Come animali da circo

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Arrivarono a Capitol City prima di quanto la ragazza si fosse mai aspettata.

L'aggettivo che primeggiava nella testa di Annie, per descrivere la capitale, era uno solo: pazzesca.

Ma non era un "pazzesca" nel senso positivo della parola. No, era un "pazzesca" che prendeva il significato dalla radice: pazzo.
Perché tutto poteva essere Capitol City, ma più di tutto era una città di pazzi.
In primo luogo per via degli Hunger Games.
Quale persona con un briciolo di amor proprio e di senno avrebbe spinto  dei ragazzini, perché era di questo che si stava parlando, verso una  lotta all'ultimo sangue, nella quale questi perdevano la ragione e si  tramutavano in animali?
Come potevano non pensare a cosa avrebbero provato se nell'Arena ci fossero stati i loro, di figli.
In secondo luogo, per la festa assolutamente inadeguata per il momento.
I tributi arrivavano, consci della loro probabile morte, e li  accoglievano festeggiando e stappando spumante, come se si aspettassero  l'evento più importante dell'anno?
In fondo, erano quelli gli Hunger Games: il miglior intrattenimento della popolazione di Capitol City.

Per tutto l'anno non facevano che parlare dei grandi Giochi, di come si  sarebbero svolti, di quanto avrebbero puntato per le scommesse. Per due settimane avrebbero assistito 24 ore su 24 agli Hunger Games,  decisamente in fibrillazione ed infine, quando sarebbero finiti,  avrebbero ricominciato a parlarne, non vedendo l'ora dei prossimi.

Era così, nella capitale. Ormai i giochi erano diventati un'ossessione  febbrile per gli abitanti.

Come si poteva sperare in un futuro libero  dalla carneficina, se questa rimaneva la maggior attrazione per il  Distretto più potente di tutti? Guardando fuori dai grandi finestrini, Annie scorgeva persone abbigliate nei modi più stupidi del pianeta.

Scorse una donna con la pelle blu, i capelli per aria, argento e le ciglia lunghe quasi trenta centimetri. Più in là, ecco che si stagliava la figura di un uomo corpulento, con il  rossetto verde, i denti a colori alterni, un completo assurdo: la parte  sinistra gialla e quella destra fucsia.
Accanto a lui, probabilmente la moglie, una donnina piccola con le  palpebre pesantemente truccate di lilla, dei tatuaggi sulla faccia, a  forma di fiori e unghie lunghe almeno un metro.
In braccio sorreggeva un bambino, con la pelle a pois neri.

La ragazza scosse la testa, con un moto di repulsione.

Là fuori, la gente la acclamava. La accoglieva come un animale da circo, probabilmente già pregustandosi la sua morte atroce.

"Mi fanno ribrezzo" commentò Euer tra i denti, salutando con una mano ed esibendo un sorriso fintissimo.

"Allora smettila di agitare la mano come uno spastico" replicò acidamente Annie.

Lui si girò a guardarla per qualche istante, con un sorrisetto.

"Quelle persone fuori potrebbero diventare i nostri sponsor e magari aiutarci a sopravvivere nell'Arena" disse.

Giusto, i giochi.

Euer doveva rimanere in vita. Lei lo doveva aiutare.

Si alzò meccanica dalla poltrona e si avvicinò al finestrino.

Mordendosi l'interno della guancia e con la voce interiore che le  gridava di non farlo, alzò il braccio e iniziò a salutare  amichevolmente.

Era terribile.

Si sentiva una completa idiota.
Fortunatamente non aveva nessuno specchio di fianco, perché sarebbe  scoppiata o a ridere o a piangere per la smorfia che doveva avere in  volto.

Rimase a salutare una folla di macellai al di fuori del finestrino,  ringraziando Dio che esistesse quella flebile barriera che li separava.

Fosse stata più forte, li avrebbe uccisi tutti, all'istante.

I giochi di Annie CrestaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora