Capitolo 53- "Il valore della famiglia"

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-Jenny

Sarebbero stati eternamente eterni tutti quei giorni senza te, eppure continuavo a non darmi per vinta.

Erano passati giorni da quando avevo lasciato casa nostra.

Erano passati giorni da quando avevo cominciato a rispondere a monosillabi ai messaggi, ad accettare solo 1/2 videochiamate al giorno, ad evitare di rispondere alle chiamate.
La situazione era davvero difficile da tenere sotto controllo, e tutta questa rabbia non aveva fatto altro che causarmi degli insopportabili mal di testa che non facevano altro che peggiorare la mia situazione, la realtà dei fatti. 

Ero stanca di considerarmi ed essere considerata cattiva, l'intrusa, la persona sbagliata ovunque e con chiunque, e sentivo finalmente questa strana sensazione.. questa esplosione di emozioni dentro di me che necessitava emergere dopo una vita passata a capire chi fossi e quale fosse il mio vero compito. L'avrebbero pagata tutti i responsabili del mio dolore.

Mi ero stancata di essere manovrata da quel pezzo di merda. Dovevo riprendermi la mia vita, il mio piano.

Avevo promesso di sopravvivere, di sopravvivere a quest'atroce battaglia che ormai sembrava star togliendomi anche il respiro. E adesso anche le uniche ragioni per le quali io stessa continuavo a mantenere lucida la mente e a non agire d'in pulso.

Ma sarebbe finita, sarebbe finito tutto. E sarebbe tornato tutto alla normalità, erano queste le parole che mi rassicuravano ogni mattina, ad ogni mio sbalzo d'umore, in questi lunghissimi giorni passati rinchiusi qui, con quell'essere schifoso che avrebbe dovuto patire le pene dell'inferno un giorno o l'altro.

Quello stronzo mi stava usando come pedina per i suoi giochetti. Mi aveva anche tolto il mio cellulare, dandomene in prestito uno che poteva soltanto chiamare e messaggiare per 15 minuti ogni 3 ore.

Uno strazio.

Mi aveva persino impedito qualsiasi altro mezzo per comunicare con la mia famiglia. Lo stava facendo appositamente. Potevo vedere la sua goduria ogni volta che lo guadavo vedermi soffrire.
Ormai era lui a muovermi, a far di me una sua marionetta. Odiavo dipendere da qualcuno, specie da qualcuno come lui. Avrei tanto voluto far qualcosa, ma avevo paura che il tutto, una semplice mossa azzardata si sarebbe potuta riversare su di me, sui ragazzi o semplicemente sul mio piano, e rovinare tutto, tutto.

Eh sì, stare zitta, stare all'oscuro, stare rinchiusa in uno schifoso stanzino non era forse qualcosa che ti entusiasmava particolarmente, però ti opprimeva, ti opprimeva davvero così tanto che non riuscivi più neanche ad incanalare abbastanza aria nei polmoni e non ti era quasi più naturale respirare, per vivere.

Capivi solo all'istante quanto e come si differenziasse la vita di un adulto da quella di un bambino.

La vita del bambino non ha scopi, non conosce il mondo, le persone che lo circondano, conosce solo i suoi genitori che lo amano alla follia e qualche compagno che troverà all'asilo nei suoi primi anni di infanzia.

La vita di un bambino non dipende da nessuno. È così vivace e piena di vitalità che a tutti piacerebbe farne parte; magari viverla, viverla per sempre, avere la stessa mentalità di sempre, senza responsabilità, senza paure.

E che dire invece della vita di un adulto eh? Vi sono forse sinonimi? Qualcosa di particolare che le accomuna?  No, non di certo.
La vita di un adulto è così estrema, così ambigua, meschina, mediocre.

Sbaglio forse a paragonarla alla mia? Sbaglio forse a considerare la mia vita meschina ed estrema, nonostante si possa pensare che io abbia ancora un futuro davanti a me? D'altronde, i miei 18 anni stavano per arrivare, ma non riuscivo ad immaginare me stessa davanti ad un'enorme torta di compleanno ornata di tante candeline ad esprimere un desiderio. Cosa mai avrei potuto desiderare? Una vita migliore? Che tutto finisse? Che venissi punita per tutte le sofferenze provocate?

Forgive me » n.hDove le storie prendono vita. Scoprilo ora