gli occhi si abituino all'oscurità.
«Meli per favore apri.» chiede Edo colpendo la porta.
«Edoardo vattene via, per favore.»
«Non me ne andrò da qua.»
«Vai via, per favore...» imploro scoppiando di nuovo a piangere.
«Non se ne parla proprio.»
Continuo a piangere, seduta nel nulla, un po' come nella mia vita.
Passano i minuti forse a decine. Non ho più sentito rumori fuori dalla porta, forse Edoardo se n'è andato. Quando inizio a convincermene lui parla di nuovo.
«Meli, lo sai che le cose non vanno sempre bene a tutti? Anche nei film o nei cartoni animati ci sono sempre delle prove da superare. L'eroe per avere il suo lieto fine deve combattere cose più grandi di lui. Ma quando ci sei dentro, devi solo pensare a quanto sei vicina alla fine.» fa una piccola pausa «Nemmeno ad una fuori dal comune come te, va sempre tutto bene.»
Fuori dal comune? Decisamente ha centrato il punto. Mi chiedo solo se è un complimento o no, ma finora non s'è mai dimostrato come tale. Decido di aprire la porta e lo trovo seduto per terra, come me. Alza la testa, ma non si muove.
«Vieni.» gli dico monotono.
«Non è che sia così invitante, ma accetto.» ironizza seguendomi.
Chiudo di nuovo la porta e mi rimetto seduta, appoggiando la schiena a quello che potrebbe essere un armadietto. Edo è seduto a fianco a me. Sento il suo respiro affannato nel silenzio.
«Da piccola avevo il terrore delle gallerie. Quando entravamo in macchina, io mi nascondevo per terra, sui tappetini sotto i sedili e mi coprivo occhi e orecchie. Avevo paura che quel buio senza fine potesse risucchiarmi. Odiavo il punto in cui ne davanti ne dietro si vede più la luce, rimani solo e senza via d'uscita, nell'oblio. È così che mi sento ora.»
Lui non risponde, continua a respirare colmando il silenzio che mi farebbe sentire solo il mio malessere. Mi focalizzo su di esso, cerco di sincronizzare il mio al suo e i pensieri pesanti sembrano quasi svanire. Improvvisamente sento Edo alzarsi e muoversi, finché la luce si accende. Lo trovo in piedi con un dito sull'interruttore, serio in volto.
«Anche nelle gallerie più lunghe c'è la luce, sai?»
Fa un bel sorriso, che pare angelico in quella luce troppo forte per i miei occhi ormai abituati all'oscurità e rispegne la luce.

Tutti pazzi di leiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora